20150313 televisione

 Biagi, Bocca, Massarini, Arbore, Zavoli, Veronelli, Zeri, Bollani... Grazie a chi sa trasferire in modo entusiasmante e contagioso il suo sapere, ci è donata la magia di condividere momenti d’illuminazione collettiva

 

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Denis Diderot in un ritratto di Louis-Michel van Loo, 1767.

 

Ho avuto la sfacciata fortuna di crescere in una casa piena di libri. E in una scuola dove i libri di testo erano banditi.

 

La famiglia era un clan di adulti che mi trattava da adulto in divenire. A casa mi conveniva leggere, osservare, partecipare: le mie favole, i miei trenini e il mio pongo si chiamavano Karamazov, Le quattro stagioni e Ceci n’est pas une pipe. Invece il maestro della mia Rudolf Steiner Schule zurighese – unico per tutte le materie e sempre lo stesso per nove lunghi anni – ci raccontava, gesticolando, bisbigliando, rumoreggiando e camminando tra i banchi su e giù, cosa diavolo era successo sull’Olimpo, al Concilio di Trento, nel ghetto di Amsterdam, nella testa di Nerone, in quel di Betlemme e nei fastosi saloni di Versailles.

Quell’illustrare e raccontare i miti, la natura, la radice quadrata e l’abc, senza l’ausilio di alcun libro, non produceva solo un apprendimento indelebile, ma anche una scuola di vita che non mi avrebbe mollato più. Un imprinting che ha profondamente segnato il mio modo di comprendere, d’imparare e, successivamente, forse anche d’insegnare. Quando, crescendo, mi sono poi immerso nei versi e nei plot di Omero, quando ho tentato di districare gli intrecci sonori del Ricercare a sei dell’Offerta musicale e quando sono di colpo ammutolito davanti ai cieli blu cobalto nella Cappella degli Scrovegni, come tutti i giovani avidi di chiarore e levità sono stato risucchiato in uno stato di potente meraviglia e di trance. Ma è soprattutto grazie alle narrazioni ascoltate e convissute in quell’ateneo dialogante che oggi non mi lascio sfuggire nessuna occasione per seguire, a bocca e mente sempre spalancate, i racconti di chi, nel gergo del corrente marketing culturale, è definito con il poveristico nomignolo di “divulgatore”.

Grazie a chi sa trasferire in modo entusiasmante e contagioso il suo sapere, le proprie esperienze oppure un punto di vista insolito o cangiante, ci è donata la magia di condividere momenti d’illuminazione collettiva – meglio ancora se fresca, sghimbescia, rocambolesca, inattesa. Sto parlando, ça va sans dire, dei miei più vicini e allo stesso tempo più pubblici eroi.

Chiunque sappia scrivere un saggio, tenere uno speech, discutere in pubblico qualsiasi cosa che non s’immiserisca in elenchi, parole d’ordine o torte PowerPoint, è eo ipso un divulgatore. Ma un conto è mostrare, raccontare e spiegare un argomento in una classe, in un congresso o davanti a un’adunata aziendale, un’altra cosa è aprire finestre, botole, lucernari e oblò che fanno entrare luce non solo nelle nostre menti, ma anche nei circuiti – sempre incrociati – della curiosità. Raggi laser che, nel gergo del meteo, dell’entertainment e dei contadini, si chiamano lampi.

Se volessi descrivere le massime virtù di un bravo divulgatore, direi che le sue parole sono semplici, sincere, dirette, ma anche spiazzanti, imprevedibili e contagiose. Qualità che mancano del tutto al linguaggio dei politici, ma che sono piuttosto rare anche tra gli accademici, i giornalisti, le star dello show business e dello sport.

Per meritare l’appellativo che qui proviamo a marcare ed esaltare, non basta che un relatore si rivolga in modo efficace e convincente a qualche amico, ai colleghi di lavoro, al condominio o a un partito. Occorre che i suoi lumi, flash o strali si propaghino anche fuori, oltre, chissà dove – soprattutto quando il tema trattato è complesso, multistrato o addirittura scarsamente popolare.

Oltre alla scuola, alla piazza, ai giornali e all’università, a partire dal 1954 in Italia c’è un luogo dove il sapere (con o senza le sue molteplici, malvagie devianze) si riproduce e si espande in modo esponenziale e sempre più invadente: la televisione.

Il fenomeno è talmente espansivo che il sapere, il sentire e il vedere la cultura collima in modo sempre più diretto con ciò che ci arriva dagli schermi lcd. Anzi: nei ricettari dell’area culturale ci sono saperi e sapori che forse solo la televisione riesce a farci annusare, gustare e propagare in modo epidemico – senza stravolgere le nostre agende, i nostri impegni, orari e routine.

 

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Renzo Arbore è stato probabilmente il più prolifico e popolare autore e conduttore nella storia della Rai. Pioniere in molti sensi (alcuni lo considerano il primo disc jockey italiano), ha portato una ventata di umorismo e aria fresca alla radio (Bandiera gialla, Alto gradimento, etc.) e in televisione (un titolo per tutti: Quelli della notte). I suoi programmi sono stati una inesauribile miniera di scoperte: canzoni, racconti, ricordi, performer, artisti.

 

Il cast di questo infotainment audio-televisivo è ricco, vario, coinvolgente.

Inizio augurando lunghissima vita e felicità a chi, già trent’anni e oltre fa, seppe dilatare i miei più che porosi orizzonti musicali. Renzo Arbore, Red Ronnie e Carlo Massarini mi aprirono spazi in cui riecheggiavano, in eclettica e perfetta armonia, Roberto Murolo e Pat Metheny, Giovanna Marini e gli Skiantos, le Sorelle Bandiera e l’orchestra di Gil Evans, le trombe di Bix Beiderbecke, Nini Rosso, Pérez Prado, Chet Baker e dell’immenso Miles, ma anche le armoniche a bocca dei vari Sonny Boy Williamson, Toots Thielemans, Edoardo Bennato, Huey Lewis, Fabio Treves e Stevie Wonder. Oggi, nell’auditorium sempre più incrociante e contaminato tra stili, tendenze e ricerche di nuove sonorità, il trascinante Stefano Bollani riesce – giocando, suonando e raccontando ­– a risucchiarmi nel suo fascinoso “son sans lumière”del jazz, del rock, del folk, dell’hip hop, degli chansonnier, del musical e persino del melodramma.

 

Massarini

Prima ancora che in Italia scoppiasse il fenomeno mediatico MTV (inizio anni ’80), su Rai 1 Paolo Giaccio e Mario Convertino avevano lanciato il programma Mister Fantasy affidato all’appassionata, documentatissima e divertente conduzione di Carlo Massarini. Autentico istigatore e celebratore della musica rock, ancora oggi, a 63 anni suonati, continua a deliziarci con i suoi Cool Tour e Ghiaccio Bollente (Rai 5).

 

Bollani

In un’epoca di striscianti e insistenti minimalismi melodici e strumentali, Stefano Bollani è, al contrario, un inesauribile e fantasioso osservatore umano e musicale. Una volta che l’hai incontrato o sintonizzato, non ti molla più.

 

Se invece drizzo l’orecchio verso il separatismo della musica cosiddetta “classica” (termine riduttivo e snob che, suono dopo suono, si autoannulla in mille modi, sempre più spesso inediti e inattesi), trovo in Michele Dall’Ongaro un cicerone di rara competenza, lucidità e amabilissime maniere. Per dirla con un fin troppo facile calembour, è musica per le orecchie: specialmente quelle di chi non ama bazzicare di persona i festival, i ridotti, i palchi e i foyer.

Se i nostri sensi e consensi artistici li spostiamo dall’ascolto allo sguardo, abbiamo “davanti agli occhi” un autentico dreamteam: Flavio Caroli, Philippe Daverio, Costantino D’Orazio, Tomaso Montanari, Salvatore Settis, Vittorio Sgarbi, Claudio Strinati. Ciascuno di questi viaggiatori nell’arte è pervaso da personalissime passioni e sensibilità, a volte talmente debordanti che si “vedono” costretti a compiere dei gesti mimici e manuali in tutto simili al ductus che aveva guidato il pennello o lo scalpello degli autori. Esultando e soffrendo, sanno svelarci panorami e dettagli lungamente celati… collegamenti storici, economici e persino fisiologici tra committenti, mercanti, autori e plagiari… amori, drammi, pettegolezzi, retroscena e fuoriscena ignoti… mirabili tecniche, materiali rarissimi oppure banali… recuperi, restauri e rovine… autografi, simboli, segni e significati… insomma, tutto quanto non combacia in modo prevedibile con lo stampino del contenuto e della forma.

 

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Insieme a – e contro – l’immigrato lituano Bernard Berenson e il piemontese Roberto Longhi, il verace romano Federico Zeri ha formato il più prestigioso e battagliero triumvirato intellettuale della storia e del mondo dell’arte in Italia. Gran diffusore di lumi su una scena senza confini: dai mosaici degli imperi romani fino ai Macchiaioli e al verismo di fine ’900.

 

Ma prima di loro, in uno schermo domestico ancora da fine Novecento, avevo inseguito il mio primo grande timoniere dell’arte, che senza tanti giri e rigiri mi aveva aperto la mente su cosa fosse un’opera pregevole, una crosta o un capolavoro: Federico Zeri. Quell’uomo l’avrei poi affiancato di persona, per un’intera giornata, durante le riprese di uno spot nella sua residenza-museo a Mentana. S’era discusso, sorriso e divagato su mille e una curiosità – lui loquace, generoso, sarcastico e autorevole nel suo bizzarro caftano di seta, e io devoto, ma sempre insistente, nella mia irriducibile inferiorità.

Nell’arte del dissimulare, recitare, interpretare i mille modi di stare su un palcoscenico oppure nella vita (sia oggi che nei tanti passati più o meno remoti), il teatro e la tv ci hanno regalato un vero ciclone didattico: l’allegro nobelastro Dario Fo non solo ci propone da decenni un’inesauribile e godibile gamma di fatti e misfatti, tenerezze e violenze, amori e rancori, mascalzonate e buffonate… ma di volta in volta, con il suo strabiliante armamentario vocale, mimico e gestuale, ci stupisce anche con il profondo know-how di un linguista, di un tecnico del suono, di uno storico enciclopedico, di un raffinatissimo esperto di effetti vocali speciali. Quando, recentemente, l’abbiamo visto e sentito duettare insieme al tuttora più bello del reame, Giorgio Albertazzi, non è stato solo uno spasso senza fine, ma anche un’apertura illuminante sul lato misero, comico o sottaciuto del mezzo millennio che ci separa dalla Mandragola, dall’Orlando Furioso, dalle farse cavaiole di Vincenzo Braca.

 

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Insieme a Pirandello, De Filippo, Flaiano, Bene, Troisi e Benigni, il premio Nobel per la letteratura del 1997 ha contribuito in modo risolutivo al superamento della nostra drammaturgia teatrale – tradizionalmente retorica, damascata, melò. Dotato di una strabiliante curiosità storica e tecnica recitativa, insieme alla compagna di vita Franca Rame (con lui nella foto), Fo ha divulgato per decenni, e in tutto il mondo, il più efficace – e felicemente più spiazzante – repertorio del nostro teatro nazionale.

 

Questo teatro, ma anche il cinema, la fotografia, la radio e lo stesso vettore su cui vibrano le loro corde emotive (cioè la tanto bistrattata tivvù), ce li raccontano in modo palesemente divertito Simone Annicchiarico, Enrico Ghezzi, Tatti Sanguineti, Pino Strabioli (c’era anche Ando Gilardi, ma ci ha lasciati). Considerarli solo inviati dai vari fronti del rappresentare e recitare (Hollywood, Saxa Rubra, il Carro di Tespi, la Croisette, l’Eiar, i backstage, la camera oscura, il Sundance, il Piccolo Teatro, il Mercadante e l’Old Vic, il vaudeville, il Lido di Venezia, l’avanspettacolo e Cinecittà…) sarebbe come farsi scappar di bocca la boutade che François Vatel, Escoffier e Paul Bocuse erano di bocca buona. Ogni volta che questi benedetti guitti delle statuine similoro, dei bis, delle stellette, dei tappeti rossi, dei fischi e delle claque alzano i loro sipari vocali, io ammutolisco come quando, accovacciato solo soletto in prima fila, attendevo trepidante il gong, il lento abbassarsi della luce, la sigla del cinegiornale, il ruggito del leone, i primi spari, balli o baci… fino alla temuta apparizione dell’ineluttabile The End.

Se poi andiamo a inquadrare non solo la storia dei palcoscenici e dei set, ma i palchi e le scene della storia tout-court, ci ritroviamo sbalzati in una data indimenticabile. Era il 9 ottobre del 1997 quando su Rai 2 andò in onda una diretta che chiamare “storica” sarebbe solo un goffo diminutivo. Il mitico Racconto del Vajont, scritto e raccontato da Marco Paolini a ridosso della location dov’era andata in scena l’autentica prima di quella tragedia criminale, è stato il fulmine a ciel sereno che ha sconquassato i linguaggi convenzionali del teatro, della politica, del giornalismo, della televisione. Un modo del tutto nuovo di fare divulgazione: niente allestimenti, luci, suoni, costumi, trucco… niente ruoli, dialoghi, comparse, folle… niente dolly, carrelli, effetti speciali o steadicam, niente di niente che potesse “fare spettacolo”. Eppure, spettacolo fu – nella drammatica nudità e fibrillazione di un unico, potente, ininterrotto flashback.

 

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Grazie al drammaturgo, regista e attore veneto Marco Paolini, le impronte che da sempre avevano segnato i netti confini tra cronaca, spettacolo, didattica e teatro si sono definitivamente disperse nella nascita di un modo completamente nuovo di fare divulgazione culturale.

 

Con quel monologo, il drammaturgo e attore veneto statuì clamorosamente un nuovo modo e mondo di fare cultura; un metodo che non richiedeva lunghi studi, lauree e diplomi, né campagne di lancio, tavole bislunghe o rotonde di quelle sempre straripanti di microfoni, targhette, bottigliette d’acqua e deprimenti dosi di culto della banalità. La divulgazione (magnifico petting fra dis, “in diverse parti e direzioni”, e vulgus, “popolo, pubblico”) acquisiva con Paolini il senso di un generoso spargimento di valori, ri-combinati in modo stupefacente.

Pur rimanendo giudiziosamente all’interno del format (leggi: canale, contenitore, gabbia, scatola, show) televisivo, di colpo nel 1962 lo sport superò i limiti dello spettacolo, della retorica, della celebrazione, dello scoop. Con il suo Processo alla tappa, il socialista ravennate Sergio Zavoli dimostrò che gli atleti, i direttori sportivi, i tifosi e i colleghi giornalisti non meritavano di pronunciare solo sveltine a livello Evviva, Bravo, Forza, Augh…, ma che ognuno aveva qualcosa di suo, di tuo e di mio da dire. Era la prima volta che lo sport veniva elevato a comunicazione (nel senso di dialogo con la comunità), approfondimento, informazione. Paradossalmente, l’eroe del giorno veniva finalmente “degradato” a uomo.

 

Zavoli

Con Processo alla tappa (prima edizione 1962-1970), programma in coda a ogni tappa del Giro d’Italia, Sergio Zavoli rivoluzionò il modo di trattare lo sport in tv. Dopo i suoi successivi cicli televisivi Nascita di una dittatura, La notte della Repubblica, Viaggio nel sud, Viaggio intorno all’uomo e Nostra padrona televisione, il futuro presidente della Rai avrebbe pubblicato ben 53 saggi storici.

 

Pochi altri narratori dello sport avrebbero poi condiviso, in modo spesso agile, diretto e avvincente, quel difficile salto Fosbury all’indietro verso l’essenza del campione-cittadino. Gianni Brera, Gianni Minà, Gianni Mura, Darwin Pastorin, Beppe Viola, chi più chi meno (qualcuno decisamente di più), hanno poi tutti contribuito, con bella ostinazione, a far sì che la nostra lingua scritta, parlata e ascoltata alla radio e alla tv non rimanesse ostaggio dell’accademismo aulico, felpato, imbalsamato, in puro e deprimente stile da sagrestia diccì.

 

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Giorgio Bocca e Indro Montanelli.

 

Grazie a un giornalismo d’altri tempi (per “altri” intendo quelli di un’Italia non ancora infetta dagli emoticon, dalle sponsorizzazioni, da Twitter, Endemol e Mediaset), i vari Gaetano Baldacci, Arrigo Benedetti, Giulio De Benedetti, Oriana Fallaci, Leo Longanesi, Curzio Malaparte, Mario Melloni, Mario Pannunzio, Vittorio G. Rossi, Eugenio Scalfari, Giovanni Spadolini, Tiziano Terzani ci insegnarono letteralmente a leggere e scrivere. Verso la fine del millennio, alcuni sopravissuti di quella Olivetti-Lettera-22 generation ci avrebbero insegnato anche qualcos’altro: chi eravamo, chi siamo e cosa stiamo per diventare. Per fortuna nostra, dei nostri figli e nipoti, forse di chiunque, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Indro Montanelli avrebbero profuso quel loro temere, vedere e sapere finanche alla maledetta/benedetta tv. Con decine d’inchieste, interviste e dialoghi condivisi attraverso l’etere, quel tris d’assi ci tenne diabolicamente sistemati davanti a uno specchio a tre ante – il più sincero, perché non nasconde il peggiore dei nostri profili.

 

Biagi

Insieme a Giorgio Bocca e Indro Montanelli, Enzo Biagi è stato il più popolare storico, sociologo e ricercatore della parola scritta, parlata e ascoltata – nei giornali, con i suoi libri, alla tv. Dopo la dipartita di questi tre padri dell’Italia moderna, non c’è “figlio” che, anche dopo parecchi anni, non ne senta in modo drammatico l’assenza.

 

Nel cerchio magico e tragico di Biagi, uno spazio particolarmente esposto lo occupò il nostro primo profeta del sole sempre-più-calante dell’avvenir. Pier Paolo Pasolini era ossessionato dai numeri, dalle insidie e dalle nostre sempre più stravolgenti mutazioni sociali contrabbandate – anche dalla sinistra di allora – come progresso, evoluzione, sviluppo. Ci metteva in guardia in mille occasioni, modi, luoghi – forse nella maniera più visibile e ascoltata quand’era ospite dell’ammirato e pacato giornalista bolognese.

Visto che dal cangiante mondo della cronaca smontata e raccontata qui ci stiamo trasferendo nel reame della storia con la S maiestatis (come in Stato, Shoah, Sinistra, Santa Sede, s.p.q.r.), viene spontaneo scomodare alcuni irresistibili causeur, dotati della micidiale capacità d’inchiodarci per ore e ore e puntate su mille momenti e avvenimenti dell’ieri, dell’altro ieri, dell’altrove. Alessandro Barbero, Alessandro Baricco, Carlo M. Cipolla, Luciano De Crescenzo, Umberto Eco, Valerio Massimo Manfredi, Paolo Rumiz, Silvia Salvatici ci raccontano, in modo sempre avvincente, conquiste, battaglie, amori, intrighi, scoperte, alleanze, trionfi e disfatte. Ma anche l’incessante day-by-day che ha scandito le vite anonime di miliardi di homines sapientes, contadini, schiavi, monaci, soldati, lavoratori ed eterni contribuenti di tasse, obbedienze e sottomissioni. Con questi “nostri” affabulatori, il cosiddetto storytelling della storia diventa qualcosa di meno e di più: lente d’ingrandimento e telescopio, cronaca di bassezze e generosità, tamarrume di periferia e premi Nobel, gossip e grandeur. Se proprio ci preme assegnare alla divulgazione della storia un codice a barre, un’impronta o un pass, lasciatemi sbirciare nel dotto palinsesto di Rai 3: La storia siamo noi mi sembra un’intestazione seducente, lapidaria, colta (sul fatto), ruffiana. In una parola: perfetta.

A voler parafrasare quel titolo in ambito scientifico, Il sapere siamo noi sarebbe nient’altro che una tardiva invasione di un campo da sempre fin troppo recintato, di un tappeto verde notoriamente concimato da una lunga serie di privilegi e tabù: quelli dell’accademismo del potere, delle baronie degli atenei, del savoir faire finanziario delle fondazioni scientifiche, della vicendevole lobby tra ricerca, carrierismo e bon ton. Irridendo e scherzando, viene voglia di dividere il nostro sapere scientifico in “Sapienza” e “Normale”. Al posto della conoscenza, un demi-monde di conoscenze.

 

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Sono anni che il geologo ateo, ambientalista, vegetariano, militante antinucleare e ricercatore CNR Mario Tozzi ci erudisce con i suoi sempre seri, ma divertenti programmi televisivi Gaia, Terzo pianeta, La gaia scienza, Allarme Italia, Atlantide, Fuori luogo.

 

Chi di noi preferiva spostare lo sguardo da quelle bassezze verso l’alto, ha seguito per anni (in realtà, anni luce) gli itinerari, sia terrestri che astrali, di una tosta toscanaccia di nome Margherita Hack. Chi invece sceglie di concentrare le sue attenzioni su aree più terrene, si lascia volentieri sedurre dal martelletto post-neolitico e dai viaggi mentali e ambientali del geologo Mario Tozzi. Nel bel mezzo tra i due, nell’area della scienza dura e pura, c’è un uomo che si diverte a dare i numeri in mille direzioni: da ubiquo guidatore di un sempre più affollato scuolabus per adulti, il matematico Giorgio Odifreddi ci diletta con abbaglianti squarci sulla fisica e la filosofia, sulla politica e la genetica, sulle migliori prelibatezze culturali e sull’ateismo. Da tutt’altro genere di post-azione, un ingegnere ormai quasi novantenne ci parla da decenni di prognosi e proiezioni che partono sempre da due soli simboli decimali: il numero uno e lo zero. Lo fa in modo talmente convincente che, grazie alle sue innumerevoli (sic) conferenze, pubblicazioni e partecipazioni televisive, volente o nolente Roberto Vacca è stato persino insignito dell’appellativo mediatico “futurologo”. Chi invece continua a commentare in modo loquace, gentile e convincente il nostro immediato futuro sia planetario che locale, è uno scienziato dal nomen omen allegramente profetico: il meteorologo e climatologo Luca Mercalli non ci erudisce su falde, derive di continenti e onde sismiche, ma sulle crescenti fibrillazioni atmosferiche create dal sole, dai venti, dai mari e, prima di tutto, dallo stesso uomo. Con cocciuta insistenza lo studioso torinese suggerisce, insegna, ci avverte su come potremmo da subito integrarci al meglio con le risorse gratuite e spontanee della natura.

 

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Negli anni ’60, ’70 e ’80, il profondo e autorevole vocione di questo ingegnere dai mille interessi, competenze e campi d’azione ci sollecitò cocciutamente a fidarci solo del nostro raziocinio – e non delle varie credenze mistiche, religiose e paranormali. Sull’argomento, tra saggi e narrativa, Roberto Vacca ha raccontato e documentato questo nostro straordinario potenziale con ben 37 libri.

 

Sia in epoca pretelevisiva sia oggi, per riequilibrare la drammatica convivenza tra uomo e natura, l’Italia ha spesso potuto contare su una squadra di combattenti ottimamente preparati, anche se purtroppo non sempre ben accetti e vincenti. Per il rispetto degli spazi, dei silenzi e dell’ambiente, Walter Bonatti, Antonio Cederna, Giulia Maria Crespi, Fulco Pratesi, Folco Quilici e Franco Tassi hanno capeggiato tante battaglie pubbliche o persino di massa. Su come relazionarci al meglio con gli animali, Giorgio Celli, Danilo Mainardi e Licia Colò ci hanno pazientemente insegnato che le nostre attenzioni e passioni per la fauna dovrebbero estendersi non solo agli scoiattoli, alle gracule parlanti e ai panda, ma anche alle iene, agli uccelli del malaugurio e ai ragni.

Da quando l’ateo Ludwig Feuerbach coniò il calembour «Der Mensch ist was er isst» (L’uomo è ciò che mangia), anche il nostro paese è stato investito da ondate di sottoculture alimentari. Dopo la tassa sul macinato e la fame, il rancio “ottimo e abbondante” della Grande Guerra, l’olio di ricino, la Pizza Connection, le avide scorpacciate felliniane, la “spagheddi culture” dei media americani, i paninari al prosciutto di Prada, la sciagurata sudditanza alla Nouvelle Combine tra minimalismo grafico e ritualità di presentazione, il terrorismo delle diete come bio comanda… finalmente (si fa per dire) le tradizionali tavolate e i bicchierozzi del nostro immenso patrimonio enoalimentare sono stati sostituiti dai tavolini d’alluminio e dal fastfood.

 

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La vita dell’indiscusso padre della nostra consapevolezza culturale sui migliori terreni, vini e cibi, Luigi Veronelli, si riassume in modo perfetto e premuroso nella bellissima frase: «Benedico gli autori di storia ’minore’ il cui studio, o lettura, è d’eccezionale interesse per chi crede, come me, nel civile patrimonio delle ‘contadinità’.»

 

Il primo a darci la sveglia, con un’autentica campagna di alfabetizzazione di ritorno (dall’Aceto balsamico fino alla Zuppa inglese, dall’Aglianico del Vulture fino allo Zibibbo), fu il milanese Luigi Veronelli il quale, da anarchico convinto e combattivo, non solo ci tirò le orecchie sempre più attaccate al colesterolo cattivone e al bon ton dei vari Atkins, Scarsdale, Dukan, Méssegué; ma visitando, studiando e assaggiando le cucine dell’intero paese, ci fornì un’attenta rilettura dei territori, delle materie prime e dei climi grazie ai quali avremmo finalmente potuto riappropriarci delle nostre ingarbugliate ma ancora rigogliose radici alimentari. Oggi, dopo un lungo periodo di assestamenti mediatici da parte dei vari Vincenzo Buonassisi, Luigi Carnacina, Marco Guarnaschelli-Gotti, Davide Paolini ed Edoardo Raspelli, il suo più attuale e più diretto erede si chiama indubbiamente Carlo Petrini.

Ma insieme alla dolce-amara riscoperta delle tradizioni, questo paese aveva anche bisogno di vivide esplorazioni nella modernità: il primo a indicarci come cancellare le zone bianche dal nostro atlante linguistico ancora parecchio vergine e inesplorato, è stato l’eroico Alberto Manzi. Dall’unico canale Rai che c’era a quei tempi, ancora in bianco e nero, con il suo storico Non è mai troppo tardi regalò a milioni di concittadini l’agognata padronanza del primo, unico e prezioso abbiccì. A livelli parecchio più estesi, incrociati ed evoluti, il grande Tullio De Mauro ci avrebbe poi aperto gli occhi, la conoscenza e la mente su cosa significasse tradurre in realtà il pensiero base di don Lorenzo Milani: «Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua».

 

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Grazie al suo mitico saluto televisivo, «Qui Nuova York, vi parla Ruggero Orlando», dal 1955 al 1972 gli italiani capirono finalmente che gli Stati Uniti non erano solo le Cascate del Niagara, il tacchino, la Statua della Libertà, la bomba atomica, gli indiani d’America e gli Happy End. Per molti di noi, quelle notizie erano autentiche “lezioni americane”, impartite da un inarrivabile maestro di chiarezza, simpatia e semplicità.

 

E grazie all’appassionato mestiere di Enrico Filippini, Claudio Magris, Ruggero Orlando, Sandro Paternostro e Fernanda Pivano avremmo finalmente esplorato anche i patrimoni storici e letterari di luoghi in gran parte ancora sconosciuti, come la Germania, l’Inghilterra, gli Stati Uniti.

Ma setacciare e capire la modernità non significa solo scrivere, leggere, stampare e divulgare un ricco patrimonio di lemmi, locuzioni, idiomi. Vuol dire anche vedere, guardare, osservare cosa combiniamo in casa nostra (“casa” non intesa come home sweet home, ma come usanze, costumi, in continua e gustosa metamorfosi). E qui, contrariamente a ciò che succede di solito, de gustibus est – appunto – disputandum: i vari Altan, Alberto Arbasino, Marcello Baraghini, Edmondo Berselli, Bruno Bozzetto, Camilla Cederna, Oreste Del Buono, Gillo Dorfles, Anna Piaggi, Beniamino Placido e Sergio Saviane avrebbero, tutti insieme allegramente, scoperchiato, svelato e disossato le nostre numerose e malcelate magagne, i peccati e i piaceri proibiti.

 

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Saper implodere in pochi tratti le tendenze, le illusioni e le derive di un intero paese è un privilegio solitamente riservato ai sociologi e agli studiosi della psiche. Se invece questo talento s’accoppia a una micidiale dose di cattiveria e lucidità, per gli arruffoni, gli yesman e gli opportunisti non c’è scampo. In Italia non c’è stratega d’impresa, politico o pubblicitario che non avrebbe bisogno di studiare a fondo le settimanali lectio magistralis di Altan.

 

Alla salute di chi invece ha poco da ridere ma tanto da ridire, lo psichiatra Franco Basaglia, il pediatra Marcello Bernardi, il conduttore televisivo Michele Mirabella, il socioterapeuta Vincenzo Muccioli, lo psicologo Cesare Musatti e il chirurgo Gino Strada hanno tutti divelto, o quantomeno reso trasparenti, parecchi steccati, aree off limits, vecchi tabù.

Nel cosiddetto “sociale”, che spesso confluisce nell’area della protesta, della ribellione e qualche volta persino dell’illegalità, grazie ai vari Aldo Capitini, Mario Cardinali, Luca Coscioni, Danilo Dolci, Beppino Englaro, Franco Grillini, Peppino Impastato, Mario Lodi, Carla Lonzi, Lina Merlin, Marco Pannella, Hans Rüesch, Franca Viola… fino a Roberto Saviano, Lorella Zanardo ed Erri De Luca, la divulgazione dei nostri diritti civili è forse l’unico fattore di crescita che non si è ancora immiserito.

Laddove la modernità si fonde con la tecnologia, la semantica e la scienza, il divulgatore informatico Salvatore Aranzulla, il blogger I.T. Paolo Attivissimo, il glottologo ed enigmista Stefano Bartezzaghi, il genetista Edoardo Boncinelli, il filosofo della scienza Giulio Giorello, il giornalista e saggista Federico Rampini e l’esperta di comunicazione Annamaria Testa fanno di tutto, e di tutto di più, affinché l’ampiezza e la bellezza della divulgazione non si tramuti solo in un Viagra per chi è un po’ avanti nella cultura e nell’età.

Questo pellegrinaggio nel mio eden della condivisione e della complicità non poteva concludersi senza un affettuoso omaggio a chi può legittimamente essere considerato come il patrono della nostra divulgazione giornalistica, libraria e soprattutto televisiva: il suo nome inizia con una bella P (come Pianista, Pioniere, Pourparler) mentre il cognome comincia con una maiuscola A (come Autorevole, Affabile, Avvincente).

Arguisco che il “nostro” P.A. (e figlio) non abbia nulla in contrario se tutto questo magnifico ambaradan lo riconduco a due giganti transalpini del Settecento (che, in qualche modo, avevano anticipato anche questo mio modesto articolo dei lumi). A chi gli avesse chiesto perché la loro Encyclopédie avrebbe potuto cambiare il mondo in meglio, forse avrebbero risposto con un lapidario:

«C’est plus facile.»

 

Encyclopedie de DAlembert et Diderot Premiere Page ENC 1 NA5

I raggi che segnavano gli anni della prima sistematica divulgazione scientifica e culturale al mondo, noti anche come “secolo dei lumi”, partirono dalle menti di due giganti del pensiero umano. In 24 anni di eroiche fatiche, Denis Diderot e Jean-Baptiste d’Alembert pubblicarono la straordinaria Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers consistente di ben 35 volumi con oltre 140.000 voci.

 

I divulgatori italiani…

…e le aree in cui hanno agito con più compartecipazione e visibilità.

 

C

= Concerti, recite, conferenze

I

= Insegnamento

G

= Giornalismo

L

= Libri, saggi, critiche, editoria, collane, documentari       

P

= Politica

R

= Radio

T

= Televisione

W

= Web

 

Giorgio Albertazzi (attore e regista) *1923 (C + T)

Francesco Tullio Altan (vignettista) *1942 (G + L)

Alberto Angela (paleontologo, scrittore e giornalista) * 1962 (T + L)

Piero Angela (scrittore e conduttore televisivo) *1928 (T + L)

Simone Annicchiarico (musicista, attore e conduttore televisivo) *1970 (C + R + T)

Salvatore Aranzulla (informatico) *1990 (W)

Alberto Arbasino (scrittore e saggista) *1930 (L + G + P)

Renzo Arbore (musicista, sceneggiatore e personaggio multimediale) *1937 (R + T + C)

Paolo Attivissimo (informatico) *1963 (R + G + W)

Corrado Augias (giornalista e scrittore) *1935 (G + L + T + P)

Marcello Baraghini (editore) *1943 (L + G)

Alessandro Barbero (storico) *1959 (L + I + T)

Alessandro Baricco (scrittore, sceneggiatore e giornalista) *1958 (L + G + I + T)

Stefano Bartezzaghi (linguista ed enigmista) *1962 (G + L)

Franco Basaglia (psichiatra e neurologo) 1924-1980 (L + C + G)

Marcello Bernardi (pedagogo e pediatra) 1922-2001 (L + G + C)

Edmondo Berselli (giornalista, scrittore e saggista) 1951-2010 (L + G + T)

Enzo Biagi (giornalista, scrittore e conduttore televisivo) 1920-2007 (G + T + T)

Giorgio Bocca (giornalista e scrittore) 1920-2011 (G + L + T)

Stefano Bollani (musicista) *1972 (C + T)

Walter Bonatti (alpinista, giornalista e scrittore) 1930-2011 (G + L + C)

Edoardo Boncinelli (genetista) *1941 (L + I + C)

Bruno Bozzetto (animatore e regista) *1938 (L + T)

Gianni Brera (giornalista e scrittore) 1919-1992 (G + L + T)

Aldo Capitini (filosofo, poeta, educatore, animalista e pacifista) 1899-1968 (I + L + P)

Mario Cardinali (scrittore ed editore satirico) *1937 (G + L)

Flavio Caroli (storico dell’arte) *1945 (C + L + T)

Silvio Ceccato (filosofo, musicologo e linguista) 1914-1997 (I + C + T)

Antonio Cederna (ambientalista, giornalista e politico) 1921-1996 (G + L + C + P)

Camilla Cederna (giornalista e scrittrice) 1911-1997 (G + L)

Giorgio Celli (etologo) 1935-2011 (I + S + L + C + T)

Carlo M. Cipolla (storico dell’economia) 1922-2000 (I + G + L + C)

Luca Coscioni (ricercatore, ambientalista, economista e militante politico) 1967-2006 (I + C + P)

Giulia Maria Crespi (imprenditrice, alimentarista e ambientalista) *1923 (C + G)

Licia Colò (conduttrice televisiva e scrittrice) *1962 (T + L)

Michele Dall’Ongaro (compositore e storico della musica) *1957 (I + C + T)

Philippe Daverio (storico dell’arte) *1949 (L + C + T + P)

Luciano De Crescenzo (scrittore e saggista) *1928 (L + C)

Tullio De Mauro (linguista) *1932 (I + G + L + P)

Oreste Del Buono (traduttore, scrittore e giornalista) 1923-2003 (G + L + R + T)

Erri De Luca (scrittore) *1950 (L + G + C + T)

Gabriele Di Matteo (giornalista informatico e di comunicazione) (G + C + T + W)

Danilo Dolci (sociologo, educatore e pacifista) 1924-1997 (I + G + L + P)

Costantino D’Orazio (storico dell’arte) *1974 (L + R + T)

Gillo Dorfles (docente di estetica, pittore e storico dell’arte) *1910 (L + G + C)

Umberto Eco (semiologo, scrittore e saggista) *1932 (C + I + L + G + R + T)

Beppino Englaro (combattente per i diritti civili) *1941 (C + L)

Enrico Filippini (germanista, traduttore, direttore editoriale e scrittore) 1932-1988 (I + G + L)

Dario Fo (attore, regista e commediografo) *1926 (C + I + L + T)

Enrico Ghezzi (critico cinematografico, scrittore e conduttore televisivo) *1952 (G + L + T)

Ando Gilardi (storico della fotografia) 1921-2012 (I + G + L + W)

Giulio Giorello (filosofo della scienza) *1945 (I + L + G +C)

Franco Grillini (combattente per i diritti civili degli omosessuali) *1955 (P + L + C)

Margherita Hack (astrofisica) 1922-2013 (I + C + G + L + P + T)

Peppino Impastato (giornalista, poeta e attivista politico) 1948-1978 (G + R + P)

Mario Lodi (pedagogista, scrittore e insegnante) 1922-2014 (I + G + L)

Carla Lonzi (scrittrice, critica d’arte e femminista) 1931-1982 (G + L + C)

Claudio Magris (scrittore, germanista e politico) *1939 (L + G + P)

Danilo Mainardi (etologo) *1933 (I + G + L + T)

Valerio Massimo Manfredi (storico e scrittore) *1943 (I + G + L + T)

Alberto Manzi (pedagogista e conduttore televisivo) 1924-1997 (I + T + L)

Carlo Massarini (storico del rock, conduttore radiofonico e televisivo) *1952 (C + R + T + L)

Luca Mercalli (meteorologo e climatologo) *1966 (C + I + L + T)

Lina Merlin (combattente per l’abolizione della prostituzione legalizzata) 1887-1979 (P + C)

Lorenzo Milani (sacerdote, pedagogista e scrittore) 1923-1967 (I + L)

Gianni Minà (giornalista e scrittore) *1938 (G + L + T)

Michele Mirabella (regista, attore, giornalista e conduttore televisivo) *1943 (I + G + L + T)

Tomaso Montanari (storico dell’arte)*1971

Indro Montanelli (giornalista, storico e scrittore) 1909-2001 (G + L + T)

Vincenzo Muccioli (imprenditore e operatore sociale) 1934-1995 (C + L)

Gianni Mura (giornalista sportivo e gastronomico, osservatore culturale) *1945 (G + L + T)

Cesare Musatti (psicologo) 1897-1989 (I + G + L)

Piergiorgio Odifreddi (matematico) *1950 (I + G + L + P + T)

Ruggero Orlando (giornalista e politico) 1907-1994 (G + R + T + L + P)

Marco Pannella (giornalista e politico radicale) *1930 (G + P + C)

Marco Paolini (drammaturgo e attore) *1956 (C + R + T)

Pier Paolo Pasolini (poeta, scrittore, editorialista, regista e saggista ) 1922-1975 (C + G + L + T)

Darwin Pastorin (ispanista e giornalista) *1955 (G + T + P)

Sandro Paternostro (giornalista e conduttore televisivo) 1922-2000 (G + T)

Carlo Petrini (gastronomo e scrittore) *1949 (I + C + G + L + P)

Anna Piaggi (giornalista di moda e scrittrice) 1931-2012 (G + L)

Fernanda Pivano (traduttrice e storica di letteratura americana) 1917-2009 (L + G)

Beniamino Placido (critico letterario) 1929-2010 (G + L + T)

Fulco Pratesi (naturalista) *1934 (C + G + I + L + P)

Folco Quilici (documentarista e scrittore) *1930 (G + L + T)

Federico Rampini (giornalista e storico dell’innovazione) *1956 (G + L + C + T + W)

Red Ronnie (al secolo Gabriele Ansaloni) (dj e conduttore televisivo) *1951 (C + G + L + R + T)

Hans Ruesch (scrittore, editore, antivivisezionista) 1913-2007 (C + G + L)

Paolo Rumiz (giornalista e scrittore) *1947 (G + L)

Silvia Salvatici (storica di politica, del mondo femminile e del lavoro) *1967 (I + L + T)

Tatti Sanguineti (storico del cinema, autore televisivo, regista e attore) *1946 (C + G + L + T)

Sergio Saviane (scrittore e giornalista satirico) 1923-2001 (G + L)

Roberto Saviano (scrittore, giornalista e storico della criminalità) *1979 (L + G + T)

Eugenio Scalfari (giornalista, scrittore, economista e politico) *1924 (G + L + T)

Salvatore Settis (archeologo e storico dell’arte) *1941 (I + C + L + T)

Vittorio Sgarbi (storico dell’arte, politico e polemista) *1952 (C + I + G + L + T + P)

Mario Soldati (scrittore, giornalista e regista) 1906-1999 (L + G + T)

Pino Strabioli (regista, attore e conduttore televisivo) *1963 (C + T)

Gino Strada (chirurgo e attivista sociale) *1948 (C + G + L +P)

Claudio Strinati (storico dell’arte) *1948 (C + L + T)

Franco Tassi (biologo, entomologo e scrittore) *1938 (I + G + L)

Annamaria Testa (pubblicitaria e storica della comunicazione) *1953 (I + L + G + C + W)

Mario Tozzi (geologo e giornalista) *1959 (I + G + L + T)

Roberto Vacca (ingegnere, matematico, futurologo e saggista) *1927 (I + G + L + T)

Luigi Veronelli (enologo e scrittore) 1926-2004 (G + L + T + P)

Beppe Viola (giornalista, scrittore, paroliere e umorista) 1939-1982 (G + T)

Franca Viola (la prima italiana a rifiutare il “matrimonio riparatore”) *1947

Lorella Zanardo (attivista e scrittrice) *1957 (L + G + C + W)

Sergio Zavoli (giornalista, scrittore, conduttore televisivo e politico) *1923 (G + T + C + P)

Federico Zeri (storico dell’arte) 1921-1998 (I + L + G + C + T)

 

Jean Le Rond dAlembert by French school

Jean-Baptiste d’Alembert, pastello di Maurice Quentin de la Tour, 1753.

 

 Tratto da

Dixit Café