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Libri. La sua poesia era già stata ospite della nostra rivista. Una lettura dell'ultima raccolta di Carla de Falco

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er gli amanti della poesia in cerca di nomi nuovi da mettere alla prova, Carla de Falco è un'autrice da tenere in considerazione. Dopo l'esordio di due anni fa con Il soffio delle radici (Laura Capone Editore; ne parlammo in questo articolo), la poetessa partenopea prosegue il proprio discorso poetico con una nuova raccolta: La voce delle cose (Montag). Una poesia, dal taglio nobilmente novecentesco, di resistenza contro il mondo-discarica in cui siamo costretti a vivere. Attraverso queste due parole chiave, proveremo a inquadrare lo stile e la poetica, poi effettueremo una rapida escursione nella struttura del libro.

Le cose e il loro senso

Le "cose" di cui è pieno questo libro sono i piccoli oggetti di ogni giorno: un vero e proprio campionario si dispiega davanti agli occhi del lettore. Perlopiù, si tratta di cose minute, di scarso valore materiale: sono carcasse di granchi, cocci, morte conchiglie. Trucioli, frantumi di esistenza, come erano quelli di Camillo Sbarbaro quasi un secolo fa, che testimoniano l'incompatibilità definitiva fra mondo attuale e poesia. Eppure, nella contraddittoria pratica dell'autrice (ostinata a scrivere versi in un mondo che non è più in grado di riceverne, e forse nemmeno di suscitarne) rimane quel senso di resistenza che accomuna Carla de Falco alla più sofferta poesia del Novecento, un secolo che, dal punto di vista poetico, probabilmente non è mai terminato.

Nei componimenti, assistiamo dunque alla messa in scena del conflitto fra questo campionario di oggetti e il mondo che non sa più disporli, o meglio impedisce all'uomo di disporli in un modo qualsiasi. È il trionfo della mancanza di senso, testimoniato dalla perdita di senso anche delle cose più piccole e inerti. È il mondo-discarica, un mondo dove le cose non possono che accumularsi senza alcun ordine, né significato.

Pur non utilizzando l'autrice quest'espressione, la formula rappresenta al meglio l'ambiente nel quale si muove l'io poetico, che è invece alla ricerca di un modo per riattivare il senso, cercando un'alleanza con le cose. Gli oggetti cantati in questa raccolta saranno inutili per sorte, come ormai sono diventati anche gli umani, ma proprio come la poesia non possono far altro che esistere e opporre il proprio concreto esserci allo stallo esistenziale. Ecco in che cosa consiste il canto di resistenza allo sconcio e per certi aspetti banale svolgersi del male, in contrasto con le aspirazioni dell'animo umano. Tanto degradato, sconfitto e umiliato nelle proprie ambizioni, da trovare confronto e fratellanza nelle cose, negli oggetti, di cui cerca di ascoltare la voce come seguendo le orme di un fanciullino di pascoliana memoria, incontrato per caso fra i relitti e le discariche della modernità.

La rappresentazione delle scene messe in atto nelle poesie è impressionistica, va per pennellate ampie, ed è contraddistinta da quella traccia cromatica che è ormai un tratto distintivo dell'autrice: fra carcasse arancioni e cieli che si fanno viola, il suo occhio percorre lo spettro cercando forse nelle linee di confine tra un colore e l'altro la maglia rotta nella rete, l'anello che non tiene. Il riferimento montaliano non è gratuito. Con il poeta degli Ossi di seppia l'autrice ha in comune l'attribuzione di un ruolo alla poesia: un ruolo di staffetta, di esploratrice, di occhio vigile.

Dal punto di vista stilistico, l'autrice mostra di aver conservato la solita padronanza sonora, la sicurezza nell'intessere giochi di rime e assonanze, con rimandi fonici che si rincorrono da un testo all'altro della silloge. L'allitterazione mette in luce alle volte il contrasto, anche esibito in chiave di scontro fra registri diversi, fra realtà e aspirazioni dell'io poetico, come per esempio nel verso fiuto umiliato da mille fregature.

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Una ricerca per gradi

La raccolta si articola in tre sezioni: Scorci, Tratti e Miti (racchiuse da una ouverture e una chiusura), quasi a voler indicare una possibile progressione nel percorso dell'io poetico e del lettore nella loro ricerca congiunta del senso perduto. Fin dai primi versi dell'ouverture ci sono già le cose, che parlano o si lasciano parlare: un universo di oggetti che prendono vita e respirano come fossero anime (con una certa compenetrazione animato/inanimato).

Nella sezione Scorci, la più consistente, l'io poetico comincia la propria indagine fra le cose, cercando appunto quelle aperture in grado di illuminare il grigiore, restituirgli i colori. Così, il ricordo di un mondo assolato e durissimo contenuto in un chicco d'uva è un'ancora di salvezza: la dignità umana resiste ancora, nella memoria di una realtà forse scomparsa per sempre, eppure ancora in grado di emanare un bagliore di esistenza. E trovare la strada potrebbe essere ancora possibile, magari attraverso il sogno, veicolo privilegiato per scoprire gli scorci che si aprono sul mondo-discarica e permettono al poeta di intravedere ciò che è perduto, ma non ancora scomparso del tutto. Alla poesia il compito di mantenere vive le rovine del bene che fu, e costruirne, perché no, nuovi miti.

Quest'assunzione di responsabilità, in generale dimessa e rassegnata, non è immune da scatti d'orgoglio, come nel componimento dal titolo la brezza viola della sera, in cui l'io poetante traccia un confine netto fra chi può e chi non può fare poesia. Reazione di fiera difesa e battagliera sortita davanti a uno stallo esistenziale urgente e quasi opprimente.

Battagliero è anche l'appello a Napoli, nella poesia diaspora, testimonianza di un impegno poetico che è anche civile, sofferto e reso difficile da uno stato di cose talmente incrostato che è forse più facile abbandonarlo che non ripulirlo. Del resto, l'autrice ha sempre fatto di Napoli, e più in generale del Sud, un tema portante della sua poesia. Un sud vissuto come frontiera, talora in senso polemico (un far west abbandonato a se stesso), altre volte in senso metafisico e spirituale (una frontiera del pensiero, un sipario che si chiude su limiti e certezze).

La sezione Tratti si apre con un documento di consapevolezza (verso gli anta): lo stesso io poetico dichiara la paura di aver perso in modo irrimediabile il contatto con le cose, con le cose che l'hanno emozionato. Segno di uno sforzo continuo e gravoso, che setacciando l'esistente alla ricerca degli scorci non può evitare di perdere fra le maglie altrettanti tesori fra i tanti portati invece in salvo. Si tratta di onestà dell'agire poetico. Lo sguardo su di sé si fa anche impietoso, come nella dura poesia specchio, testimonianza di un impegno non solo poetico ma esistenziale, e pratico, che marchia il corpo tanto quanto lo spirito.

Parallela al canto del sud visto in diaspora, la poesia civile entra anche sotto altra forma in un gambo di rosa, che con i tipici stilemi immaginifici dell'autrice, improntati qui a un crudo e indignato espressionismo, denuncia la violenza fisica e verbale a cui tante donne ancora devono sottostare in questo mondo-discarica, che pure per molti è il migliore fra quelli possibili.

Se gli Scorci si concentravano sulle maglie rotte nella rete, pur passando inevitabilmente attraverso l'occhio dell'osservatore, qui invece è l'io poetico il riferimento principale, con i suoi "tratti", con le sue manchevolezze umane e i suoi sforzi sovrumani di attaccamento al mondo migliore perduto, ma anche con i suoi dubbi.

In questa sezione si manifesta il desiderio di farsi cosa fra le cose, recuperare il senso perduto fondendosi con la natura (nuova alba). Ed ecco subito dopo materializzarsi Dafne, al tempo stesso donna, ninfa e pianta, presa qui come simbolo di una compenetrazione fra umanità e natura irrecuperabile, immaginabile solo come mito, ma pur sempre capace di ispirare.

Capace di ispirare è anche l'insegnante – e qui l'autrice ci immette quasi senza filtri nel suo vissuto. Nella poesia gli strumenti del maieuta, il reificarsi dell'io poetico si concentra su tutto ciò che serve a stringere un patto fra maestro e discepolo, nel tentativo di saldare in una nuova alleanza i capi di quel ponte che unico, forse, potrà condurre a un mondo diverso dalla discarica in cui ci muoviamo. L'amore per la cultura più che scorci può aprire finestre, ma bisogna lasciarglielo fare. Soprattutto, però bisogna avere il coraggio di rinunciare a vedere l'estate del raccolto: non pretendere cioè risultati, tutti e subito, ma avere la pazienza di aspettare che maturino, anche se non se ne godrà. Una lezione, più che per gli insegnanti, per chi ha il potere di aiutarli o di umiliarli, e che sempre più spesso sceglie la seconda strada.

La reificazione, però, in chiusura della sezione Tratti, mostra anche un limite pesante. Se in dafne – autoritratto e ne gli strumenti del maieuta la capacità del poeta, e più in generale dell'uomo, di farsi cosa fra le cose permetterebbe un recupero dell'autenticità dell'esistenza, il rovesciamento de il congelatore ci ricorda invece il fallimento a cui è destinato qualsiasi mondo in cui le cose diventino più importanti delle persone.

Conclusioni provvisorie

Inevitabile, alla luce di tutto ciò, che la sezione Miti non contenga soluzioni allo stallo esistenziale, né costruisca facili vie di scampo dalla discarica. L'io poetico mette in guardia, anzi, dal rifugiarsi in miti che semplifichino l'esistente. Perché l'esistente è complesso, multiforme, complicato e solo affrontandolo come tale può delinearsi una vera strada, il ponte già menzionato. Fedele al proprio solco di appartenenza poetica, Carla de Falco non scrive per dare soluzioni (sa che sarebbero vuote, finte, inadeguate), ma incita a disvelare la disarmonia dell'esistente, a non accontentarsi, a cercare ognuno il proprio mito, la propria via di fuga dalla discarica del mondo. Il proprio dialogo con Euterpe, insomma, la musa matura, mai anziana che ha la durata di un frammento ma non si consuma. In cerca non di un paradiso artificiale, ma di una dimensione più umana. E se la conclusione di la mia intervista ("di me non domandare / che su di me proprio non so mentire / di me posso solo confessare / che vivo un’affollata solitudine / sognando la formula o l’antidoto / per ingannare il tempo ed il suo pianto") risulta amaramente consapevole dell'insufficienza di ogni risposta, tuttavia non fa che confermare l'impegno nella ricerca di quella dimensione, corroborata, perché no, dal soffio gentile e sincero della poesia.

ALCUNE POESIE di La voce delle cose

I titoli delle poesie, anche nelle citazioni, sono in minuscolo per scelta dell'autrice.

il posto delle cose

mi piace guardare nelle case
scoprire il costo delle storie
scrutare il dettaglio oltre le cose
sentire l’odore che le infetta.
e penso gli oggetti abbiano un senso
un gusto, un orientamento
a volte stanno dentro un posto giusto
a volte sono altrove, come lontane.
le cose raccontano le mani
un ordine, la polvere, la cura
gli oggetti hanno dentro pezzi d’uomo
e sussurrano l’abbraccio del ricordo.

la brezza viola della sera

e l’aria muove le cose
cocci malfermi di case
chiodi ficcati nella terra
frutti di resistenza
onde parate a festa
e note di rosarancio.
con saggissimo orgoglio rifletto
sul dispotismo mite del cielo
l’azzurro muore e si fa viola
il giorno nella sera trascolora.

non è per tutti, la poesia.

diaspora

                                       ALLA MIA CITTÀ

 ancora uomo libero tra servi
in questa serva terra le cui zolle
non sono più ventre di radici
vivi e patisci, pulcinella,
l’oltraggio delle smorfie
e la dura tracotanza silenziosa
di tante, troppe maschere di paglia.

 questi servi non vestono di stracci
ma sfoggiano abiti di gucci
onorano i ladri come martiri
e giocano a palla con pupille
di diavolesse bianche, nere e gialle.

 sei assai meglio tu di loro, in questa terra.
aiz’a maschera e vattenne, pullecenella.

sipario

allunga le sue ombre
sorge e copre
come dismessa veste
il mare dissanguato
gli orecchi intorpiditi
calici violati.

 induce sottrazione
misura l’intervallo
tra oniriche distanze
e caotiche coscienze.

 ha sapore di frontiera
a sud, la sera.

dafne, autoritratto

oscillo
come vento pendulo dal cielo
tra intricate nevrosi di radici
e la fragile vanità delle mie foglie.
fermo
il mio tempo vibra dentro
ogni colpo incide la corteccia
e scrive un cerchio nero sangue
nella pancia dura come scorza.

un gambo di rosa

non c’è bisogno dell’urto
del sangue, la carne, lo stupro
a volte le mani nude
bastano sole a strappare
il sorriso a una donna che sboccia
ad inginocchiarle il pudore
renderle livida l’anima
e farla sentire peggiore.

 luridi vermi di bava
cesoie sopra la preda
spiccata da un gambo di rosa.

gli strumenti del maieuta

sono cesello di pensieri e spunti:
religione di accenti, verbi e punti.
sono fotografia dentro la memoria:
rivelazione, duratura o transitoria.
sono proteina per saltare timori vani:
il tempo della resa è per anziani.
sono la scala del vecchio sestante:
dentro le mappe del verso e della voce
sono misura per amare dante.
sono aratro per tracciare dentro
solchi ove tu possa prima o dopo seminare.

insegnare in fondo è rinunciare
a vedere l’estate del raccolto.

Gli autori di Vorrei
Simone Camassa
Simone Camassa

Nato a Brindisi il 7 maggio del 1985. Insegnante di Italiano, Storia e Geografia nella scuola pubblica, si è laureato in Lettere, in Culture e Linguaggi per la Comunicazione e in Lettere Moderne, sempre all'Università degli studi di Milano. Suona la chitarra elettrica (ha militato in due gruppi rock, LUST WAVE e BLACK MAMBA) e scrive poesie.

Appassionato di sport, ha praticato il nuoto a livello agonistico fino ai diciotto anni, per un anno ha anche giocato a pallacanestro. Di recente, è tornato al cloro.
È innamorato della letteratura in tutti i suoi aspetti, dalla poesia fino al fumetto supereroistico statunitense. Sogna di realizzare un supercolossal hollywoodiano della Divina Commedia, ovviamente in forma di trilogia e abbondando con gli effetti speciali.

Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.