La rivista che vorrei

Dopo aver incantato la sala Maddalena insieme a Vincenzo Zitello la scorsa settimana, il poeta performer affida a Vorrei alcune riflessioni sul ruolo dell'artista nel contesto culturale attuale, in direzione di una nuova centralità dell'esistenza nell'arte

Due autodidatti di successo, ciascuno in relazione al suo campo, che da tanto volevano collaborare e fare qualcosa assieme. Detto così, sembra che il performer Nicola Frangione e l'arpista Vincenzo Zitello giovedì scorso si siano trovati al parco in un momento libero. E invece con il loro concerto di poesia e musica, dal titolo aprendo la porta alle parole, hanno riempito la sala Maddalena nonostante il caldo soffocante. Certo, come ricorda lo stesso Frangione, non si tratta del pienone del teatro Manzoni, ma ugualmente si è trattato di un successo di pubblico che inorgoglisce, e che ha spinto i due artisti ad andare avanti improvvisando anche ben oltre la durata prevista dello spettacolo. L'arpa celtica e quella bardica di Zitello, unite ai testi di Frangione, hanno dato vita a sette movimenti di vera e propria poesia sonora, in cui parole e musica "hanno aperto le porte" all'esistenza. Sul tema, abbiamo rivolto alcune domande proprio a Nicola Frangione.

Come siete arrivati insieme a Zitello a questo progetto di fusione tra poesia e musica, di poesia sonora?
Con Vincenzo ci conosciamo da sempre, sin da quando lui andava a scuola e io in fabbrica, e ci piace lavorare assieme, questa non è stata la prima volta. Siamo coinvolti in progetti simili fin dagli anni Settanta, fin da quando Giordano Casiraghi a Montevecchia riusciva a portare gli Area, Demetrio Stratos, Battiato: noi bazzicavamo quei palchi e non è un caso che poi Vincenzo, come musicista, abbia collaborato con molti di quegli artisti.

Più di recente, dopo tanto tempo in cui ognuno dei due ha curato la propria passione e la propria carriera, si è avuta la sensazione che fosse giunto il momento di dare inizio a un vero e proprio lavoro a quattro mani, qualcosa che fosse il frutto della sua evoluzione come musicista e della mia come artista performativo. Adesso l'abbiamo, e vogliamo farlo girare in entrambi i nostri circuiti.

In cosa consiste esattamente questa fusione?

Il risultato finale è un'energia che supera qualsiasi elemento esterno alla performance. Non ho remore a dire che ho obbligato Vincenzo a non suonare come sottofondo per i miei testi. Il nostro obiettivo era la sinergia totale e reale, non semplice sommatoria fra musica e testo. Il senso va dato dalla liquidità che si viene a creare fra un testo e il tipo di musica fatto apposta per esso.

In questo senso si può intendere uno dei suoi concetti ricorrenti: "cogliere lo stupefacente essere invece che lo stupefacente apparire"?

Credo di sì. Come dico in ogni occasione in cui mi si chiede di parlare in pubblico (è ospite di festival esteri come Valencia, Varsavia e Marsiglia, ndr), lo stupefacente essere è la possibilità che ogni essere umano, per il solo fatto di essere vivo, trasmetta un messaggio. Per farlo, però, è necessario saper cogliere la poetica del mondo, che risiede solo nella vita vera. Invece dagli anni Settanta si è affermato un dettame artistico rovinoso, che predilige l'estetica a scapito della poetica, quello che io chiamo lo stupefacente apparire. Anche io a quei tempi seguii quel percorso, non lo rinnego: ma mi sembrava necessario come gesto di rottura. Ora al contrario è un atteggiamento fine a se stesso che impoverisce l'arte, privandola dell'energia che solo un equilibrato connubio di estetica e poetica può garantire.
Il mio messaggio, allora, è quello di recuperare la categoria dell'esistenza perché solo così si può recuperare la sinergia fra estetica e vita vera che costituisce il nodo cruciale di ogni disciplina artistica. L'artista può e deve essere un rivoluzionario, ma a condizione di riuscire a trasmettere questa energia, di mettere l'essenza, l'esistenza, al primo posto. Il gesto rivoluzionario è recuperare l'esistenza. Una scelta, la mia, che non ha alcun connotato religioso, ci tengo a precisarlo.

Una specie di "materialismo artistico", per così dire?

Preferisco chiamarla utopia concreta. L'utopia è associata al sogno di qualcosa che ancora non c'è, ma il sogno non è soltanto astratto. Il sogno è ciò che ti spinge ad alzarti la mattina e fare quello che ti dà senso. Togliere il sogno alle persone significherebbe togliere loro la concretezza.

Gli autori di Vorrei
Simone Camassa
Simone Camassa

Nato a Brindisi il 7 maggio del 1985. Insegnante di Italiano, Storia e Geografia nella scuola pubblica, si è laureato in Lettere, in Culture e Linguaggi per la Comunicazione e in Lettere Moderne, sempre all'Università degli studi di Milano. Suona la chitarra elettrica (ha militato in due gruppi rock, LUST WAVE e BLACK MAMBA) e scrive poesie.

Appassionato di sport, ha praticato il nuoto a livello agonistico fino ai diciotto anni, per un anno ha anche giocato a pallacanestro. Di recente, è tornato al cloro.
È innamorato della letteratura in tutti i suoi aspetti, dalla poesia fino al fumetto supereroistico statunitense. Sogna di realizzare un supercolossal hollywoodiano della Divina Commedia, ovviamente in forma di trilogia e abbondando con gli effetti speciali.

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