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Riflessioni a margine del nuovo libro di Elisabetta Motta “Le voci della rosa”: quale posto hanno nel nostro tempo le voci dei poeti?

 

 

A distanza di un anno dall'affascinante volume dedicato a “Mostri e prodigi”, (vedi Mostre e prodigi), Elisabetta Motta, vicepresidente della Casa della poesia di Monza, propone “Le voci della rosa”, edito da Pendragon: una nuova, ricchissima antologia poetica, iconografica e musicale. Ancora una volta, la docente e critica seregnese ha riunito attorno alla sua ricerca tematica i contributi di artisti che accompagnano con immagini ( gli acquerelli di Luciano Ragozzino) e suggestioni sonore (le musiche di Vincenzo Zitello) i testi poetici da lei scelti: testi ricondotti, capitolo per capitolo, non solo alla poetica dei nove autori contemporanei da lei selezionati, ma anche a quella infinita messe di versi, simbologie, leggende e tradizioni che troviamo nella letteratura occidentale d'ogni tempo attorno al tema della rosa. Un libro denso, pieno e “aulentissimo” proprio come certe rose che si possono ammirare nel Roseto della Villa Reale.

 

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Vincenzo Zitello

 foto di Giorgio Formenti

Alle numerose presentazioni che sono seguite alla sua uscita (fra le quali quella, molto partecipata e appassionante, dello scorso 3 marzo alla Biblioteca Ettore Pozzoli di Seregno) e a quelle che ancora seguiranno ( in particolare, il 14 Maggio presso la Villa Reale per la manifestazione annuale "La bella di Monza"), si aggiunge un booktrailer curato da Carlo Bava (visibile qui). 

Già da tempo la Casa della Poesia di Monza convoca ogni anno nel giardino di rose voluto da Niso Fumagalli, e a lui intitolato, musicisti, poeti, danzatori, per celebrare questo fiore, ed è da questa esperienza che è nata, come racconta l'autrice, la passione per la ricerca attorno alla “potenza semantica” della rosa che ha nutrito questo libro.

Fin dai suoi esordi la poesia occidentale tutta, coi lirici greci, e la nostra, coi poeti della scuola siciliana, incessantemente è stata attratta dall'inesauribile valenza simbolica che dalla contemplazione di una rosa promana. A ripercorrere la storia di questo legame “faremmo notte”, come ha detto Giancarlo Pontiggia, autore della prefazione a questo saggio, durante la sua presentazione a Seregno.

Profondamente consapevoli dell'impossibilità di catturarne il mistero, i poeti tuttavia sembra non riescano a sottrarsi al fascino della rosa, tanto da suscitare una sorta di ribellione in una poetessa come Maria Luisa Spaziani, che, essendosene anche lei lasciata conquistare, nel suo “I fasti dell'ortica” ha voluto contrapporre a tanto protagonismo la celebrazione dell'irritante e negletta erba dei campi.

Ė anche da questo inatteso e solitario scarto che si insinua una domanda: può un tema che ha una tradizione millenaria, che spazia dalla religione all'alchimia, continuare a parlare al nostro immaginario senza logorarsi, senza apparire stucchevole o scontato?

Se lo è chiesto anche il poeta svizzero Fabio Pusterla: “Per molto tempo,..., penso di non aver mai neppure pensato in termini poetici alla rosa, e la ragione è che la rosa è un fiore fin troppo ovvio e poeticizzato, che forse mi sembrava parte di un lingaggio poetico dal quale prendevo le distanze”. Ma questo finchè non ha visto una rosa dei ghiacci, una rosa “fiorita fuori tempo massimo, in una stagione ormai poco propizia.” Come la nostra, appunto.

Il merito principale, tra i moltissimi di questo nuovo saggio di Elisabetta Motta, è per me la sottolineatura del ruolo che la poesia, della quale la rosa diviene emblema, ha nel nostro arido e distratto presente, con la sua capacità di resistere contro “il franare della cultura e della storia,...la dissacrazione e la mercificazione che tutto travolge, il gelo dei cuori.”

 

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Elisabetta Motta e Giancarlo Pontiggia (scatto di Enrico Porro)

 

La parola poetica ha “un ruolo determinante nell'affrontare i momenti dolorosi e difficili della nostra esistenza, ma anche rivoluzionario nel farsi strumento per combattere la banalità, il conformismo dilagante e aiutarci ad essere veramente liberi e interiormente vivi”: è questa la rivendicazione del ruolo salvifico della poesia che Elisabetta Motta segnala nel saggio di Donatella Bisutti “La poesia salva la vita” (Mondadori, 1992).

Ma questo incessante rifiorire della poesia, e in generale dell'arte, di tutto ciò che è ricerca di una bellezza che veicoli riflessione e autenticità, ha bisogno di trovare un terreno che lo accolga e lo nutra; e sfortunatamente, per continuare nella metafora, sono ben pochi nelle nostre città cementificate gli spazi lasciati alle rose.

Le immagini dei venditori ambulanti di rose, presenti nei versi del già citato Fabio Pusterla e del poeta dialettale veneto Fabio Franzin, mi sono sembrate a loro volta quasi un emblema della condizione dei poeti nel nostro tempo: figure solitarie e quasi aliene che ci si fanno accanto mentre siamo presi dalla nostra svagata quotidianità e che ci infastidiscono con la loro offerta. Perchè essa comporta una richiesta che non siamo disposti a soddisfare o forse solo perchè non apprezziamo quei fiori, pretendiamo di non averne alcun bisogno:

 

E così ci sorprendono in un bar

o dentro un' osteria d' amici in festa

rose rosse di sangue,

esili fiamme pervicaci spine

notturne di buona e cattiva coscienza,

le rose senza pace,

...

Quasi senza profumo né fulgore

rifulgono però le misteriose

rose del vecchio giovane tamil

che sorride, sfiorisce nelle tenebre

e di nuovo oltrepassa il confine

e davvero non sa trattenersi

né più sa sognare di farlo

che va e non lascia traccia oltre lo stelo

contorto, le foglie un po' peste

il bocciolo che tace ”

 “Esili fiamme”, quasi senza profumo, quelle rose, perchè nate in “serre desolate”, sotto “cieli opachi”, “rifulgono però”, ed è questo il loro mistero. La poesia non ha nel nostro tempo lo splendore, la gloria che le civiltà del passato le hanno attribuito, e tuttavia fiorisce e umilmente si offre anche al nostro freddo presente.

Così Fabio Pusterla.

Il poeta-operaio Fabio Franzin esprime a sua volta la pena, il dolore per il rifiuto di quell'offerta immeritata “di bellezza e amore”, attraverso l'immagine del ragazzo filippino incontrato a Venezia vicino alla stazione, “la testa bassa/le mani contro gli occhi, non so se/ stia piangendo o pregando, se/ sia disperato o solo esausto/ ma quel mazzo di rose rosse/ sparse davanti ai suoi piedi, a comporre/ un tappeto di spine e carne/ di baci e bugie accanto/ alla pozzanghera, in questa sera/ triste dopo il temporale/ è un grido di bellezza e amore/ che Venezia e forse il mondo/ intero pare non meritino più ormai.”

E ancor più triste gli appare la vista del mazzo di rose scarlatte gettate nel cestino dei rifiuti, tra le cartacce unte e le lattine, ancora avvolte nella confezione del fioraio, “come installazione artistica di un'epoca/ che schiaccia, e lascia solo resti.”.

Mi permetto di riportare solo la traduzione del testo dialettale, così dolce nella sua sonorità originale, che certo la dizione orale renderebbe meglio di una trascrizione; così come mi sono permessa una lettura personale e assolutamente riduttiva della grande molteplicità di temi e suggestioni che questo saggio offre, perfino nella sua postfazione: affidata all'agronoma Maria Cristina Pasquali, esperta delle 150 specie di rose da cui derivano centinaia e centinaia di ibridi, con la loro inesauribile varietà di forme, colori e profumi, portamenti, ci accompagna nelle sue pagine attraverso altre variazioni sul tema del fiore e del suo nome.

Il lavoro di Elisabetta Motta, in questo suo convocare tante voci, tante suggestioni rivolte da ogni parte alla nostra sensibilità e intelligenza, mi pare risponda all'intento di contrastare l'indifferenza del nostro tempo alla bellezza della poesia, ci ricorda come le rose siano altrettanto necessarie del pane, come siano nutrimento dell'anima e del cuore; e come, dismesso per fortuna il preteso ruolo di “vati”, i poeti vogliano oggi, come fa Alberto Nessi, invitarci a piantare le rose selvatiche nel nostro “vaso sotto alla finestra” affinchè “proteggano noi e le nostre figlie e anche/ i disperati in fuga in questi boschi profondi.”

 

 

Gli autori di Vorrei
Carmela Tandurella
Carmela Tandurella

Se scrivere è “scegliere quanto di più caro c'è nel nostro animo”, ecco perchè scrivo prevalentemente di letteratura. Storia, filosofia, psicologia, antropologia, tutte le discipline che dovrebbero farci comprendere qualcosa in più della nostra umanità, mi sono altrettanto care, ma gli studi classici, la laurea in filosofia, anni di insegnamento e una vita di letture appassionate mi hanno convinto che è nelle pagine degli scrittori che essa si riflette meglio. Il bisogno di condividere quello che ho letto e appreso, che prima riversavo nell'insegnamento, mi ha spinto ad impegnarmi prima con ArciLettore, poi, dal 2013, con Vorrei, del cui direttivo faccio parte. Da qualche anno sono impegnata anche nella collaborazione alle pubblicazioni e alle iniziative del Comitato Antifascista di Seregno e del Circolo Culturale Seregn de la memoria, di cui sono attualmente vicepresidente.Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.