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 Riaperta dopo il lungo restauro la cappella degli Zavattari nel duomo di Monza. Foto, video e testimonianze di una tappa fondamentale per una città che cambia identità

 

Il 16 ottobre del 2015 è una data importante per Monza. A mezzogiorno, nel duomo, sono arrivati in tanti. Molti volti noti della città, tanti giornalisti, il fotografo Piero Pozzi che coordina i suoi giovani allievi, il personale del Museo che accoglie gli ospiti, curiosi e forze dell’ordine. Al tavolo, ai piedi dell’altare maggiore, sono seduti e si alternano al microfono l’arciprete Provasi, l’ingegner Gaiani dell’omonima Fondazione, Bertrand du Vignaud del World Monuments Fund, l’assessore regionale Cappellini, la soprintendente Antonella Ranaldi e Mario Romano Negri della Fondazione Cariplo; cerimoniere Marco Carminati del Sole 24 ore. Le vere protagoniste però non sono sull’asse principale della chiesa. Non sono ancora sotto le luci.

 

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Titti Gaiani e Francesco Iannone

 

Titti Gaiani, moglie dell’ingegnere, se ne sta appartata, quasi nascosta, nell’ala sinistra del transetto. Questa signora dalla parlantina solitamente inarrestabile ora è silenziosa. Eppure dai primi anni Novanta di parole ed energie ne ha profuse in abbondanza per arrivare a questo momento. È lei che con grande caparbietà ha spinto tutto e tutti per un quarto di secolo, mettendo insieme milioni di euro pubblici e privati, grandi esperienze e competenze. È, probabilmente, solo grazie a lei se il 16 ottobre del 2015 Monza e tutto il resto del mondo possono tornare a parlare viso a viso con l’altra grande protagonista della giornata, quella — la Gaiani ci perdonerà — più importante: la cappella degli Zavattari. A molti nota come di Teodelinda (o Teodolinda) perché alla regina longobarda sono dedicati i 5 magnifici registri di pitture murali che ospita.

Terminati i lavori di restauro e l’allestimento della nuova illuminazione, la cappella — che ospita anche la corona ferrea e le spoglie della sovrana così cara ai monzesi — è ora di nuovo pronta ad accogliere chi vorrà scorrere con lo sguardo le 45 inquadrature di un “film” realizzato intorno al 1444 (le date sono ancora oggetto di studio) dalla famiglia degli Zavattari, ovvero Franceschino, i figli Gregorio e Giovanni e un aiuto non meglio identificato. La sceneggiatura fu a quattro mani, un po’ opera di Paolo Diacono e un po’ di Bonincontro Morigia, rispettivamente autori dell’Historia Longobardorum e del Chronicon Modoëtiense, ovvero le fonti iconografiche cui i pittori fecero riferimento.

 

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Franco Gaiani

 

In esso gli storici dell’arte vedono un fondamentale esempio di gotico internazionale per la cui realizzazione furono necessari circa 4 anni. Nei secoli successivi ha dovuto subire sia il naturale deterioramento chimico fisico che maldestri interventi di restauro e, addirittura, veri e propri furti (non va dimenticato che allora si usava vero oro e altri minerali assai preziosi). Lo stato in cui si presentava prima della recente campagna di restauro, come racconta Anna Lucchini che l’ha coordinata, era grave: «I danni attivi erano così gravi da rendere indispensabile un intervento conservativo. Gli intonaci presentavano importanti distacchi dalla muratura, con il rischio di cadute e crolli» (da Il ritorno di Teodolinda, Fondazione Gaiani, Monza 2015). «L’operazione più complessa è stata l’individuazione dei metodi di pulitura e consolidamento del film pittorico, per i quali abbiamo utilizzato tecniche all’avanguardia. Quindi l’intervento è proseguito con il consolidamento degli intonaci, la stuccatura delle lacune e la reintegrazione pittorica». Un processo durato più della realizzazione vera e propria del ciclo di pitture e memorizzato in una documentazione video e fotografica imponente. Tutto sotto il controllo della Soprintendenza per i beni artistici e storici di Milano, con il supporto dell’Opificio delle pietre dure di Firenze e delle università della stessa città toscana e di quella dell’Aquila, oltre che con la collaborazione di molti altri enti di grande esperienza tecnica e scientifica. «Le storie di Teodolinda sono quasi interamente dipinte con colori stemperati in medium organici, uovo e olio, su una base di latte di calce, mentre il disegno preparatorio in ocra gialla o marrone venne riportato quando l’intonaco era ancora umido». Insomma, contrariamente a quello che si tende a credere, non si tratta di pittura a fresco, solo la base lo era «Questa scelta ha determinato una particolare esuberanza cromatica e di effetti, di cui purtroppo rimangono solo labili tracce (…) le vesti dovevano apparire come veri broccati, lucidi e cangianti come seta (…) i manti dei cavalli erano resi con infinita minuzia, disegnati pelo per pelo. Tutto doveva sembrare reale e splendido come lo era la corte dell’ultimo Visconti» (ibid.).

Chi ha avuto l’opportunità nei mesi scorsi di salire sui ponteggi e guardare da molto vicino le centinaia di figure ha potuto constatare, fra l’altro, proprio il grande dettaglio e la minuziosa cura di gran parte di esse, caratteristiche che la pittura a fresco non avrebbe permesso per la velocità che richiede. Così come la grande differenza di stile (e di qualità) fra un registro e l’altro e addirittura fra un quadro e l’altro di questo grande racconto profano, in cui le vicende assai poco celesti delle dinastie longobarde secondo alcuni vennero esaltate (e sponsorizzate con tanto di marchio) dai Visconti che proprio in quegli anni fondevano le loro sorti con quelle degli Sforza, grazie al matrimonio di Bianca Maria con Francesco, così come i Bavari (la stirpe di Teodolinda) si unì a quella dei longobardi con il matrimonio di questa con Autari. Nulla a che vedere quindi con i cicli delle più celebri delle cappelle (Sistina a Roma con Michelangelo e Scrovegni a Padova con Giotto) dedicate alle storie sacre della cristianità.

Per chiudere il capitolo dedicato all’intervento di restauro vero e proprio, riproponiamo il filmato in cui la curatrice Lucchini racconta e mostra il lavoro della sua equipe.

 

Filmato prodotto da Fondazione Gaiani e Lucchini restauri.
Realizzato da Alberto Osella & Partners con la regia di Giovanni Pitscheider.

 

Un altro aspetto molto interessante della riapertura al pubblico della cappella degli Zavattari è il nuovo impianto di illuminazione utilizzato. Chi ha dimestichezza con le visite nelle chiese per ammirare opere d’arte sa che a volte ci si trova in situazioni pessime, con poca luce e riflessi terribili. In questo caso l’intervento è stato curato dalla Consuline di Francesco Iannone e alla luce naturale delle tre grandi vetrate è stato aggiunta quella di un complesso impianto a fonti led. Tutti i registri sono molto visibili e le fonti nascoste, così che non infastidiscano la vista; inoltre si è provveduto a dare una vera e propria interpretazione autoriale: non ci troviamo innanzi ad una luce “oggettiva” in cui si illumina tutto indistintamente ma ad una vera e propria “messa in scena” dei dipinti, con fasci mirati ad esaltare dettagli, visi, profondità. Il risultato è sicuramente suggestivo, si può certo obiettare che non stiamo più vedendo quello che gli Zavattari avevano ideato, ma non lo sarebbe comunque, dato il degrado dei secoli che nessun restauro potrebbe recuperare per intero. Inoltre, e per fortuna, l’autorialità non si è spinta così in là come è accaduto sciaguratamente in casi come quello del Cristo morto di Mantegna della Pinacoteca di Brera, ammazzato una seconda volta dal recente, orribile allestimento firmato da Ermanno Olmi. Qui, parere personale, la drammatizzazione sembra tutto sommato rispettosa.

Anche su questo aspetto presentiamo un filmato molto interessante in cui i curatori delle luci raccontano quello che è ora noto come il Monza method, ovvero un vero e proprio modello da applicare anche in altre situazioni. Nel filmato (è in inglese, ma la maggior parte degli interventi è in italiano) compaiono anche i coniugi Gaiani, la sovrintendente Emanuela Daffra, lo storico Pietro Petraroia e Antonio Paolucci, il direttore dei Musei Vaticani che di recente ha dovuto confrontarsi con la nuova illuminazione della più importante delle cappelle “illustrate”, la Sistina a cui già accennavamo prima.

 

“A treasury of light. The italian way to illuminate art”
prodotto da Via-Verlag con la regia di Moritz Gieselmann e montato da Benjamin Epp.

 

Con la riapertura della cappella degli Zavattari siamo al terzo grande appuntamento storico per il patrimonio artistico e culturale di Monza in poco più di un anno, dopo l’apertura dei Musei Civici nell’ex Casa degli Umiliati e quello della Villa Reale restaurata lo scorso anno. Una coincidenza, visto che i tre percorsi sono partiti separatamente e in epoche assai diverse, che però marca ancora una volta quello che qui su Vorrei stiamo testimoniando: la mutazione identitaria della città di questi ultimi anni. Da capitale delle fabbrichette rallegrata una volta l’anno dal Gran Premio a città di arte e cultura, con il complesso della Reggia divenuto il secondo polo espositivo della regione, dopo Palazzo Reale a Milano, con i due musei attivi (i Civici si sono infatti aggiunti al Museo e Tesoro del Duomo di Monza) e con la gran messe di rassegne e iniziative promosse durante tutto l’anno. Nei teatri, nell’Arengario e negli altri spazi pubblici e privati. Va annotata infatti anche la ventata di aria fresca portata dai nuovi spazi dedicati all’arte contemporanea sorti nel giro di pochi anni (Villa Contemporanea, M.Ar.Co. e Grauen).

Certo siamo lontanissimi dalla vitalità culturale del capoluogo, ma è innegabile che tanto si stia facendo. I meriti a chi vanno attribuiti? È difficile fare dei nomi, di solito queste situazioni sono frutto di coincidenze, combinazioni ma alcune spinte sono innegabili. Dei coniugi Gaiani sul versante Zavattari (e Museo del duomo) abbiamo già scritto. I Musei Civici sono aperti grazie alla sterzata data dall’Amministrazione Scanagatti ad un percorso che penosamente si trascinava da lustri. La Villa Reale grazie all’intuizione della Giunta Mariani che, fra l’inaugurazione dei ministeri farlocchi e la loro penosa scomparsa, convinse la Regione Lombardia a investire la gran parte dei soldi — pubblici, quindi di tutti noi — necessari al restauro, ma siamo convinti che la deriva ultra commerciale che si prospettava qualche anno fa sia stata stemperata grazie alle spinte dei movimenti cittadini prima e dal lavoro che lo stesso Scanagatti sta facendo poi per governare quella complicata macchina politica che è la Reggia e il Consorzio che la gestisce, dove è sì presidente ma in cui la bilancia del potere pende innegabilmente dalla parte della Regione e delle sue risorse economiche, senza dimenticare il contratto capestro che per un ventennio mette nelle mani di Navarra e delle sue società la gestione del complesso.

 

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Gli alabardieri del duomo di Monza
un attimo prima della riapertura della cappella degli Zavattari

 

A tutto questo lavoro di recupero del patrimonio storico va però aggiunto anche l’impegno di gente come Saul Beretta, Corrado Accordino e il gruppo del Binario 7 e tanti altri che permettono a questa città di non fermarsi a lustrare l’argenteria e a cantare le lodi di un passato glorioso. Loro e noi di Vorrei (nel nostro piccolissimo) seminiamo il campo culturale affinché sorgano giovani piante e nascano nuovi frutti. La città, la sua cultura, la sua civiltà non può solo guardarsi alle spalle, se non vuole ripiegarsi su stessa e inaridirsi. Lo insegnano gli oculisti, guardare lontano è il modo migliore per contrastare la miopia.

 

 

Le foto della cappella di Teodolinda
(o degli Zavattari)

© Museo e Tesoro del Duomo di Monza/foto Piero Pozzi 

 

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Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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