20131014 Azzurra Scattarella Giuseppina Torregrossa thumb

L'autrice de “Il conto delle minne” e di “Manna e miele, ferro e fuoco” si racconta prima dell'incontro del 15 ottobre 2013, alle 21.00 a Brugherio, per BruMa

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uardando la sua carriera professionale, sembra che la scrittura sia venuta dopo, come se sia sviluppata nella maturità. Com'è andata veramente?
Io in realtà ho sempre scritto, sin da quando ero bambina. La scrittura è sempre stata una passione per me, un modo per mettere ordine nella mia vita, lo facevo a titolo personale. Per caso, ho scoperto di poter pubblicare, io non immaginavo di poter diventare una scrittrice professionista; nel 2007, ho pubblicato con un piccolo editore L'assaggiatrice (Iride). Il romanzo è stato letto dalla responsabile narrativa italiana di Mondadori, le è piaciuto e mi ha contattata; io stavo scrivendo già un altro romanzo e le ho mandato il mio manoscritto work in progress: erano le prime 20-30 cartelle, le sono piaciute e hanno deciso di farmi un contratto per i futuri libri.

Per quale motivo ha scelto di specializzarsi in ostetricia e ginecologia?
La mia specializzazione è in ostetricia e ginecologia ed ho fatto un dottorato di ricerca in perinatologia, che è un periodo molto ristretto della vita del bambino e della mamma: riguarda le sue primissime settimane di vita e formazione. Mi piaceva il tipo di lavoro perché è molto emozionante, un po' come correre in formula 1. È ricco di adrenalina sia per la gestante che per i dottori. Quando nasce il bambino è come se avessi raggiunto il traguardo. È vero che ho studiato negli anni Settanta, nel bel mezzo dello scoppio del femminismo in Italia: in quel periodo le specialità che si richiedevano maggiormente erano psicologia e ostetricia, ed era un modo anche per riappropriarsi del corpo della donna. Da una parte è stata una scelta di passione dall'altra una scelta politica, del resto, a quel tempo. ogni scelta lo era. Per me non è un lavoro che può essere considerato un "mestiere", altrimenti sarebbe soltanto frustante lavorare e vivere.

Lei è stata molto impegnata nel passato e tutt'ora porta avanti progetti per le pari opportunità o volti a salvaguardare la salute della donna - sul suo sito personale c'è un'intera sezione dedicata. Ma il mondo di oggi le sembra che abbiamo fatto davvero passi in avanti su questo versante?
In questi 40 anni noi che siamo state molto impegnate negli anni Settanta siamo rimaste molto deluse. Oggi le leggi che riguardano la tutela delle donne, inteso non come soggetto disabile o bisognoso di cure ma come persona, sono rimasti carta morta. Tutto ciò che era una speranza è diventata un'utopia, ad esempio i programmi di screening sui tumori al seno sono diminuiti o vengono tagliati, eppure l'età di comparsa di tumore alla mammella si è molto abbassata: dai 50 ai 20 anni – e anche di questo si parla poco o niente. Tutto ciò è accompagnato da un abbassamento e riduzione forte dei fondi per la tutela e prevenzione; poi ci sono disparità fortissime nel territorio, perché non in tutte le regioni è possibile fare esami o ricevere la giusta assistenza e i consultori, che per noi dovevano essere degli strumenti di controllo, di riappropriazione del nostro corpo, sono diventati dei semplici strumenti a favore dell'interruzione volontaria di gravidanza. Se penso alla 194, a come l'avevamo pensata, mi rendo conto che non è stata mai davvero applicata e ciò che avevamo immaginato e per cui abbiamo combattuto è stato completamente frainteso o cancellato. Quesa società che non riesce a permettere alle donne di fare figli, non le aiuta, le costringe a firmare dimissioni in bianco, le abbandona quando restano incinte, perché non ci sono più madri ad accompagnarle, perché anche loro lavorano fino agli 80 anni, ma neanche amici e compagni perché ormai ci sono famiglie monoparentali... mi da una grande delusione. Alle donne, con la maternità, viene demandata una funzione che costitisce il futuro della società, una società che non fa figli è una società morta.
A un certo punto la questione femminile è stata sepolta, come se avere sulla carta delle leggi potesse bastare. Checché se ne dica, la nostra è una società ancora molto maschilista; purtroppo, spesso e volentieri, le donne, che potrebbero fare lobby, dare l'esempio, fare buone pratiche, non lo fanno e scelgono vie semplici. Sono ingabbiate in modelli maschilisti e non usano sistemi meritocratici per raggiungere i propri scopi. Cosa che alla lunga, ha rovinato anche gli uomini, perché ormai il sistema è completamente impermabile e chiuso e ne fanno le spese tutti; per le donne diventa doppiamente difficile con la maternità, che non è un fatto privato, è un fatto sociale.

Cambiando decisamente argomento e parlando della sua scelta di scrivere, il suo penultimo libro, Manna e miele, ferro e fuoco, (Mondadori, 2011), ha tra i protagonisti un mannaluoro, ossia un uomo che estrae e produce la manna. Come mai ha deciso di parlare di questo strano e sconosciuto mestiere? Ha conosciuto qualcuno che lo pratica ancora?
Sì, io stessa sono andata a fare la manna e a incidere. La manna è un alimento fortemente simbolico, è un prodotto che in natura non esiste: è la linfa dell'albero che si cristalizza al calore del sole. perciò da una parte ci deve essere un albero, vivo e in salute, da cui poterla estrarre; dall'altra, ci deve essere un uomo che sappia incidere. Ecco, mi piaceva, mi affascinava moltissimo questo fatto, questa nascita dovuta all'incontro tra uomo e natura. La manna si produce soltanto in un piccolissimo triangolo di terra, tra Castelbuono e Pollina, nel parco delle Madonie nei boschi di frassino molleo; ci è rimasto un vecchissimo mannaluoro, un uomo che lo fa da sempre. Questo signore, che si chiama Guido Gerardi, è quasi un druido dei boschi; sono stata a lungo con lui, mi ha introdotto a questo contatto con gli alberi molto particolare. Ora ci sono anche alcuni ragazzi giovani, sui trent'anni, che vanno ad aiutarlo, imparando e riscoprendo questo mestiere antico.

Ne Il conto delle minne, come si deduce anche dal titolo, una certa parte significativa nel cuntu ce l'ha il seno femminile. Mi chiedevo quanto provenga anche della sua esperienza con associazioni come Camper Donna, in cui è stata affianco a donne che hanno avuto un tumore al seno e subìto l'asportazione del seno, un'operazione molto invasiva su cui c'è anche una discussione abbastanza accesa, perché si dice che venga praticata seppur non assolutamente necessaria.
Sicuramente molto, moltissimo proviene da lì, in quelle pagine ci sono quelle donne che ho incontrato, le loro battaglie ma anche la loro gioia e voglia di vivere. Nel corso degli anni, dalla mia laurea ad oggi, tantissime cose nuove si sono scoperte: le chemio di prima non sono quelle di oggi così come la diagnostica o le aspettative di vita. Qualche volta, purtroppo, proprio non se ne può fare a meno e si ricorre all'asportazione, ma è sempre meno frequente anche perché si riesce a fare una prevenzione precoce. Nelle donne che la subiscono rimane un'enorme ferita. È una medicina violenta, talvolta gli interventi sono massicci e estremamente invasivi e le ricostruzioni sono difficili. La scienza non può garantire l'integrità e quindi non è che sia facile; è un momento di frattura con se stessi, c'è tutta una identità da ricostruire. A volte si verifica un overtreatment, per mettersi al sicuro da responsabilità medico-legali; però, purtroppo, dal medico asino non ci si può proteggere: ci sono protocolli a favore del malato che sono paracadute per i pazienti, c'è chi interpreta le cose in modo letterale e chi cerca di andare oltre la rigidità di un regolamento. Odio quegli atteggiamenti trionfalistici e rassicuranti di alcuni davanti certe situazioni. Le donne si trovano davanti a scelte coraggiose e difficili da prendere, oltre che dalle ripercussioni psicologici forti, anche quando gli interventi vanno bene.

Lei ha vissuto gran parte della sua vita a Roma, ma la Sicilia torna sempre nei suoi libri, sia nelle ambientazioni che nei personaggi come nella sua forma linguistica e dialettale. Sicuramente nel tempo ha incontrato ogni volta persone, studenti, lavoratori che, come lei e la sua famiglia, sono emigrati dal sud al centro o al nord. Cosa ne pensa di questo continuo e vastissimo fenomeno che colpisce soprattutto la parte giovanile della società meridionale?
Parlo della mia Sicilia e di Palermo che, in quanto capoluogo, dovrebbe essere rappresentativa della regione. Temo che il sud sia completamente alla deriva. La Sicilia ha dei pessimi anmministratori, Palermo è una città che né campa né muore; è un momento drammatico per tutti e soprattutto per l'Italia del sud, dove si sono aggravate quelle situazioni che addirittura dalla fine della guerra non si sono mai riprese. Siamo completamente fermi e il Sud è un posto dal quale bisogna andar via; bisogna anche ritornarci ma al momento non vedo un margine di miglioramento. Ogni volta che ci torno vedo un'immobilità angosciante. Palermo è una città nobile e aristocratica ma ferma. Io stessa, che vivo a Roma e sono siciliana, vado a curarmi a Milano, e noi abbiamo ancora la prosopopea di chiamare paesi come l'Africa "il terzo mondo", dove invece ci sono cliniche e ospedali migliori dei nostri al Sud. Ecco questo è anche un segnale della nostra ingenuità e arretratezza.

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