Intervista alla cantautrice milanese in occasione dell'uscita del suo secondo album; un'occasione per saperne di più sul suo nuovo corso artistico e sul suo impegno per Milano

 

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n questi giorni è uscito nei negozi di dischi il nuovo album di Micol Martinez, "La Testa Dentro", seguito di quel "Copenhagen" che un paio di anni fa ricevette consensi pressoché unanimi. Questa volta Micol ha deciso di cambiare e di osare, lasciando fluire le sue idee in maggiore libertà, creando così un album sfaccettato e ricco di diverse sfumature. Abbiamo parlato con l'artista milanese di questi cambiamenti, oltre che del suo impegno per la cultura milanese e di molto altro. Ecco cosa ci ha raccontato.

"La testa dentro" è il tuo secondo album, uscito in questi giorni. Raccontaci in breve la sua genesi; quanto ci hai lavorato? Ci sono state difficoltà in questo periodo di crisi generalizzata? O è andato tutto per il meglio?
Il nuovo disco è nato in un clima molto più sereno rispetto al primo, ma questo è dovuto a motivazioni personali. Ci ho lavorato in quest'ultimo anno (ad eccezione di Haggis, brano scritto in precedenza). La crisi generalizzata si è fatta sentire e le condizioni di lavoro non erano nemmeno le stesse del primo album. Ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo trovato le soluzioni per affrontare registrazioni missaggio e mastering al meglio rispetto alle possibilità che avevamo. Il disco è stato registrato con lo studio mobile di Guido Andreani (fonico e co-produttore con Luca Recchia de "La Testa Dentro") in una cascina fuori Milano, con tanto di cane mascotte, campanile che suonava a ogni ora e le polpette della vicina di casa. Abbiamo improvvisato uno studio per fare i mix e infine Alessandro Gengy Di Guglielmo ha fatto il mastering a Elettroformati, un ottimo studio di mastering. Hanno fatto tutti, a mio avviso, un eccellente lavoro.

È un disco abbastanza differente rispetto al primo, specie a livello di arrangiamenti, pur mantenendo una poetica di fondo simile. Una delle prime impressioni è che tu abbia voluto "giocare" in studio, osare di più. È un'impressione giusta?
Ti confermo che l'impressione è giusta. Ho giocato di più, ho osato di più, ho lavorato in totale apertura. C'è stato uno scambio perfetto con Luca Recchia, che ha prodotto artisticamente il disco. Ho scritto i brani e li ho registrati dando anche, attraverso un minimo di sound e un poco di arrangiamento, l'umore che avrei voluto che i brani stessi avessero. Io e Luca abbiamo gusti molto simili da questo punto di vista; gli ho dato carta bianca e ho fatto bene. Non c'è stato nulla che io non abbia apprezzato del suo lavoro e lui ha apprezzato e rispettato i brani, sin dall'inizio.

 

 

Come singolo di lancio hai scelto "60 secondi", che è il brano più ritmato e definibile come "pop" dell'album. L'hai scelto per questo motivo o ci sono altre ragioni?
Perché più ritmato e forse, più immediato. In realtà ce ne sono altri nell'album ma "60 secondi" racchiude in sé molto di tutto il lavoro. Inizialmente avevo scelto Haggis. Poi l'opzione è caduta su "L'alveare" - che sarà invece il secondo singolo, quello estivo – e alla fine, ha vinto "60 secondi".

In molti brani emergono richiami alla natura e alla ricerca di un rapporto con essa; in "Questa notte" e "Sarà d'inverno", per esempio. Perché ricorre così spesso questo tema?
Quest'album per me rappresenta un momento di rinascita. Ho lasciato, e mi sono scrollata di dosso, cose che pensavo fossero importanti per avvicinarmi di più a me stessa e a una ricerca di bellezza, quiete e serenità. Questo progetto sogna un futuro – possibile o impossibile che sia – e vive il presente nel mondo e nel modo in cui vuole viverlo. E' un album, dove la "Possibilità" dell'essere è in primo piano. E dove la natura ci somiglia. E può raccontarci di noi.

 

 

Uno dei migliori brani dell'album, secondo me, è "L'alveare", con le sue sonorità tex-mex alla Calexico. Come è nata questa canzone? E la scelta di quei suoni?
"L'alveare" è il brano che più mi diverte e mi ha divertito durante le registrazioni. In realtà la canzone ha dettato legge sul possibile arrangiamento. Non poteva, per scrittura, essere arrangiata in un altro modo. Le trombe di Raffaele Kohler sono eccezionali. La canzone è un gioco. Per me, e credo anche per Luca e i ragazzi che hanno suonato (Giovanni Calella e Alessio Russo) è stato, in fase di registrazione, uno splendido giocattolo.

Qualche mese fa hai fatto uscire la versione francese di "Copenhagen", il tuo disco di esordio. Come mai la scelta di farne una nuova versione in un'altra lingua?
La versione francese è contemporanea alla registrazione del primo disco. Volevo semplicemente aprirmi più strade (visto che ho passato l'infanzia a Parigi, non mi sarebbe dispiaciuto tornare in Francia e far qualcosa lì).

Il cd è stato regalato a chi ha assistito al concerto di presentazione al Tambourine. Perché la decisione di fare questo regalo al tuo pubblico?
Quando è uscito "Copenhagen" in Italia sono stata troppo impegnata per occuparmene. Così, avendo la versione francese in casa a prendere polvere mi son detta: "perché non regalarlo?"

In molte recensioni tra le tue influenze viene citata PJ Harvey, sia dal punto di vista strettamente musicale sia da quello dell'approccio femminile ai testi. Sei d'accordo? Quali altre artiste consideri importanti nella tua formazione musicale?
Ascolto PJ Harvey da sempre. Credo sia normale che gli ascolti di un musicista vadano, anche in minima parte, a influenzarne l'attitudine. Può esistere quindi un'influenza ma non una coincidenza diretta con il lavoro di un artista inglese, anche perché la lingua italiana non lo permette (non riesco a immaginare "This is love" di PJ cantata in italiano). L'approccio femminile è per sua natura, spesso, "femminile", quando si tratta di un'artista donna. Mi auguro comunque di aver fatto con questo disco un buon lavoro, che rispetti la mia poetica, più aperto e ricco di luci che squarciano le ombre, rispetto al precedente. Ho amato molto anche Sinéad O'Connor ai suoi esordi, i Lamb con la splendida voce di Lou Rhodes, Lisa Gerrard e i Dead Can Dance, Beth Gibbons e i Portishead, Fiona Apple...

 

 

Lo scorso marzo tu, assieme a molti altri artisti, eri sul palco di Piazza Fontana per la manifestazione di "Milano l'è bela". Cos'è rimasto di quella manifestazione e del comitato formatosi in quel momento, anche in rapporto a ciò che ci ha detto Manuel Lieta poche settimane fa?
Il Movimento, di cui Manuel ha riportato correttamente i punti fondamentali, si sta riprendendo. Per quello che riguarda il dialogo con l'amministrazione, credo che Il Comitato (perché "Comitato" e "Movimento" Milano l'è Bela sono due cose distinte accorpate sotto lo stesso ombrello), dopo aver concesso il tempo necessario all'amministrazione di dimostrare un interesse e la volontà di attuare almeno alcune delle proposte presentate, inizierà nuovamente il suo percorso.
Capisco alcune critiche mosse da Manuel. Credo però che un Movimento sia un "Movimento", quindi che naturalmente si debba evolvere passando anche da inevitabili errori, che come la storia insegna, sono parte del movimento stesso. Inoltre, cosa della quale ci si dimentica, spesso chi davvero si sbatte e dedica tempo ed energie reali (si tratta di ore ed ore di lavoro, gratuite, di giorno e di notte – perché a volte così è stato) sono solo una piccola parte del Movimento stesso. Ognuno, in qualche modo deve campare, ed è difficile seguire tutto coniugando la passione che ci anima con il "quotidiano" (lavoro, famiglia, etc...). L'idea fondamentale è che ogni aderente possa e debba contribuire. Il movimento deve essere aperto. Ci saranno a breve solo assemblee pubbliche perché tutti possano parteciparvi attivamente. Sono davvero convinta che ogni cosa abbia bisogno del proprio tempo (Milano l'è Bela ne ha avuto bisogno, e ancora ne avrà). Perché non si può pretendere che un bambino appena nato cammini perfettamente o partecipi alle Olimpiadi. Se quell'Onda riprenderà il suo cammino, lo farà consapevole di errori e aspetti positivi.
Erano anni che ci si lamentava e non si faceva niente. Qualcosa è stato fatto. Qualcosa di buono. E, che si tratti del mio "attivismo", di quello di altri o direttamente di Milano L'è Bela, credo sia un bene ricominciare da lì.

Oltre che musicista sei anche dj. In chiusura domanda un po' alla Nick Hornby dunque: quali sono i tuoi cinque riempipista?
Vorrei che fossero gli Sparklehorse, i Violent Femmes, o PJ Harvey. Nei locali dove lavoro i riempi pista restano sempre quelli: The Cure, The Clash, The Doors e qualche altro "The ..." (riempite le caselle! The Ra.....). Vorrei che fossero... vorrei... punto org.

 

Gli autori di Vorrei
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi

Nasce nel 1984. Studi liceali e poi al Politecnico. La grande passione per la musica di quasi ogni genere (solo roba buona, sia chiaro) lo porta sotto centinaia di palchi e ad aprire un blog. Non contento, inizia a collaborare con un paio di siti (Indie-Eye e Black Milk Mag) fino ad arrivare a Vorrei. Del domani non v'è certezza.

Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.