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Il lungo cammino del film “Io sto con la sposa”, con le interviste a Gabriele del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry e Antonio Augugliaro

La prima parte di questa intervista nasce prima che il “fenomeno” Io sto con la sposa divampasse all'ultima edizione del Festival del cinema di Venezia. All'autrice, Silvia Giacon, Vorrei ha chiesto in queste settimane di tornare ad occuparsene per raccontare ai lettori come si sia evoluta la vicenda. Quello che presentiamo è un lungo reportage sulle tracce della sposa. Buona lettura.

 

 

Appena mi presento ad Abdullah, i suoi occhi mi parlano prima di lui. Gli parlo in italiano, ma sorridendo mi fa intendere che non capisce. Allora gli chiedo in inglese se posso fargli qualche domanda. Sorride e i suoi occhi, belli e profondi, si illuminano per un attimo. Forse sta prendendo coscienza della sua fortuna, che l'ha portato ad arrivare fin qua mentre molti suoi compagni di viaggio sono caduti nelle acque del Mediterraneo. Deve sentirsi realizzato, ma il suo sguardo non tradisce la sofferenza che ha visto nelle persone che, come lui, erano sul barcone naufragato a 70 miglia a sudest da Lampedusa l'11 ottobre 2013 (fu il terzo naufragio in dieci giorni). Sono occhi che esprimono più di mille parole, quelli di Abdullah.

Quella che vi racconto oggi non è la Siria da prima linea, quella di cui leggiamo sui nostri giornali ormai quotidianamente e di cui vediamo filmati e fotografie trasudanti morte e ingiustizie. Voglio raccontarvi di un viaggio, un bel viaggio di un gruppo di profughi che a fuggire ce l'ha fatta, ma non si è fermato al primo porto utile per ramificare le proprie frustrazioni. Questi ragazzi hanno avuto di più.

Ho conosciuto Io sto con la sposa per caso, cliccando qua e là in un giorno come un altro. Ho iniziato a seguirlo e la sera del 17 luglio ero davanti al Frida, a Milano, armata di registratore e pronta a interrogare le menti e le braccia di questo curioso progetto. Ma di cosa si tratta? Io sto con la sposa è un progetto che unisce le passioni di tre ragazzi: un regista, un giornalista e un poeta. Galeotta fu la stazione di Porta Garibaldi, dove si trovavano un giorno dello scorso ottobre Gabriele Del Grande, giornalista fondatore di FortressEurope e Khaled Soliman al Nassiry, poeta siriano di origine palestinese. Galeotto fu un ragazzo sperduto con uno zainetto in spalla, che chiese loro in arabo da dove partivano i treni per Stoccolma. E galeotto fu Antonio, l'amico regista di Gabriele. Il resto è ora un film, completamente autoprodotto e finanziato grazie ad un'intensa campagna di crowdfunding che si trova al momento tra le mani dei selezionatori del Festival di Venezia. Se la giuria lo riterrà meritevole, ne sentiremo ancora parlare. C'era tanta gente quella sera al Frida, gente che come loro era mossa da un sincero spirito solidaristico, stanca di assistere ogni giorno alle tragedie che si consumano nei nostri mari. Gente animata, come i registi, dalla volontà concreta di dare spazio alle voci di chi non muore ma deve vivere, di chi arriva qua da noi ma non ci vuole stare, di chi vuole costruirsi una vita normale ma non ha avuto le possibilità per farlo per colpa di un regime violento e corrotto. Non ho visto pietismo nel lavoro di Gabriele e Khaled, bensì un tentativo concreto di contribuire ad una causa in cui, l'uno per passione, l'altro per provenienza, credono ciecamente. E poi ho visto un lavoro, quello di Antonio, che restituisce speranze ai giovani documentaristi italiani.  

Uno spettatore mi faceva giustamente notare che, nonostante il progetto sia lodevole, non è detto che il film lo sia altrettanto. Ci ho pensato, credo però che l'obiettivo di Gabriele, Khaled e Antonio fosse prima di tutto quello di favorire il passaparola, mostrare al mondo intero la realtà dei migranti, sensibilizzare le istituzioni a fare di più, a modificare le leggi esistenti a favore di provvedimenti più efficaci verso un problema che più che mai sta interessando l'Europa intera. Loro, la loro Venezia, l'hanno già vinta.

Ha ottenuto un permesso di soggiorno per vivere in Svezia, dove già si trovavano alcuni suoi parenti

Quando ho chiesto ad Abdullah se avesse mai avuto paura, lui mi ha risposto che l'ha avuta più per gli altri che per se stesso perché il suo obiettivo è ormai raggiunto: ha ottenuto un permesso di soggiorno per vivere in Svezia, dove già si trovavano alcuni suoi parenti. Quando gli ho chiesto che sentimenti nutrisse per il suo paese, gli occhi hanno di nuovo tradito le sue emozioni ed è bastata qualche parola a trasmettermi la nostalgia che sente.
Ho anticipato anche troppo, la parola ai protagonisti.

 

 

Intervista a Gabriele del Grande

Ci racconta di essere uno dei superstiti del naufragio dell'11 ottobre, 250 morti, una storia atroce

Gabriele, mi racconti qualcosa sull'origine del progetto?
Tecnicamente parlando un giorno eravamo qua in stazione Garibaldi, insieme a Khaled e a un altro ragazzo siriano, stavamo andando a prendere un caffè. Era l'ottobre dell'anno scorso. Era il mese dei naufragi di Lampedusa, di Malta. Io ero appena tornato dalla Siria, era un momento un po' particolare. Quel giorno in stazione incontriamo Abdullah che si avvicina a noi, ci sente parlottare in arabo e ci chiede in arabo se sapevamo da che binario partiva il treno per la Svezia. Cominciamo a parlare, a scherzare, lo invitiamo a prendere un caffè con noi, nasce lì un'amicizia. Ci racconta di essere uno dei superstiti del naufragio dell'11 ottobre, 250 morti, una storia atroce. Quella sera ci salutiamo, lui val al centro di accoglienza di via Aldini a dormire e noi incominciamo a chiederci come aiutarlo a viaggiare senza documenti in Europa, visto che il loro obiettivo era proseguire verso la Svezia e l'unico modo era pagare i contrabbandieri. Così una sera è uscita questa idea della sposa. Io l'ho buttata lì un po' per scherzo, poi Antonio Augugliaro, che è il terzo regista e quello di noi con più esperienza nel cinema, prende questa cosa molto sul serio, ci chiama un paio di giorni dopo, incominciamo a ragionarci, decidiamo di farlo e due settimane dopo siamo effettivamente partiti con Abdullah, con Tasneem che è la sposa ingaggiata per il progetto, con una coppia di vecchi comunisti siriani, con Manar, il bambino rapper insieme al padre e con una quindicina di amici italiani, siriani e palestinesi che sono venuti a fare gli invitati al matrimonio e si sono lasciati un po' come noi conquistare da questa idea pazza ma bella, che nel nostro immaginario corrispondeva a una cosa giusta da fare. C'era la sfida, la ribellione, la bellezza, tutta una serie di elementi che ci hanno fatto fin dall'inizio decidere di farla.

E al termine di questo percorso sei rimasto soddisfatto?
Al termine del primo viaggio, quello fisico, ovviamente ero contento. Siamo arrivati a Stoccolma che non sapevamo se avevamo fatto un film, per dieci ore al giorno stavamo in tre macchine separate con tre telecamere separate. Non sapevamo gli altri cos'avevano filmato, non c'era il tempo per fare riunioni la sera, era un ritmo veramente forsennato, però eravamo contenti, io ero contento, l'obiettivo per me era raggiunto, era stata una cosa talmente forte emotivamente. Poi siamo tornati, abbiamo cominciato a montare e abbiamo visto che il film c'era veramente. Quindi siamo doppiamente contenti, sia per quello che abbiamo vissuto, sia per quello che abbiamo fatto, sia per il terzo viaggio del crowdfunding, anche quello un bel viaggio.

Direi che verso Venezia ci state arrivando…
Si insomma, Venezia non la decide il crowdfunding, ma sicuramente ci ha dato una grossa mano, abbiamo fatto il record in Italia: il più grande crowdfunding del cinema italiano, 2500 persone che hanno fatto una donazione, quasi 100.000 euro raccolti. Avendo a che fare con persone che ti dicono “io sto con te”, ormai all'ipotesi di processo e condanna non ci pensiamo più.

Hai mai avuto paura per la tua sicurezza personale?
Durante il viaggio eravamo preoccupati. C'era un clima talmente bello, però appena ti fermavi un attimo ci pensavi al rischio di arresto in flagranza di reato. Adesso il rischio è una denuncia, eventualmente un'indagine, eventualmente un rinvio a giudizio. Se ci fosse un processo, secondo me, saremmo in grado di mediatizzarlo, considerato che con noi ci sono migliaia di persone che si sono rotte di queste leggi, di questi morti in mare. Certi giorni ci pensavamo, adesso  che c'è stata un'accoglienza così calda ti dici “Vabbè, c'è anche un'altra Europa, c'è anche un altro mondo a cui queste cose piacciono”.

Che misure di sicurezza avete adottato?
Seguivamo l'auto sonda come i contrabbandieri, cioè una macchina con italiani tutti regolari a bordo che viaggiava mezzora davanti a noi, quindi in caso di posti di blocco ci avrebbe chiamato e saremmo usciti.

E adesso che la cosa è pubblica?
Il rischio c'è e, visto che il film costituisce una prova di reato perché noi ci autodenunciamo, il mio vicino di casa o Salvini potrebbero fare una denuncia. Ma già da prima avevamo una sensazione di essere a posto con la coscienza, di avere fatto una cosa giusta, anche illegale, ma giusta per mille motivi. Adesso abbiamo anche il calore di così tante persone che si sono messe attorno a dire “Guardate che non siete solo voi a pensare queste cose, ci siamo anche noi”.

Abbiamo dato una speranza sia a un mondo cinematografico indipendente di registi che hanno detto “allora si può anche in Italia”

Senti di avere contribuito alla causa del popolo siriano e di tutti i popoli che si trovano nelle loro stesse condizioni, anche rispetto alla tua professione?
Mah, noi abbiamo sicuramente contribuito a cambiare il finale della storia di queste cinque persone. Abbiamo anche cambiato la nostra di storia, è stata una cosa bellissima, personalmente una delle cose più belle che ho fatto negli ultimi anni. Il fatto stesso che abbiamo fatto il crowdfunding è significativo: abbiamo dato una speranza sia a un mondo cinematografico indipendente di registi che hanno detto “allora si può anche in Italia”, sia a tutto il mondo che gira attorno alla Siria e alla questione delle migrazioni che dice “allora si può fare un film così politicamente forte finanziandolo dal basso”. Se adesso andiamo anche a Venezia, scatta il terzo obiettivo, cioè di fare circolare la storia, di farla vedere in tv o al cinema. Un film non cambia niente, non pensiamo di cambiare le cose. Però cambia l'estetica, cambia il racconto. Noi facciamo un' operazione di ribaltamento delle categorie, quelli che nei documentari di solito sono gli sfigati, le vittime da compatire, qui sono gli eroi. Abbiamo creato un mondo bello di amicizia tra le due sponde del Mediterraneo, che si mettono insieme e fanno una bravata e tu mentre lo vedi provi invidia perché non la vivi con loro. Non solo raccontiamo l'umanità che c'è dietro, ma raccontiamo un mondo possibile, bello. Altrimenti stai solo lì a fare la retorica dei diritti umani, la violazione dell'articolo y e la dichiarazione z. Qui fai un'altra cosa, non ci sono carte, secondo me funziona, poi vediamo quello che succederà.

Hai altri progetti per il futuro?
Guarda, non c'è futuro. Siamo dentro al film, stiamo finendo la post produzione, poi ci sarà Venezia, se lo prendono ovviamente, poi ci sarà tutta la fase della distribuzione. Quindi non ci sono altri progetti in questo momento.

Sei soddisfatto personalmente, rispetto a quello che hai fatto fino ad oggi? Ti svegli alla mattina pensando “Ho fatto qualcosa di grande”?
Mah, sì se guardi indietro, ma io sono uno che guarda avanti. Non è che ti basta aver fatto delle cose, è una continua sfida. Di questo film sono contento anche perché dopo otto anni che c'è FortressEurope e due anni che seguo la Siria, questo è una lavoro che ha messo insieme i due fili del racconto con un linguaggio nuovo. C'è sempre questa cosa di mettere un nuovo obiettivo davanti, sia professionalmente, cioè di imparare cose nuove, sia proprio a livello di contenuto, di raccontare una storia nuova. In Italia succede spesso che uno fa una cosa e si ferma perché trent'anni prima aveva scritto un articolo su quella così lì. A me annoia molto questa cosa, io ho bisogno di stimoli nuovi. 

 

 

Intervista a Khaled Soliman Al Nassiry

 

Khaled, mi racconti qualcosa di te?
Sono un poeta e scrittore siriano di origine palestinese, abito in Italia da sei anni, ho lavorato per una rivista che si chiama Aljarida e adesso sono manager di una casa editrice del mondo arabo.

Com'è nato il sodalizio con Gabriele?
Gabriele pubblicava sulla nostra rivista Aljarida in passato, quando è venuto a Milano, tramite un amico ci siamo conosciuti e poi siamo diventati amici. Quando l'anno scorso è uscita la notizia che in stazione centrale erano arrivati gli immigrati dalla Siria, io e Gabriele siamo andati là per provare ad aiutarli. Prima avevamo pensato di travestirli da turisti con le telecamere. Poi abbiamo avuto l'idea di “formare un matrimonio”. Io non conoscevo Antonio, l'altro regista amico con Gabriele che ha accettato l'idea dicendo “O lo facciamo adesso, o non si fa”. Ci siamo incontrati, abbiamo incominciato ad elaborare una strategia, ci siamo visti ogni giorno del mattino fino alla sera tardi per scrivere la sceneggiatura, preparare vestiti, progetti. Abbiamo cercato la sposa e ho sentito Tasneem, questa amica della Siria che era in Spagna che è venuta subito. Gli immigrati non si doveva vedere che erano tali, così li abbiamo vestiti bene e li abbiamo sistemati. Siamo partiti da Milano all'alba verso la Francia, nella tratta da Ventimiglia verso Marsiglia, perché il confine svizzero è chiuso, e in Austria e Francia verso Lione c'è un controllo troppo forte. Da Ventimiglia abbiamo passato il confine italo-francese a piedi, su una montagna, attraverso un passaggio usato dagli italiani quando scappavano dal fascismo o scappavano per trovare lavoro in Francia. Siamo arrivati a Marsiglia con la macchina e poi fino a Lussemburgo, da lì siamo andati in Germania e ci siamo fermati a Amburgo. Dalla Germania siamo partiti verso Copenhagen con la macchina e da là siamo andati a Malmo con il treno. Abbiamo fatto un viaggio di quattro giorni, ogni notte ci fermavamo in un posto con altri ragazzi europei e arabi che ci aspettavano, preparavano per noi il posto per dormire. È stata una nuova scoperta, quella di questi nuovi giovani che sono pronti a fare qualcosa.

La gente come reagiva quando vi vedeva?
Guardavano la sposa e dicevano: “Che bella quella sposa!” Sai com'è con una sposa per strada, tutti vengono a salutarla, le fanno gli auguri, specialmente a una sposa straniera. A Copenhagen la polizia ci salutava con “Auguri”. Sì, è andata veramente bene.

Soprattutto tu che sei straniero, non hai mai avuto paura che quest'azione illegale potesse crearti problemi?
Sì, avevamo paura, ma quando pensi a quella gente che sta morendo nel mare, quando sai che ci sono migranti che, con quella legge europea di Dublino, non vogliono stare in Italia ma non possono andare negli altri paesi perché le frontiere per loro sono chiuse e l'unica cosa che possono fare è andare con i contrabbandieri, allora non pensi che hai paura, pensi che devi fare qualcosa. I contrabbandieri chiedono mille euro ogni volta, abbiamo saputo la storia di persone lasciate a metà del percorso con la frase “Siamo arrivati, scendete”, ci sono persone che sono state derubate e abbandonate per strada. Questa legge, che ha fatto in modo che quella gente che aveva bisogno arrivasse ai contrabbandieri, è terribile. Ecco perché non credo che abbiamo fatto una cosa veramente cattiva.

La prima volta che sono venuto in Italia ero a Venezia e pensavo che tutta l'Italia fosse come Venezia.

E tu perché sei venuto in Italia?
La vita in Siria per uno scrittore è difficile, anch'io ho avuto tanti problemi con il regime. La mia ragazza è italiana, io prima sono andato in Svezia per lavoro, lavoravo con gli svedesi con progetti di scambi culturali. Alla fine sono venuto in Italia, mi sono sposato e mi hanno dato il permesso di soggiorno. La prima volta che sono venuto in Italia ero a Venezia e pensavo che tutta l'Italia fosse come Venezia. [ridiamo]

Ti dispiace non tornare a casa? Ti manca la Siria?
Sì, mi dispiace, mi manca troppo, non ci vado da tre anni e mezzo e non ho più visto la mia famiglia. Noi siamo palestinesi siriani, i miei genitori non possono uscire, per andare in Libano hanno bisogno del visto ma il governo siriano ha messo una legge per cui qualsiasi palestinese che esce dal paese non può rientrare. E mio padre e mia madre sono vecchi ormai, non possono muoversi.

Riesci a comunicare con loro per telefono?
Sì, per telefono sì. Però mio padre piange ogni giorno per vedere Adam, mio figlio che è nato un mese fa. Sai, nel mondo arabo l'unico maschio è importante. Comunque sì, voglio tornare in Siria assolutamente.

Adesso vorresti continuare con la tua attività di scrittore e poeta? Funziona come lavoro?
Io mi muovo tra i festival, mi pagano, però la poesia non dà soldi. Io faccio il grafico e ho la casa editrice che ho fondato con un'altra amica. Prima ho fondato un'associazione di scambio e cultura che si chiama Almutawassit e che ancora funziona. Stiamo facendo un progetto bellissimo con una casa editrice italiana, traduciamo libri dall'arabo e li pubblichiamo insieme. Quando sono arrivato in Italia un lavoro ce l'avevo, sempre come scrittore, come grafico nel mondo arabo. E adesso abbiamo fatto questo film.

Mi racconteresti il momento più bello che hai vissuto in questi mesi di lavoro?
Tanti. La prima volta che Manar [il ragazzo rapper] ha cantato a Marsiglia, i suoi occhi mi hanno fatto piangere. Il momento in cui tutti i nostri siriani palestinesi ci hanno detto “ci avete fatto sentire come una famiglia, vogliamo stare con voi per sempre”. La volta in cui Manar ha detto a Gabriele: “Se voi andate in prigione noi veniamo tutti dalla polizia, noi stiamo con voi.” Sono tantissimi momenti piccolini.

E tua moglie come ha vissuto il progetto? Ha partecipato, ha avuto paura per voi?
Sì, normale, però le è piaciuto tanto. Voleva venire con noi, però era incinta quando sono partito e non ce l'ha fatta. Io non faccio qualcosa se mia moglie non dice sì sai? [e ride]

 

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Al Festival di Venezia (Foto repubblica.it)

 

A tre mesi di distanza dall'incontro al Frida, le vicende di questi ragazzi sono tornate a incrociare la mia. Da allora li ho visti arrivare al festival di Venezia, sfilare sul red carpet al lido insieme a un corteo di ragazze in abito bianco, popolare le pagine dei giornali, conquistare il pubblico in sala la sera della prima. Quello che prima era un sogno lontano, ora è realtà, garantendo al progetto una componente di concretezza che lo rende forte, invocabile di fronte ai potenti. Ora il documentario è nelle sale, in molti cinema la prima ha registrato il tutto esaurito. Ho avuto il piacere di vederlo, con qualche riserva iniziale perché, dopotutto, un bel progetto non significa necessariamente un bel film. E invece mi sono emozionata e, ascoltando i racconti di Abdullah e degli altri profughi, quando era percepibile la paura nei loro occhi al pensiero di poter essere rispediti nell'inferno da cui erano fuggiti, mi sono addirittura commossa. Il documentario ha adempiuto al suo compito, i sostenitori anche, resta alle istituzioni riflettere sui provvedimenti futuri. Ora però il popolo è informato, non è più possibile fare finta di niente.
Ho chiesto ai registi di aggiornarmi sul progetto, ecco il loro racconto:

Ciao Gabriele, ciao Khaled, ciao Antonio. Ci eravamo lasciati a luglio che ancora non sapevate se Venezia sarebbe stata realtà. Ci risentiamo ora con il film già nelle sale, dopo essere effettivamente passati dal lido. Possiamo dire che un primo obiettivo è stato raggiunto?
È straordinario quello che è accaduto. Non soltanto siamo stati selezionati al festival di Venezia, ma siamo stati uno dei film più apprezzati, sebbene fossimo fuori concorso. E oltre ai tre premi che abbiamo ricevuto, siamo tornati a casa con la standing ovation più lunga del festiva! Diciassette minuti di applausi in sala! E la stampa conquistata dal nostro white carpet di spose. La stessa magia si sta riproponendo per l'uscita in sala. Dopo una prima settimana in 24 sale, siamo il quarto film in classifica come media presenze il sala, davanti alla Palma d'oro di Cannes! E infatti alla seconda settimana di distribuzione siamo passati in 41 sale. E tutto grazie al passaparola del pubblico. Straordinario. La gente si sente rappresentata dal nostro film manifesto, e invita i propri amici in sala. È la nostra forza: il pubblico. Lo è stata quando si trattava di trovare le risorse per produrre il film e lo è ancora oggi che si tratta di promuoverlo.

Qual è stata l'accoglienza del film da parte dei giurati del festival? Quali le reazioni del pubblico in sala? Credete che il messaggio che volevate diffondere abbia trovato un terreno fertile?
Non conosco sinceramente la reazione dei giurati perché non ho avuto modo di parlarci. Il pubblico in sala era entusiasta. Il messaggio del film sta passando alla grande perché il film è privo di retorica e non ha il taglio del film denuncia, del teorema preconfezionato, del manicheismo di certi lavori. È una storia. Ed è una bella storia. Capace di emozionare, di avvicinare, e di far sognare un mondo senza frontiere, un Mediterraneo di amicizia tra i popoli. E questo arriva al pubblico.

Nel documentario i dialoghi erano frutto di improvvisazione o avete scelto determinati argomenti da trattare?
Non abbiamo scritto dialoghi. Ci eravamo dati soltanto degli appuntamenti scenici, avevamo immaginato delle situazioni da filmare: il passo della morte, Marsiglia, la scena losca in autostrada di notte.. ma poi quello che usciva davanti alle camere era assolutamente improvvisato. Poi in montaggio siamo andati a fare le nostre scelte e abbiamo costruito la struttura del film. E quindi abbiamo scelto quali dialoghi mettere, come costruire i personaggi. Siamo tornati con un centinaio di ore di girato... di materiale non ne mancava.

Parlavamo la scorsa volta del fattore sicurezza e di quanto quello che stavate facendo potesse mettervi legalmente in difficoltà: avete ricevuto denunce o segnalazioni?
Il rischio maggiore era durante il viaggio. Lì, in caso di controllo sarebbe scattato l'arresto in flagranza di reato. Adesso rischiamo la denuncia o un procedimento d'ufficio. In entrambi i casi, la conseguenza sarebbe l'apertura di un'indagine con un'eventuale richiesta di rinvio a giudizio che, se fosse accettata, porterebbe a un processo. Speriamo che non accada niente, perché è evidente il nostro intento umanitario e il valore artistico e politico del nostro gesto. Voglio dire che è evidente che non siamo trafficanti che lucrano sui viaggi di queste persone. Ma se proprio dovesse esserci un processo siamo pronti a difenderci. Gli avvocati sono pronti. E speriamo che le migliaia di persone che stanno sostenendo il film sostengano anche la nostra posizione al processo!

Ora siete impegnati a promuovere il film nelle sale italiane. Quale pensate potrebbe essere il seguito di un progetto come questo, per evitare che si smetta di parlare di queste problematiche?
Il nostro è un lavoro culturale sul lungo periodo. Non credo che avremo dei risultati politici nell'immediato. E non mi sembra un limite. Qui c'è bisogno di una nuova estetica della frontiera. C'è bisogno di sdoganare agli occhi del grande pubblico l'idea della libera circolazione. Solo allora la politica sarà pronta a fare delle aperture sul diritto alla mobilità per tutti nel Mediterraneo.  

 

Altri link utili:
Il blog di Gabriele Del Grande
Il Regolamento Dublino II di cui parla Khaled
L'associazione culturale di Khaled, Almutawassit