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Giovani donne e giovani uomini in giro per il mondo per studiare e lavorare. Torneranno?
Storie di cervelli in fuga da questo che non è un paese per giovani

Vieni via con me”, 22 novembre 2010, Fabio Fazio rivolge questa semplice domanda all’ospite della trasmissione Renzo Piano: “Andare via o restare?”. Questa è stata la risposta dell’architetto: partire per curiosità, non per disperazione, partire per tornare, partire per capire com’è il resto del mondo e per capire se stessi. Questo il consiglio ai giovani italiani, italiani definiti da Piano come nani sulle spalle di un gigante, una cultura antica che ci ha dato la capacità di capire l’importanza delle cose e, dice ancora, di questa cultura italiana c’è posto al tavolo per tutto il mondo.

 

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Foto di Philippe Leroyer


Partire per curiosità, non per disperazione, partire per tornare, partire per capire com’è il resto del mondo e per capire se stessi

Abito in Francia da sei mesi e fra altri quattro ritornerò in Italia. Rifletto su cosa significa per me questa esperienza, cosa mi è mancato del mio paese e di cosa invece potrei fare a meno per tutta la vita. E’ difficile saperlo, quando si vive una situazione si è completamente miopi, si capiscono le cose dopo che il tempo è trascorso, quando gli eventi sono lontani. Di una verità ormai sono certa: ogni paese ha i suoi problemi, e l’ho capito non soltanto vivendo in Francia, ma confrontandomi con mille realtà diverse in uno studentato ricco di giovani provenienti da tutta Europa, da tutto il mondo.

Sento acuta la mancanza della mia lingua materna, qualche volta mi ritrovo per necessità nel reparto di letteratura italiana della biblioteca a trafugare un romanzo della Mazzantini, mi piace incontrare italiani e poter scambiare due parole in quella lingua tanto musicale che ci distingue. Siamo il paese con più clichés in assoluto, qualsiasi straniero che incontro e che mi chiede da che paese vengo quando scopre che sono italiana subito comincia a gesticolare a caso, a urlare “Buongiorno” e “pizza”, poi vuole sapere dove abito precisamente, e allora ecco che salta fuori: “Ah, Milano, la mode!”. All’inizio mi è sembrato divertente, un facile modo per conoscere chiunque. Poi ho iniziato a chiedermi perché nessuno mi sorprenda mai con questa frase: “Ah, l’Italie, Calvino!” e mi sono accorta che non è poi solo la vera pizza che mi manca, sento il bisogno di ascoltare i versi di De Andrè ed emozionarmi, scrivere nella mia lingua e sentirmi parte di una cultura che ha prodotto il Colosseo, il Cenacolo, la Cappella Sistina e Santa Maria delle Grazie, andare a teatro e poter cogliere le sfumature, guardare un film di Benigni, ascoltare la gente parlare dialetti differenti. La ricchezza.

 

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Foto di 02


Federica abita a Bologna e frequenta la facoltà di scienze politiche all’università Alma Mater Studiorum, ha vissuto a Grenoble per sei mesi. I confronti vengono naturali, l’università francese di scienze politiche è una delle più ambite in Francia, è a numero chiuso e con una forte preparazione selettiva prima di accedervi, questo tipo di università si chiama grande école. Il pregio di questa università è evidente, una scuola prestigiosa la cui laurea vale effettivamente qualcosa per trovare l’ambito futuro mestiere. I difetti sono un po’ meno evidenti, ma naturalmente ogni istituzione ha i propri. La grande ècole di scienze politiche, per esempio, è molto più rigida dell’omonima facoltà italiana, lo spettro di proposte facoltative è meno ampio, il metodo di studio è molto più impostato (attraverso quelle che qui in Francia chiamano dissertations, lunghi temi su un argomento specifico per i quali è obbligatorio seguire uno schema molto preciso), Federica ha avuto come l’impressione che l’università francese preparasse lo studente a un lavoro di burocrate. Per noi italiani è inquietante la domanda, a soli vent’anni: “Cosa vuoi fare nella vita?”, qui in Francia, invece, sembra che tutti sappiano abbastanza precisamente cosa vogliano fare e le strade sembrano tutte accessibili, le porte tutte aperte. Mi è capitato di sentire questo ragionamento in Italia: mi piacerebbe studiare per diventare un professore di liceo, ma la strada dei concorsi in Italia è infinita. In Francia no, in Francia basta una laurea specialistica e se si vuole intraprendere la carriera universitaria basta aggiungere al proprio curriculum vitae tre anni di dottorato, e voilà il gioco è fatto.

Avete mai avuto come professoressa di storia moderna, in un’università italiana, una ragazza di ventisette anni?

Teoricamente in Italia il percorso dovrebbe essere lo stesso, ma avete mai avuto come professoressa di storia moderna, in un’università italiana, una ragazza di ventisette anni? E una giovane donna come professoressa di storia dell’arte contemporanea? Al primo semestre non ho seguito corsi di un professore o di una professoressa (parità dei sessi totale) di più di cinquant’anni: da noi sembra essere l’età minima per ottenere un incarico di qualche valore. Come ho fatto a sapere che la professoressa di storia moderna ha effettivamente ventisette anni? Lei stessa ha dato a tutti quanti gli alunni del corso il proprio indirizzo mail: Sylvie84. Il rapporto con gli insegnanti è più aperto, certo, ma i difetti non mancano. Studiando qui, Federica ed io ci siamo accorte della semplicità dei programmi e del fatto che i francesi hanno bisogno di essere “accompagnati” nel loro percorso scolastico, presi per mano. Spesso durante le lezioni i professori riprendono dei concetti per me già assodati al liceo, si può dire che in Italia abbiamo un programma accademico invidiabile, soprattutto per quanto riguarda, nel mio campo, la storia antica, il latino e le materie umanistiche in generale, qui il corso di latino inizia dalla prima declinazione, da noi la grammatica latina all’università è data per scontata. Ma c’è anche qui un aspetto negativo dell’università italiana, cioè l’accademismo imperante, la forza della tradizione che rende l’università meno sperimentale e meno fantasiosa, da noi è impossibile trovare corsi dai nomi quali: “pratica teatrale”, “letteratura e scrittura creativa”, “letteratura d’idee”.

 

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Foto di Lemezza


Da noi è difficile cambiare le cose, mentre qui a Grenoble, nonostante l’università sia un centro di ricerca enorme e fondamentale (soprattutto per le materie scientifiche, molto all’avanguardia), è nata da poco, quindi è ricca di professori giovani, d’iniziative di qualsiasi genere e di corsi sperimentali.

E allora mi piacerebbe davvero che i treni fossero in orario come i tram di Grenoble che portano dappertutto, mi piacerebbe avere un governo che finanzia la cultura piuttosto che tagliarne i fondi, mi piacerebbe poter non avere paura del futuro che mi attende, sapere che dopo una laurea di cinque anni farò il lavoro che desidero e che mi compete, mi piacerebbe vivere in un mondo che funziona. Ma chi può farlo funzionare se non io, se non noi? Chi può rendere il mio paese migliore?

Il problema è che nessun cervello voglia venire in Italia, non che qualche cervello se ne vada.

La mia esperienza è solo una piccola goccia nell’oceano, il mondo è pieno di persone che partono e poi tornano, o partono e restano: del resto, come dice Stefano, la carriera non è tutto, può essere l’amore che ti trattiene in un paese. Stefano vive a Ginevra per i suoi studi d’ingegneria, mi ha detto una cosa molto intelligente, riporto le sue parole: “la fuga dei cervelli non dovrebbe essere una tragedia, come pensano in molti, ma un’occasione da sfruttare. Il problema è che nessun cervello voglia venire in Italia, non che qualche cervello se ne vada. Quello che hanno fatto negli ultimi vent’anni in Cina è stato proprio di mandare i loro cervelli all’estero a imparare e direi che i risultati si vedono. Il problema dell’Italia è che manca la flessibilità mentale per costruire qualcosa di nuovo. Tutti, politici, industriali e gente comune hanno paura di tutto ciò che è nuovo.”

 

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Foto di Simone Fratini


Beatrice è più pessimista di Stefano. Beatrice studia chimica all’università degli studi di Milano, sta preparando la tesi della specialistica in laboratorio, è felice, le piace da morire e vorrebbe fare ricerca. Qual è il problema? La difficoltà di intraprendere la strada della ricerca in Italia e il salario troppo basso, sconfortante quasi, non ci sono soldi. Beatrice inizia a informarsi per partire, le piacerebbe Berlino, la lingua è un ostacolo certo, ma bisogna pure inseguire i propri sogni.

Partire per tornare, dice Renzo Piano, una sfida bellissima. Mi piace pensare, più di tutto, che il mio paese possa cambiare in positivo e che io stessa possa fare qualcosa per questo cambiamento. Eppure, purtroppo, ci sono sempre più giovani che partono per non tornare più, e come dargli torto?

 

Fine prima parte.