20091125-Boris_Pahor

Lo scrittore ospite della rassegna "Linee di confine"
sul tema "Testimonianze dal confine orientale"

 

Il quarto e ultimo appuntamento di "Linee di confine", la rassegna voluta dall'associazione Novaluna, si terrà alle 21 di giovedì 26 novembre 2009 presso il Binario7 in via Turati a Monza. Ospite lo scrittore Boris Pahor.

Per presentare Pahor riprendiamo una intervista e un articolo di Paolo Rumiz pubblicati su Repubblica.

 

UNA VITA DIFFICILE PAHOR: IL MIO SECOLO
FRA TRIESTE E IL MONDO

Repubblica — 23 settembre 2009


TRIESTE Come se si fosse rotta una diga. Libri, libri e ancora libri. A 96 anni Boris Pahor, triestino di lingua slovena, assiste con stupore e soddisfazione allo "scongelamento" di un quarantennio di opere sue che, dopo il successo un anno fa di Necropoli, vengono tradotte finalmente in Italiano. Premiato e tradotto in mezza Europa ma sconosciuto fino a ieri nel suo stesso Paese, ora il patriarca col vizio della memoria, registra un bel tandem, con l' inedito autobiografico Tre volte no (Rizzoli) e il romanzo del 1967 Primavera difficile (Zandonai). Il vecchio è felice nella sua casetta a picco sull' Adriatico. La "riabilitazione" letteraria ha avuto effetti a cascata persino in Slovenia, dove pure è arcinoto: in un anno rilanciati cinque dei suoi libri. È richiestissimo, il telefono suona a ripetizione, e lui risponde a tutti, anche ora che Radoslava, la compagna della vita, lo ha lasciato. Al tramonto scendiamo nel suo bunker, oltre un orticello di pomodori. Si cala per ripide scalette con passo elastico, in tuta e mocassini. Oltre una porticina, montagne di libri, una Remington vecchia di quarant' anni, un lettino con un testo di Spinoza. «Qui - dice - ho vissuto la mia vita parallela. Riemergo solo per mangiare e dormire». Primavera difficile è la storia di un suo amore francese, dopo la liberazione dal Lager. «Madeleine si chiamava. Per me che ero un naufrago dell' orrore fu la riscoperta della vita. Era la mia infermiera nel sanatorio di Villiers sur Marne dove guarii dalla tbc. "Mon petit" mi chiamava. Fu un regalo magnifico». Fino ad allora lei era stato in mezzo alla morte. «Per un anno e mezzo avevo vissuto fra corpi distrutti. Cataste, montagne, treni interi di corpi distrutti e bruciati come foglie secche. È stato allora che ho capito l' importanza e la benedizione di quella cosa che il secolo ventesimo degradava a un nonvalore». Che cosa? «Il corpo appunto. Il più bel dono che abbiamo. Io ho amato tanto il corpo femminile, ma è il corpo umano in generale che va amato e rispettato. Per uno come me che è tornato dall' abominio l' unica consolazione era pensare che l' umanità aveva in sé la possibilità di creare corpi nuovi e diversi, generazioni migliori». Cosa fu per lei la Francia? «Era il 1946 e non avevo nessuna voglia di tornare a Trieste. A casa mia erano offesi che rimanessi lontano così a lungo, anche dopo la guarigione. Il problema è che a Trieste c' era il marasma. Manifestazioni continue. La città era passata senza interruzione dalla guerra alla guerra fredda». Non è stufo di questa complessità di frontiera? «A volte vorrei avere vissuto in un luogo meno complicato di Trieste, ma a che serve essere stufi? Ormai ci siamo dentro e dobbiamo macinare... Davvero non vedo alternative». Sente ancora così ostico questo suo luogo? «C' è chi rema contro ma qualcosa cambia. Ieri sono andato a Prosecco per un documento d' identità, e quando sono entrato l' impiegata, riconoscendomi, mi ha salutato con un "doberdan", il buongiorno in sloveno. Mi ha reso felice». E sul piano della cultura? «Qualche giorno fa ho affrontato una sala strapiena con Claudio Magris e ho detto che quando il poeta sloveno Kosovel potrà entrare nei programmi di studio delle scuole italiane, allora Trieste sarà un piccolo paradiso. Ho avuto un applauso di straordinario calore. Sì, le cose cambiano». Professore, qual è il suo segreto? «Aggrapparmi al presente. Nel campo di concentramento ho imparato a fare sempre qualcosa, senza pensare al passato e al futuro». Eppure lei al passato ci pensa eccome. Secondo alcuni anche troppo. «Me lo dicono in tanti. Gli sloveni post-comunisti mi accusano di rivangare cose morte e sepolte. Ma io non mollo, fino a quando il ventennio fascista resterà nell' ombra in cui si trova. Non si parla degli orrori che comportò. Il nazismo era peggio, mi contesta alcuno. E allora? Non è un buon motivo per archiviare tutto». Pensa che la memoria italiana sia a senso unico? «Dico: sacrosanto che si sappia delle foibe. Ma altrettanto sacrosanto che si sappia del fascismo e soprattutto della sua aggressione alla comunità slovena. Bastonature, incendi, condanne a morte, cognomi e nomi cancellati, una lingua negata. E molti dimenticano che questo accadeva già vent' anni prima della guerra». Pensa ci sia una rimozione? «Guardi cosa c' è scritto sulla targa bilingue che ricorda l' incendio alla casa di cultura slovena di Trieste. Si parla di "esagitati", non di fascisti. C' è un' ostinazione tenace e non ammettere l' innegabile». Come visse da sloveno la proclamazione a Trieste delle leggi razziste contro gli ebrei? «Pensai: ecco, ora anche loro sono nella nostra condizione di perseguitati ed esclusi. Anche quelli di loro che avevano abbracciato il fascismo e magari erano stati antisloveni. Ovviamente non immaginavo l' orrore che si sarebbe scatenato di lì a poco col nazismo». Nel lager lei capì il destino degli ebrei? «Non fino in fondo. Non c' erano ebrei nei miei campi. Ma la gente passava egualmente per il camino. Bisogna stare attenti a ricordare che i forni crematori hanno incenerito anche tanti oppositori del regime e tanti prigionieri politici». La soppressione della lingua fu la sua prima ferita. «Fu uno choc tremendo. Ne parlo diffusamente in quest' ultimo libro-intervista dal titolo Tre volte no. Ero bambino e improvvisamente persi la mia identità. Un giorno fui umiliato in classe perché avevo sbagliato un verbo e il mondo mi crollò. Non ebbi nemmeno il coraggio di andare da mio padre». Poi ha avuto le sue rivincite. «Durante la guerra, con ritardo, presi la maturità durante una pausa sul fronte libico. Passammo in quattro su quarantasei, fui il migliore in greco... io che ero sloveno... Le lingue mi salvarono... Grazie al francese fui aiutato da un medico francese che mi face fare l' infermiere. Ma sapevo anche il tedesco, e con le SS che mi avevano imprigionato fu un vantaggio. Le lingue slave, poi, mi aiutarono con i prigionieri jugoslavi, russi, cechi, polacchi». Qual è il suo primo ricordo? «Io e le mie due sorelline nel lettone dei miei con quaranta di febbre per l' epidemia di spagnola. Era il 1917. Una sorella morì. Deliravamo. E nessuno ci aiutava come famiglia». Lei invece è arrivato a 96 anni. Pensa di essere un uomo fortunato? «Mah. Più volte in situazioni difficili ho trovato persone che mi hanno aiutato. Ma che cos' è: fortuna o spirito di iniziativa?». Che pensa di Dio? «Mi sento panteista, come Spinoza, ebreo che gli ebrei maledissero. Credo che ci sia un disegno straordinario nel mondo. Ma non penso proprio che Dio si occupi di noi, che sia un padre affettuoso». E poi c' è il mare. «Io al mare ci parlo, non potrei vivere senza... Il mare grande e ventoso di casa mia. È il mio amico migliore». - PAOLO RUMIZ

 

IL CASO PAHOR Il lager visto dal bosco

Repubblica — 30 gennaio 2008


Quarant' anni ci son voluti perché un autore simile fosse conosciuto appieno nel suo Paese. Ci sono voluti decine di libri stampati all'estero, una Legion d'Onore, premi negli Stati Uniti, traduzioni in inglese, tedesco, francese, persino esperanto e finlandese. E' il destino di Boris Pahor, triestino di lingua slovena, noto quasi ovunque tranne che in Italia. Per troppo tempo ha fatto comodo non si sapesse che nella città italianissima c'era un grande capace di scrivere in un'altra lingua - la stessa che il fascismo aveva negato a suon di manganello, sputi e olio di ricino - e mettere con i suoi capolavori il dito sulla piaga. Necropoli - Fazi, pagg. 270, euro 16, prefazione di Claudio Magris e traduzione di Ezio Martin - è dedicato alla prigionia nei Lager nazisti e salda il conto con molte cose: l'oppressione fascista che - si voglia o no - fu la premessa dei forni crematori; la scandalosa anticamera di questo autore ormai novantacinquenne (il libro è del 1967); con la sua umiltà, la sua onorata cittadinanza e la sua limpida passione civile. Ma soprattutto con la bellezza di un testo che si situa a pieno titolo accanto ai capolavori di Primo Levi e Imre Kertész sullo sterminio. Per Pahor il Muro cade solo ora, ma il ritardo si riscatta con una perfetta scelta di tempo, col libro che esce nel Giorno della Memoria, il primo celebrato dopo la definitiva cancellazione della frontiera tra Italia e Slovenia. E chissà che questo bel rilancio non serva a esorcizzare gli ultimi fantasmi in circolazione sulla Cortina di Ferro che non c'è più, offrendo una base nuova di conoscenza reciproca alle sospettose comunità che la abitano. Un libro importante, perché non recrimina ma guarda al domani, e perché l'Autore - scrive Magris - è uscito dall' inferno integro e vitale, ricco di una «confidenza con la fisicità elementare della vita». Il libro ha una forte anima slava e non indulge in autocommiserazioni. Non rimane imbrigliato nemmeno nel «tortuoso senso di colpa» di chi è ritornato e sente il peso di essere sopravvissuto ai compagni. Pahor sa di appartenere al suo Lager sui Vosgi, di essergli legato per sempre, ma quando, vent'anni dopo, vede due giovani baciarsi vicino alle camere a gas, anziché indignarsi, sente il richiamo potente del sentimento. Dice: «Noi eravamo immersi nella totalità apocalittica della dimensione del nulla», e quei due ora «galleggiano su qualcosa di altrettanto infinito e che altrettanto incomprensibilmente signoreggia sulle cose». Il richiamo della natura - indifferente ma consolatrice - è presente nel mutismo del bosco cui egli, durante la prigionia, non riesce affatto a guardare come simbolo partigiano di libertà. Durante l' esecuzione di un centinaio di giovani prigioniere francesi, egli al contrario gli rimprovera «di offrire, fitto com'è, un nascondiglio alla dannazione». A guerra finita poi, durante una visita guidata al campo della morte, Pahor si sente selvaggiamente respinto da quella buia massa resinosa che a distanza di vent'anni si rivela come una massa di ombre trapassate pronte a difendere «il proprio territorio dalla curiosità di un uomo che passeggia, vestito decentemente, con i suoi sandali estivi». Il bosco è un incubo che svela il nulla cosmico, sveglia inquietanti presenze ostili, «feti» coscienti del fatto che «il loro sterminio collettivo si era legato all'infinito isolamento della natura e dell' universo». Ma, a viaggio finito, è pur sempre il bosco ad accogliere e consolare il sopravvissuto nell'angolo di un camping solitario, concedendogli di infrattarsi, diventare «libero pellegrino» e assaggiare in un pentolino bollente un sorso di buon latte dei Vosgi che gli riporta alla memoria il profumo di quello munto prima della catastrofe in Slovenia. Un latte mitologico, che «sembrava sapesse di Nigritella» e - sogna Pahor - con «la linfa dei nostri monti ci rafforzava nella lotta contro il terrore nero». Il libro offre grandiose immagini collettive. Il «formicaio zebrato», la «massa multicefala», le «ossute zanzare acquatiche, ragni bruciacchiati con i sederi a X», le file di «tartarughe che di quando in quando sollevano le teste nude nello sforzo di guardare fuori dal regno delle tenebre». Intorno, un orrore che svela la sua tremenda dimensione acustica: «l'ululato dei cani nel ventre della montagna nera», la tempesta di urla rauche, quando sembrava che la paura «fosse diventata un vento impetuoso che investisse tutte insieme le corde vocali tedesche». Sopra di tutto, il Camino: il suo rosso tulipano acceso nel cielo di piombo, l'odore dolciastro, la cenere che si mescola alle nubi, genera polipi, piovre apocalittiche, elefanti fuligginosi. Quando arriva al campo di Natzweiler-Struthof, Pahor ventenne non ha già più illusioni. Il manganello delle camice nere le ha già spazzate via dalla sua coscienza, contribuendo però a creare, nella scorza dell'Autore, un «sistema di difesa» che non permette ai sentimenti di penetrare fino al nocciolo dove è «concentrato l' istinto di sopravvivenza». Ricorda i fascisti che incendiano il teatro sloveno di Trieste, il loro danzare «come selvaggi attorno al grande rogo», la sua incredulità di fronte alla soppressione della lingua con cui ha «imparato ad amare i genitori e cominciato a conoscere il mondo». Una soppressione, durata un quarto di secolo, che «raggiungeva lì nel campo il suo limite estremo, riducendo l'individuo a un numero». «Il trauma più grave insorse quando i maestri sloveni vennero cacciati dalle scuole di Trieste». Diventai, scrive Pahor, «razza condannata, un negro». Ecco perché nel campo sui Vosgi gli slavi della costa, pur portando la «I» sulla casacca a strisce, si dicevano «yugoslavi» davanti al kapò. Non volevano essere confusi con gli oppressori, ma anche non subire le conseguenze del disprezzo tedesco verso un popolo che per due guerre mondiali aveva tradito l' alleato. In una scena memorabile verso la fine del libro, degli istriani riescono a scampare al gas semplicemente dichiarandosi «austriaci», per il fatto di esse stati fino al 1918 sudditi di Francesco Giuseppe. Ma il fascino del Bel Paese riesce egualmente a sfondare il muro del sospetto, anche lì nel Lager, davanti all' occhio di Medusa. Quando il giovane Boris trova un vecchio giornale italiano, basta «il fruscio della carta» a dar luogo a «un' ondata di calore, quasi un' ondata di luce». Il cima alle colonne degli articoli c' erano nomi di città che «sorsero all' improvviso davanti a me con tutte le loro volte medievali, con gli archi gotici, i portali romanici, gli affreschi di Giotto, i mosaici di Ravenna». E poi la foto dell' attrice Alida Valli, bellissima sotto la luce della lampada a carburo, che evoca la memoria di un amore perduto e si fa ritagliare per essere incollata accanto al pagliericcio gelido. Quella foto italiana è forse l' unica deroga all' inflessibile comandamento degli internati: non pensare mai al mondo dei vivi, perché quella memoria uccide. «La regola era non stuzzicare mai la morte con immagini di vita, perché la morte è una femmina vendicativa». L' istriano Tomaz, un uomo vulcanico e allegro che non smette mai di evocare il suo mare, il suo vino e i profumi della sua terra, non rivedrà mai casa e sparirà di scena con una lunga cucitura verticale dal pube alla gola, simile a una treccia, sul tavolo autoptico della morgue. Non si deve ricordare, perché tanto i due mondi sono e resteranno incompatibili, anche dopo l' Olocausto. Pahor non sembra trovare rimedio a quella che chiama «la grande apatia dell' uomo standardizzato». L' Europa è una vecchia stanca che nel dopoguerra, anziché «compiere la propria purificazione», si è lasciata applicare occhi di vetro «per non spaventare i bravi cittadini con le sue occhiaie vuote». L' uomo europeo, ogni tanto, prova vergogna per questa sua situazione da eunuco: ma - conclude Pahor - esso ha già abbondantemente «scialacquato in anticipo il patrimonio di onestà e di giustizia che avrebbe dovuto trasmettere alle nuove generazioni».  
PAOLO RUMIZ