20150210 Paolo Agrati thumb
Poeta di base a Verderio, ma anche cantante e slammer. Intervista a un protagonista della poesia italiana contemporanea, fra studio, passione, composizione, ironia e Sudamerica.

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cclamato slammer italiano, Paolo Agrati è autore di tre raccolte poetiche: Quando l'estate crepa (LietoColle 2010), Nessuno ripara la rotta (La Vita Felice 2012) e il recente Amore&Psycho (Miraggi Edizioni 2014). Bonariamente serafico e sempre pronto alla risata (contagiosa, peraltro), fra i poeti che operano in Brianza si staglia soprattutto per la rilassatezza con cui vive il mondo poetico contemporaneo: da lontano, come direbbe lui, quasi come se in fondo non lo riguardasse davvero. Forse è anche per questo che il suo percorso poetico ha potuto mantenersi vitale, fresco, originale. Il suo modo di scrivere è spesso divertente, al limite del nonsense, ma le conlusioni dei suoi testi fanno sbocciare con naturalezza una poesia vera e cristallina, che strozza il riso trasformandolo al tempo stesso in conoscenza. Frutto di un lavoro poetico che dopo tanto prendersi sul serio ha imparato a convivere con la realtà, e forse persino a guardarla davvero.
Paolo Agrati è un artista che si dedica non solo alla poesia, ma anche alla musica: è cantante e voce narrante della Spleen Orchestra, originale gruppo ispirato alle atmosfere dei film di Tim Burton che continua a raccogliere consensi e vanta un discreto seguito.

Quando nasce e come si sviluppa la passione per la poesia?
Il mio approccio iniziale è stato parecchio radicale: direi che il mio atteggiamento nei confronti della parola era sacrale. Un pregio, ma al tempo stesso un difetto: essere attenti alla parola è un pregio di per sé, tuttavia capivo, man mano, che così facendo mi creavo vincoli che servono poco alla poesia di per sé, ed ecco il difetto. Ho compiuto in poesia quello che è successo a parecchi artisti, che sono passati dal figurativo all'astratto.
Il libro che amo di più è il primo, Quando l'estate crepa, proprio per via di questo peso forte che ha la parola. In seguito però ho scelto di lavorare con la condivisione. Significa lavorare sul linguaggio, sulla liberazione del linguaggio dalla forma, perché sia il più condiviso possibile. In fondo ho sostituito una classicità con un'altra, quella della poesia detta. Quello che ho mantenuto è stato l'obiettivo di controllare le parole, perché mi permette di fermare, di gestire l'emozione: decido io fin dove scoprirmi.
La mia passione per la poesia nasce ai tempi delle superiori, soprattutto quando ho conosciuto i versi di Ungaretti, che tuttora mi fa impazzire. La mia scuola, oltretutto, organizzava il concorso letterario "Marina Incerti", grazie al quale mi sono potuto confrontare con un poeta come Luigi Cannillo, insegnante del mio liceo, che poi avrebbe firmato la prefazione del mio primo libro. Cannillo mi ha insegnato a domandarmi sempre: "vale la pena di leggere ciò che sto scrivendo?".

Facciamo una digressione sui tuoi prefatori, perché è rilevante che siano tre personalità ben calate nell'ambito poetico contemporaneo, ma alquanto diverse fra loro: dopo Luigi Cannillo, Ivan Fedeli ha firmato la prefazione di Nessuno ripara la rotta, ma soprattutto l'ultimo Amore & Psycho è stato preceduto dalla prefazione di Guido Catalano, forse dei tre quello che come poeta suscita le reazioni più contrastanti, fra ampi consensi e netti rifiuti. Che ne pensi?
In realtà io non vedo dove sia il conflitto: esistono semplicemente linguaggi differenti. Gli strumenti che hai per giudicarli sono personali, rinchiusi nel tuo gusto, nella tua personalità. Quella però non è analisi: la vera analisi può passare solo giudicando i punti forti e deboli di una poesia.
Per me, una poesia come quella di Catalano passa qualcosa al pubblico e questo è già un punto di forza. È inutile però farsi guerra tra modi diversi di fare poesia. Io spesso non leggo alcune cose perché mi sembrano troppo private, ma la realtà è che ognuno lavora con i mezzi che ha: il tuo mezzo è la voce, il corpo? Usalo. Il tuo mezzo è la carta, ciò che sai costruire per iscritto? Allora, che sia potente.
Per chiarire con un esempio: a me può non piacere Chagall, ma nulla mi impedirà di vedere nitidamente il suo percorso artistico e di averne rispetto.

Quindi non arrivi mai a dire "questo mi fa schifo", senza se e senza ma?
Il mio approccio è lo stesso che ho visto nell'arteterapia, dove si fa in modo che ognuno esprima ciò che ha dentro e non esiste il bello e il brutto, ma solo l'espressione. Se vogliamo scomporre la poesia in componenti, io ne identifico tre: comunicabilità, musicabilità e tecnica. Per ipotesi, io potrei appassionarmi per una sola di queste tre componenti ed essere comunque contento di ciò che ho letto o ascoltato. Le più disparate possibilità di scrivere sono tutte strade, e non c'è una strada per forza migliore delle altre: mi basta che ce ne sia una, che sia visibile.

Il tuo modo di scrivere è originale e incline al riso, anche se mai fine a se stesso. Come è avvenuto il passaggio a questo tipo di approccio, dopo gli inizi più "classici" di cui parlavi?
Prendiamo a esempio uno dei miei testi più antichi, Angela. Nella struttura, all'inizio offro al lettore una metrica classica, con rime. Poi, anche grazie al vero e proprio errore grammaticale, questa struttura si scioglie, inducendolo al riso, ma è solo dopo averlo portato all'apice dell'ilarità che gli svelo di colpo di aver riso di un poveraccio, di uno che non sta bene. Tutto ciò è mediato, consapevole, voluto. Per riuscirci uso spesso parole ampie, polisemiche, perché il lettore abbia comunque la libertà di trovare quante più strade possibili, e possa scegliere.
Negli ultimi tempi ho imparato a sentirmi libero in poesia. Certo, così è inevitabile fare errori, ma significa solo perdere qualcosa per ottenere qualcos'altro. Spesso, dopo tanto scrivere, dimentichiamo che il solo vero obiettivo è emozionarsi ed emozionare: se per riuscirci devo rinunciare a una parolina, lo faccio.

Sei uno slammer di talento, ma al tempo stesso autore di più canoniche sillogi: come vivi il tuo essere al tempo stesso performer e poeta di carta? Soprattutto, però: sono distinzioni che hanno un'utilità nella poesia contemporanea?
A me il poetry slam è servito come passaggio necessario per avere un contatto con le persone, sviluppando una capacità che poi mi sarebbe servita in altri ambiti in cui lavoro, come la musica e il doppiaggio. Mi è stata subito chiara la funzione dello slam: far sentire le voci, farle riconoscere. Un'altra qualità dello slam è l'umiltà che ti insegna: se ti presti, accetti di andare in pasto ai leoni, accettando il giudizio di un pubblico che non conosci e di cui non conosci la reale padronanza della poesia. Accetti di prendere voti letteralmente da chiunque, più o meno istruito. Il lato negativo del poetry slam invece sta nel fatto che la lingua rischia di perdere molto: se il linguaggio più facile da veicolare è il comico, e spesso mi capita di riscontrarlo, rischi di voler far ridere per far ridere, perdendo di vista la poesia. Per me comunque la fase del poetry slam si avvia verso la fine. Come tutte le esperienze, deve avere un termine: alla fine succede che ti abitui a vincere sempre, che gli altri cerchino di batterti... poi magari accade davvero... largo ai giovani, piuttosto (ride)!
La distinzione secondo me non serve, per rispondere alla domanda: l'importante è scrivere, oltre che mantenere un approccio ludico e di condivisione, quello su cui lo slam può dare buoni frutti. È un approccio che ho visto potente in Colombia.

Ecco, parliamo del Festival Internazionale di Poesia di Medellín, in Colombia, a cui hai partecipato nel 2014: come sei stato accolto? Che esperienza è stata?

Esperienza fantastica. Ho saputo del festival soltanto dopo essermi regalato per i miei 40 anni un viaggio di due mesi in Colombia. Allora mi sono proposto inviando il mio curriculum e una presentazione di Lello Voce, e mi è stato risposto di sì: è stato come andare a Gardaland. Poeti da tutto il mondo, voci diverse, tecniche, strade diverse... ho visto un approccio inaspettato verso i classici, ma al tempo stesso tanto rispetto anche verso la mia poesia, che pure se ne allontana. Sono stato ospite in teatro, all'Università, alla radio: c'è una rete poetica molto fitta, in Colombia, che lavora bene. Ho vissuto addirittura l'esperienza degli autografi, con la gente che mi riconosceva per strada, giuro! Indimenticabile.

 

Quali sono stati i riscontri internazionali sulla tua poesia? Sul tuo sito ci sono le traduzioni in inglese e spagnolo di alcuni tuoi testi...
Le traduzioni in spagnolo le ho eseguite io stesso, con la supervisione di un madrelingua: andavano consegnate all'organizzazione del Festival circa tre mesi prima, per dare modo ai loro lettori (ne assegnavano uno a ciascun poeta straniero) di impararle bene. Io, sapendo lo spagnolo, ho scelto in alcuni casi di leggere direttamente in traduzione, ma mi piaceva molto la voce della lettrice che mi avevano assegnato.
Le traduzioni in inglese, invece, hanno un'origine privata: semplicemente erano dedicate a un'ex fidanzata tedesca che non sapeva l'italiano... adesso forse un poeta turco le utilizzerà per inserirne alcune nella rivista letteraria che dirige.

Parlaci dell'esperienza della Spleen Orchestra: dove metti tutta quella barba quando devi truccarti?
Diciamo che con la truccatrice nascono spesso diatribe al riguardo, cosa che ci ha portato a sperimentare diverse soluzioni estetiche. Una volta mi sono presentato con dei basettoni ottocenteschi da urlo, ma altre volte ho anche accettato di rasarmi a zero. Adesso, però sono più affezionato alla barba e abbiamo trovato un compromesso.
La Spleen Orchestra, che ho messo su insieme a Silvano Spleen qualche anno fa, è un'altra esperienza di condivisione di cui sono contentissimo. È un atto corale, un'altra attività che insegna come gestire le emozioni del pubblico, ma soprattutto che mi permette di ricordarmi che emozionarsi ed emozionare è tutto ciò che conta davvero.

Qual è il formato della Spleen Orchestra? Il concerto? Il Musical?
È una terza via, diciamo. La base consiste in parti di film di Tim Burton cucite da una voce narrante, che sarei io. Si passa da un film all'altro senza vera recitazione, ma solo con la musica e con la voce.

Nella poesia di oggi, è più importante essere autore di tre libri (e di una plaquette Pulcinoelefante) o tenere un blog?
Come ho già detto, l'importante è scrivere. Il supporto conta poco. La mia esperienza con i libri è stata fortunata, ma non so quanta autorevolezza ti possa dare un libro. Per me conta il percorso, la strada, più che l'arrivo. Il libro è una costruzione, perciò non mi fa paura che al suo interno ci siano poesie più deboli di altre: in un percorso ci sta che si passi fra alti e bassi.
Il blog ha l'obiettivo di far conoscere la poesia, ma forse ancora non lo sto usando bene. In ogni caso, è un supporto: dipende da che cosa ne fai. Io preferisco la carta, ma non posso prendermela con il futuro. La tecnologia esiste, esiste da sempre e spezza le consuetudini, in letteratura come nella vita di tutti i giorni. Del resto, non puoi davvero avercela con il videocitofono, no?

ANGELA – per gentile concessione di Paolo Agrati

 Angela tu sei il mio amore
mi sei entrata dentro nel cuore.
Quando vedo il tuo sorriso
che si affaccia sul tuo viso
il mio cuore si riempie di gioia
e la mia vita non è più una noia.
Sei un angelo che spiega le sue ali.
Ma non spiega quanto sei bella.
Non spiega quanto sei dolce.
Non spiega quanto sei fidabile.
In pratica non spiega niente
come dio.
Penso sempre a te tutta nuda.
Ma anche ad altre donne nude in genere.
Quando cammino per la strada
le donne nude indossano i vestiti
per confondermi.
Ma non te lo dico di sicuro
perché sei gelosa come donna.
Volevo presentarti hai miei genitori
e poi hai parenti di giù
ma poi o pensato
meglio che prima mi presento io.
Allora sono venuto da te
per rivelarti che stavamo insieme
già da un po’.
Se a quarantanni non ai il coraggio
di dire certe cose
non ce l’ai più.
Ma tu sei scappata
a chiamare la polizia
e i carabinieri
senza finire la lampada bronzante.
Urlavi come fa l’opossum
femmina quando è innamorata.
(L’ho visto nel documentario
alle venti e trenta sul primo
con Piero Angela
che si chiama come te
ma con un cogniome da uomo).
E tutte le forze in divisa
anche gli addetti alla sosta
e quelli del corriere espresso
che anno il furgone giallo
e parlano spagnolo.
E anche il tizio nero enorme fuori da Zara.
Sapevo che avresti subito il fascino della divisa
per questo per non condizionarti ero nudo.
E siccome non avevo le tasche
per mettere i fogli
mi ero scritto il discorso sulla pancia
ma non o potuto leggerlo
che con tutta quella gente mi sono intimidito.
Allora adesso è arrivato il momento
di scriverti e chiederti
se mi ami
perché io ti amo.
Mi sembra una vita
che ci conosciamo
sembrava era ieri
che ti o vista
al supermercato discount prezzi bassi.
Invece era ieri l’altro.
Quando mi ai detto:
– levati dal cazzo che stai proprio
davanti ai tamponi superflusso.
Allora o capito che
anche se un po’ bassa
eri una comprensiva perché
mi ai rivolto la parola.
E che avresti potuto amarmi.
Perché a me non mi ha mai amato nessuno.

Gli autori di Vorrei
Simone Camassa
Simone Camassa

Nato a Brindisi il 7 maggio del 1985. Insegnante di Italiano, Storia e Geografia nella scuola pubblica, si è laureato in Lettere, in Culture e Linguaggi per la Comunicazione e in Lettere Moderne, sempre all'Università degli studi di Milano. Suona la chitarra elettrica (ha militato in due gruppi rock, LUST WAVE e BLACK MAMBA) e scrive poesie.

Appassionato di sport, ha praticato il nuoto a livello agonistico fino ai diciotto anni, per un anno ha anche giocato a pallacanestro. Di recente, è tornato al cloro.
È innamorato della letteratura in tutti i suoi aspetti, dalla poesia fino al fumetto supereroistico statunitense. Sogna di realizzare un supercolossal hollywoodiano della Divina Commedia, ovviamente in forma di trilogia e abbondando con gli effetti speciali.

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