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Al teatro Binario 7, l’incontro-dialogo con l'autore in apertura del Festival di Poesia Presente 2012

 

H

o visto moltissime parole. Mi giravano tutte intorno. Lunghe, brevi, italiane e straniere, parole forti come schiaffi in pieno viso, dolci e morbide come il suono di un violoncello. Di ogni genere, ma tante parole. Eppure, mai un senso di sazietà.

Mi trovavo in un teatro della mia città, quasi per caso ma perfettamente a mio agio.

Pareva una scena di decenni fa: atmosfera color seppia, belle signore col monocolo tirate a lucido e poca voglia di scherzare. Nell’aria, l’impressione di un tempo immobile: nessuna scenografia e alcuni posti rimasti vuoti, a dare l’impressione che c’è sempre spazio per chi cambi idea.

Ebbene, le parole si liberavano in quell’aria gialla come un dono spontaneo, e fuoriuscivano gentili ma decise, perentorie, autoritarie. Ci incontravano, incontravano noi spettatori, ansiosi di sapere e di capire. Non molti avevano una precisa idea di cosa volessero capire, ma si sa: un regalo va preso per come è.

Non capita spesso di udire una voce fuori campo, nella vita o a teatro, io però la sentivo forte e chiara: non sono certa che tutte le parole che vedevo volare le appartenessero, ma so che quella voce in qualche modo le gestiva, ne giostrava i movimenti e con esse disegnava delle traiettorie precise, le quali per volontà sua saltavano da un petto all’altro della platea, scuotendoli fortemente. Su questo non ho dubbi.

 

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Moni Ovadia e Patrizia Gioia (Le foto sono di Flavio Dell'Aversana)

 

Ho cominciato a pormi moltissime domande, e la voce mi rispondeva, a modo suo. E più ne avevo bisogno e più mi mandava i suoi segnali. È cominciato un viaggio.

Sono stata nel deserto, in compagnia di un signore barbuto che sembrava aver vissuto più di duemila anni, e non a causa del suo aspetto ma perché possedeva una valigia di pelle d’asino usurata dai granelli si sabbia su cui a lungo era stata trascinata, ma ancora tutta integra e, pure dopo duemila anni, contenente tutto ciò che il vecchio aveva raccolto nella vita. Si trattava, ancora, soltanto di parole. «Soltanto? – ha detto lui seccato, come se mi avesse letto nel pensiero, come un Indignado ante litteram nei confronti del modo perverso e indebito in cui utilizzavo la lingua, e ha proseguito così – Nella mia lingua, la parola Davàr significava, una volta, esattamente “parola”, e tutto il tempo che le è passato addosso l’ha lavorata e levigata e deformata, fino a farla significare ugualmente “cosa”. La mia lingua è santa, ragazza mia, e tutto ciò che è spirito non contempla la materia, non è schiavo della reità, non riduce il suo pensiero a ciò che si tocca e si vede e si udisce, non si sottomette all’idolatria. La mia lingua ha dovuto inventarsi la realtà ed è orgogliosa di averlo compiuto».

Un caldo vento dell’est mi ha poi trascinata nei Balcani, dove le zingare danzano e profumano di viola anche i rami secchi. Sono stata ad Atene, e il fumo di oggi ha lasciato nuovo spazio al bianco marmo incorrotto di ieri. Un giovanotto mi ha preso per mano e mi ha svelato di essere un settantenne nel corpo di un ventenne, grazie alla magia di sua nonna Athena la quale, vedendolo così ostinato negli studi, lo volle premiare regalandogli la freschezza eterna. Mi raccontò allora che per molti anni, più che altro, gli era sembrata una condanna: viveva nella più totale povertà, era solo e non di rado veniva deriso. Certo, conosceva molte cose che alla maggior parte degli uomini erano e sono ignote, ma non gli sembravano utili. Quando però aveva visto tutti suoi amici di un tempo invecchiare, aveva capito dove stava il segreto: «La vita prima o dopo ti interroga – mi disse – proprio come a scuola. Ma, a differenza di come accade a scuola, non ti chiede solo ciò che ti ha spiegato. Ti chiede anche ciò che da solo hai dovuto capire. E, se ti è mancato il coraggio di indagare, è lì che muori per davvero – e poi aveva continuato – ciò che ha salvato me è stato il potere della parola: non quando si è imposta ma quando mi ha curato, salvandomi dalla povertà a cui ero stato costretto. E non mi sono mai più sentito solo».

Non so come, né per quali passaggi extrasensoriali, la voce ormai amica mi ha mostrato altre parole che, come altalene e trapezi mi hanno raccolta e lanciata in altri mille altrove. Ho visto la Francia, quella indecisa e mescolata tra lingua d’Oc e lingua d’Oil e ho visto l’estremo Oriente europeo, così lontano da sembrare incomprensibile, mentre invece segni diversi vogliono solo raccontare prospettive diverse di uno stesso mondo.

Ho fatto un persino salto nel nuovo mondo e ho capito che la schiavitù peggiore è la mancanza di profondità, è la miopia del cuore che smette di percepire ciò che ha vissuto in precedenza e quindi non riesce a vedere il suo futuro. Ho visto la rovina dell’uomo, che è cominciata esattamente quando egli stesso ha iniziato a mortificare le parole che usava: ha dato loro un asciutto fine utilitaristico, ha creduto che le cose avessero bisogno di nuovi nomi, non è riuscito a reggere il confronto con la potenza del pensiero e ha avuto paura di ciò che non riusciva a pronunciare: ha rinunciato così a percepire la ricchezza dentro sé e ha inventato macchinose soluzioni tristi e vuote. Ha chiamato Jahvè il proprio Dio, ha chiesto ai computer di catalogare i suoi sentimenti ma, ancora più spesso, ha preferito tacere e smettere di comunicare perché isolarsi gli ha fatto meno paura che dare un nome a ciò che sentiva.

«Eppure, chissà, là dove qualcuno resiste senza speranza è forse lì che comincia la storia umana»: in una successione di immagini il cui collegamento non mi sarà mai del tutto chiaro, ho visto questa scritta incisa su di una porta che, dantesca, chiedeva di essere aperta e di non avere paura delle sofferenze che avrei incontrato. L’istinto mi ha portata immediatamente a tentare di aprirla, la curiosità si era radicata in me senza alcun timore, ho visto la mia mano avvicinarsi a quella maniglia dorata ma, appena vi si è poggiata, tutto è scomparso e mi sono ritrovata seduta a teatro.

Sembrava tutto come prima: c’erano le signore ma avevano perso le piume tra i capelli, l’aura giallina era diventata d’un bianco pallido ravvivato solo dallo scarlatto delle poltrone vellutate, sui cui qualche timido raggio di luce artificiale si riverberava. Mi riebbi e mi sentii serenamente riassestata nel mio tempo. Non vedevo più le parole volare, le sentivo nella mia testa ma adesso provenivano inconfondibilmente dai baffi di un attore solitario, che se ne stava agiatamente seduto sul palco. Ora quella voce sembrava essere appartenuta a ogni personaggio del mio sogno e tutto si era mescolato in una visione unica e preziosissima.

Avevo sognato?

Lo guardai più attentamente e mi resi conto di essermi persa quasi tutto il suo spettacolo, perché riuscii ad afferrare, prima che volassero via anch’esse, le sue ultime parole: «È solo con la parola poetica che tutto può salvarsi. La realtà è stata graffiata, degradata, violentata, ma la lingua può ancora essere salvata, liberata dal rumore della quotidianità. E ne vale la pena perché, fino a quando c’è la possibilità della parola inaudita, c’è umanità, altrimenti resteremo schiavi. Magari tecnologici, ma pur sempre schiavi. Studiate la poesia, e riconquisterete immensi spazi di libertà e orizzonti di viaggio inauditi».

Gli autori di Vorrei
Francesca Salamino
Francesca Salamino