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Amelio, Cupellini, D'Angelo, Rubini, Scola. La lettera come funzione narrativa imprescindibile, all'ultima Festa del Cinema di Roma.

S

ergio Rubini,  protagonista di Finalmente Truffaut, è stato presente alla Festa del cinema di Roma anche con il suo ultimo film, Dobbiamo Parlare, di cui è autore, regista e interprete.

 
Trailer di
Dobbiamo parlare di Sergio Rubini

Guarda caso anche qui compare una lettera scritta a mano, quando Alfredo (Fabrizio Bentivoglio) prova a recuperare il rapporto con la moglie Costanza (Maria Pia Calzone) che ha scoperto il suo tradimento. Che sia funzionale ad uno snodo narrativo o sia una delle tante metafore dell’incapacità dei personaggi di comunicare, sorprende la presenza di una lettera scritta a mano in un film caratterizzato da mezzi di comunicazione della tecnologia contemporanea: i protagonisti sono ossessionati da un cellulare che suona in continuazione e le prove del fatidico tradimento si trovano in una chat di Whatsapp.

Dobbiamo parlare indaga la forza dell’amore contrapposta a quella del denaro nella ricerca della felicità, i conflitti irrisolti delle coppie anche a causa della loro incomunicabilità. Due coppie a confronto: quella degli intellettuali scrittori che sembra appagata dalla forza dell’amore e quella borghese di medici che gestisce il matrimonio come un’azienda familiare. Due generazioni a confronto, rappresentate dalle donne, la trentenne e la cinquantenne, con le loro differenti visioni sull’amore. Quattro personaggi uniti da un non detto che esploderà nel corso della notte frantumando le maschere indossate da ciascuno di loro quotidianamente.

Rubini si chiede se l’amore con la A maiuscola sia sufficiente a tenere insieme due persone per la vita, in una società in cui i beni materiali e le proprietà da condividere e da dividere sono ritenuti la causa di incomprensioni, egoismi e segreti di varia natura. Ma se fosse invece l’amore ad imbrigliarci, a nascondere il nostro vero Io e a bloccarci nella realizzazione di noi stessi? E ancora cosa succede quando poi si inizia a parlare per davvero?

Dobbiamo parlare è un film al femminile, non solo perché solitamente sono le donne a pronunciare le due parole del titolo e a richiedere un confronto, ma perché «le donne sanno dire “Dobbiamo parlare”, ma le donne sanno anche non parlare».
Così fa Linda (Isabella Ragonesi), il personaggio che uscirà più cambiato dalla notte di confessioni a contagio. La trentenne che per quasi tutta la narrazione sta in ascolto e vive la sua vita all’ombra del compagno, alla fine compie un grande atto di coraggio e porta un messaggio di speranza alla generazione alla quale appartiene:
«Mi ha molto colpito e in qualche modo anche ferito interpretare questo ruolo, perché dice (....) la nostra paura, la nostra fobia di proporre la nostra idea di mondo, di prendere la scena o forse di costruirci una scena nostra. (...) La mia è stata (...) una generazione che aspettava il suo turno, che aveva un futuro disegnato da altri, che doveva ricalcare un passato glorioso, piena di paure, descritta come senza coraggio. Invece questo atto, questo passaggio dalle parole ai fatti è il passaggio fondamentale, la speranza».

 
Trailer di Alaska di Claudio Cupellini

«Mi avevi promesso che saresti tornata. Forse non risponderai nemmeno a questa lettera ma io la scriverò lo stesso. Ne scriverò una alla settimana. (...) Ormai so che non verrai ma io andrò a dormire pensando che al risveglio mi chiameranno per dirmi che è venuta una ragazza con dei cioccolatini».

Quando Fausto (Elio Germano) scrive a Nadine (Astrid Bergès Frisbey) si trova in carcere e le lettere sono l’unico mezzo che ha a disposizione per fare chiarezza sui propri sentimenti ed alimentare un amore viscerale più volte  messo a dura prova nel film di Claudio Cupellini, Alaska.  
Presentato nella selezione ufficiale, Alaska è «la storia di due persone che non possiedono nulla se non loro stessi». I protagonisti si incontrano per caso sulla terrazza di un hotel dove Fausto lavora come cameriere e Nadine sta facendo un provino per diventare fotomodella. Entrambi spinti dalla ricerca del proprio posto nel mondo, fragili, illusi, disperati, i due si riconoscono. All’inizio lui appare aggressivo, sicuro di sé, ha l’ambizione di diventare maitre, un mestiere che gli consentirebbe di guadagnare 5000 euro al mese. Lei timida e silenziosa, vive in una situazione di precarietà e solitudine e cerca di fare carriera nel campo della moda soltanto perché le hanno detto che potrebbe avere successo. Il loro incontro cambierà le carte in tavola e sarà lo spunto per una riflessione sul ruolo dell’amore e del successo nella tanto ambita ricerca della felicità.

Come in Dobbiamo parlare, anche qui dunque il motore dell’azione sono la ricerca della felicità e la dicotomia amore-successo per il suo raggiungimento. Ma se nel film di Rubini lo spettatore è più volte distratto dal linguaggio della commedia a volte eccessivamente caricato e urlato, dal ricorso allo stereotipo che vede gli uomini di destra ignoranti e quelli di sinistra colti, Alaska centra l’obiettivo del regista Claudio Cupellini di «fare qualcosa di potentemente emotivo, potentemente romantico, di vero».
Abituati come siamo, noi e i protagonisti del film, a vedere la nostra vita come una corsa verso il successo, verso il raggiungimento di uno status più che di uno stato e convinti che la felicità sia un traguardo da raggiungere senza guardare in faccia nessuno, viviamo una felicità distorta, che arreca inevitabilmente danno a qualcun altro. Come la ricchezza del resto. Ma cosa accade quando arriva l’amore? Cediamo o resistiamo alla sua forza dirompente in grado di infrangere questo illusorio sistema?

Una storia epica, un percorso di formazione. Fausto e Nadine sono vittime delle loro stesse emozioni e scoprono sulla propria pelle che forse la felicità non sta in qualcosa che si prende dagli altri, ma in qualcosa che si può donare agli altri.
Una storia autentica, emozionante e passionale, in cui i protagonisti alla fine abbandonano il desiderio di affermazione sociale e scoprono che, come dice Elio Germano:

«Probabilmente quello che ci riempie di più in realtà, se riusciamo a liberarci di tutte queste grandi illusioni con cui veniamo cresciuti, la cosa che ci fa stare meglio è quando facciamo qualcosa per qualcun altro. Alla fine il massimo dell'egoismo in realtà è fare le cose per gli altri».

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Fotogrammi da Registro di classe. Libro primo. 1900-1960 di Gianni Amelio e Cecilia Pagliarani

«Cari genitori, in questo Santo giorno, vi auguro di cuore altri cento anni di vita felici».

Una lettera che non può avere risposta è quella che una bambina scrive in occasione del Natale 1950 a suo padre analfabeta. Vediamo la sua storia e quella di innumerevoli altre famiglie in Registro di classe. Libro primo 1900-1960 di Gianni Amelio e Cecilia Pagliarani. Il documentario, presentato nella selezione ufficiale, è un viaggio nella scuola dell’obbligo dall’inizio del Novecento agli anni Sessanta. E, attraverso la scuola, un’indagine approfondita nella storia d’Italia, nelle sue contraddizioni, discriminazioni e rotture.
Dalla rappresentazione della scuola fascista, retta dall’assioma di Mussolini “Credere, obbedire, combattere”, alle scuole popolari del dopoguerra frequentate da alunni analfabeti e con problemi di linguaggio dovuti all’uso del dialetto nelle famiglie. Dalle classi differenziali, istituite “per liberarsi dei soggetti più difficili”, alla miseria di quartieri privi delle strutture fondamentali, eppure comunque meta di un numero sempre crescente di immigrati. E tra le tante discriminazioni quella essenziale: l’annotazione nei registri di iscrizione della professione del padre, metro di giudizio ed elemento determinante per la divisione degli alunni nelle classi.

Già la denominazione scuola dell’obbligo dà per Gianni Amelio il senso di una comune distorsione:
«Io non voglio sentire il termine scuola dell’obbligo, perché la parola obbligo mi fa pensare a qualcosa di punitivo. Mi piacerebbe sentire l’espressione scuola di diritto. Chiunque ha diritto di andare a scuola perché è un bene per la società che quell’individuo bambino vada a scuola. È un dono che la società fa a se stessa, non un obbligo che fa al bambino».

Eppure non è così, e non è mai stato così. A molti bambini, costretti a lavorare nei campi o in altre condizioni difficili per aiutare le famiglie, questo diritto veniva negato. Certo, «la dittatura è stata così abile da far credere davvero che il figlio dell’industriale e il figlio del contadino si incontrassero. Ma era un incontro di facciata. (...) Al posto di uomini liberi si formavano delle marionette».

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Fotogrammi da
Registro di classe. Libro primo. 1900-1960 di Gianni Amelio e Cecilia Pagliarani

Purtroppo però anche la scuola di oggi ha molti problemi e molte nuove sfide da affrontare in quanto è diversa solo nella forma ma non nella sostanza. Se una volta le difficoltà dei ragazzi ad imparare l’italiano erano dovute all’utilizzo del dialetto nelle famiglie, oggi il problema si ripresenta con gli stranieri, che ormai costituiscono il 30% degli alunni della scuola pubblica italiana.

Da ogni fotogramma del film, che si avvale di immagini d’archivio dell’Istituto Luce, delle Teche Rai, e del M.I.U.R, traspare il grande amore di Gianni Amelio per la scuola, per ciò che essa dovrebbe rappresentare e per l’opportunità che potrebbe dare, come testimoniano gli elementi scelti per il finale. Un estratto da Lettera a una professoressa di Don Lorenzo Milani:
«Se si perdono i ragazzi la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Richiamateli. Insistete. Ricominciate tutto da capo. All’infinito. A costo di passare da pazzi».
E una canzone: Libertà, di Giorgio Gaber.

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Fotoframmi da Ridendo e scherzando di Paola e Silvia Scola

La celeberrima lettera che Totò scrive in Totò, Peppino e la malafemmina è solo uno degli innumerevoli contributi che danno vita al ritratto di Ettore Scola in Ridendo e scherzando. Presentato alla Festa del cinema di Roma tra gli Omaggi, il film è un “documentario da ridere”, scritto e diretto dalle figlie Paola e Silvia «cercando di usare la sua chiave, quella del suo cinema: parlare cioè di cose serie senza farsene accorgere, facendo ridere».
Non una vera e propria intervista ma una sorta di auto-racconto attraverso i brani dei suoi film e le dichiarazioni che il regista ha rilasciato nella sua vita. Materiale di repertorio, filmini in Super 8, backstage dei suoi set, fotografie prese dagli album di famiglia, vignette.

Pif è il Virgilio scelto per accompagnare l’Ettore Scola non solo regista e sceneggiatore ma anche disegnatore, umorista e attivista politico in questo percorso attraverso il cinema italiano. Un ritratto che Scola ha sempre evitato per paura di retorica, celebrazioni e commemorazioni.

Qualità come il senso della misura, dell’ironia e l’auto-disistima, che Scola riconosce di aver passato alle figlie, sembrano essere così rare nella nostra società:
«Vediamo ogni giorno in televisione gente che si stima molto (...) se ognuno partisse dai propri limiti piuttosto che dalle proprie virtù credo che tutta l’Italia andrebbe meglio».

Il film viaggia dagli esordi di Scola al Marc’Aurelio insieme a Federico Fellini, Fulvio Scarpelli, Vittorio Metz e Marcello Marchesi tra gli altri, alle sceneggiature per Mario Mattoli, Luciano Salce e Antonio Pietrangeli. Dagli incontri che hanno segnato la sua vita alle polemiche suscitate da Brutti, sporchi e cattivi, in Italia accusato di razzismo e a Cannes premiato per la miglior regia.

Dino Risi, Sergio Amidei, Alberto Sordi, Marcello Mastroianni, Massimo Troisi, Armando Trovajoli e molti altri compongono non solo il ritratto dell’uomo, ma di un cinema vissuto collettivamente e sempre più aderente, dal dopoguerra in poi, alla nostra società. Un cinema che lo stesso Pif definisce una coperta:
«Con questa coperta io posso andare in giro per il mondo sicuro di essere protetto bene. Il cinema che ha fatto lui è meraviglioso».

D’altra parte anche Scola riconosce in Pif un interessante rappresentante del nuovo cinema italiano, poiché ha già dimostrato, con La mafia uccide solo d’estate, che anche oggi la commedia italiana può rappresentare le storture del proprio paese senza ipocrisie, e allo stesso tempo far divertire, come faceva allora.
«I grandi del cinema italiano erano mossi da un grande amore per l’Italia, seppure avessero l’aria di disprezzarla. Bisogna consigliare ai giovani questo amore per l’Italia. Non è facile perché l’Italia non si fa amare, ma senza amore credo che non accada nulla».

 
Trailer di Filmstudio mon amour di Toni D'Angelo

L’amore per il cinema, la sua capacità di raccontare la vita e la storia, e la bellezza del dibattito attorno ad esso emergono anche in Filmstudio mon amour, un documentario di Toni D’Angelo presentato alla Festa del cinema di Roma nella sezione Hidden City.

Nato il 2 ottobre 1967 per volontà di Americo Sbardella e Annabella Miscuglio, Filmstudio è lo storico cineclub romano che per anni ha sfidato l’establishment dando voce al cinema sperimentale, al cinema underground e al cinema politico militante.

Oggi, nell’era del digitale, dove tutto è messo disposizione di tutti ma pochi sanno approfittare del patrimonio disponibile, appare quasi strano vedere il fermento che ruotava attorno a un cinema d’essai.

La ricerca di Toni D’Angelo sui materiali è durata oltre tre anni ma l’indicazione da parte di Armando Leone, anima storica del Filmstudio, è stata una sola: «Vai dove ti porta il cuore».
E con il cuore, con uno sguardo nostalgico e con l’urgenza di conoscere si muove il regista-narratore accompagnandoci in auto alla scoperta dei luoghi che hanno animato il dibattito culturale dalla fine degli anni Sessanta. Viaggiando in una Roma che oggi appare «assopita e stanca» Toni D'Angelo si domanda come sia stato possibile che un tempo quegli stessi luoghi abbiano ospitato una realtà viva, attiva, carica di protesta e innovazione.

Fin dalla sua nascita il Filmstudio è stato un luogo di fermento, uno spazio di libertà, un punto di riferimento essenziale non solo per gli appassionati di cinema, che qui potevano vedere film al di fuori del circuito commerciale, ma anche per molti cineasti, tra cui i fratelli Taviani e Bernardo Bertolucci che lo definì addirittura «un miracolo» in una Roma culturalmente degradata.
Dal Filmstudio sono passati tra gli altri Jean-Luc Godard, Michelangelo Antonioni, Pier Paolo Pasolini, Roberto Rossellini, Alberto Moravia, Dacia Maraini. È stato inoltre trampolino di lancio di Nanni Moretti che lì ha esordito nel 1976 con Io sono un autarchico, previsto in cartellone per due giorni soltanto e poi rimasto in programmazione per mesi. Un po’ come è successo recentemente al film Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, rimasto nelle sale dei circuiti ufficiali solo per pochi giorni ma proiettato al Cinema Mexico di Milano per due anni.

La curiosità dello spettatore viene alimentata dal desiderio di conoscere dello stesso Toni D’Angelo, che si sofferma sugli avvenimenti e sui personaggi di cui si è letteralmente innamorato. È il caso ad esempio di Alberto Grifi, Patrizia Vicinelli e Aldo Braibanti, un trio di artisti a tutto tondo delle avanguardie sperimentali degli anni Sessanta e Settanta, sulla cui storia di amore, di passione e d’amicizia D’Angelo sta scrivendo una sceneggiatura. Una storia che «per me racconta il '68 più di tantissime altre cose, davvero il '68 che ho visto». Un sodalizio artistico messo a dura prova dalle persecuzioni subite dai tre, arrestati o costretti a emigrare all’estero per le loro idee politiche. E di questa storia ci vengono mostrate le lettere che Patrizia Vicinelli scriveva ad Alberto Grifi quando lui si trovava in carcere, o ancora la rivoluzione operata dal film di Grifi Anna, la storia di una sedicenne incinta, scappata dai riformatori e sopravvissuta a diversi tentativi di suicidio. Proiettato per la prima volta proprio al Filmstudio, Anna è stato presentato l’anno scorso nella sua versione restaurata nei festival di Bruxelles, Copenaghen e San Paolo.

Innumerevoli sono le voci fuori dal coro che rivivono grazie a Filmstudio mon amour, come quella del movimento femminista che ricorda due dei casi più eclatanti censurati dalla Rai: Processo per stupro del 1979, dove il tribunale compare in televisione per la prima volta, e il documentario del 1981 A.A.A.Offresi, sulla prostituta Veronique.

Ma la censura si è abbattuta anche su Filmstudio che a seguito della serie di film Erotica del New Cinema Underground, una rassegna di film prodotti per l’educazione sessuale, è stato denunciato per proiezioni pornografiche in luogo pubblico. A nulla sono valse le appassionate prese di posizione di Mario Monicelli, Alberto Moravia e di altri intellettuali.
Il 5 marzo 1985 Filmstudio chiudeva i battenti continuando però la sua attività in altre sale. Li riapriva soltanto 15 anni dopo, in occasione del Giubileo del 2000 con una rassegna dedicata a Cinema e Spiritualità.

Filmstudio mon amour, testimonia non solo l’importanza di un luogo alternativo alle multisale blockbuster, ma anche la bellezza dello stare insieme, del vivere il cinema in senso comunitario.

Per dirla con Walter Veltroni:
«Del cinema si può parlare. Del cinema è bellissimo parlare. Il cinema è oggetto di riflessione proprio per la sua natura prismatica: si può parlare del cinema e attraverso il cinema parlare della vita, della storia, della politica, degli amori, di tutto. E quindi parlare di cinema, parlare attraverso i libri, parlarne attraverso le feste o i festival, (...) lo stare insieme, il discutere, il vedersi i film, il parlarne, il prendersi in giro qualche volta, ma fare tutto insieme. Insieme parlare di cinema è molto bello».