20090929-Muse

Due poeti, uno fiscalista l'altro imprenditore. Forse la poesia alla fine è una strada non asfaltata per l’età dell’innocenza.

Conosco due poeti. Hanno in comune un lavoro che li ha sempre obbligati a fare conti – Bruno, 45 anni, è fiscalista, Paolo, 71 anni, ha fatto l’imprenditore per quarant’anni circa –, una mente sottilmente contorta, l’autoironia e un cuore candido. Forse la poesia alla fine è una strada non asfaltata per l’età dell’innocenza.

 

PAOLO PEZZAGLIA

Come hai iniziato?
Nel ‘61 sono andato negli Stati Uniti all’Università della Virginia e ho incontrato John Crockett, nipote di David Crockett, che era a capo del centro culturale americano e membro della Voice of America. Scrivevo già da cinque o sei anni. Ha letto le mie poesie e mi ha detto: “Devi andare da Eusebio.” Eusebio era Montale. Tornato a casa sono andato in via Bigli a casa sua. Lui partecipava e non partecipava. Si è messo in un angolo. I presenti mi hanno chiesto di leggere e non ho letto nulla. Mi vergognavo. Ora me ne pento. Avevo in tasca una poesia che gli sarebbe piaciuta. Si intitola Gradini. Però da quel momento lì, grato che non gli avessi letto nulla, Montale mi ha dato retta. Ho detto che volevo scrivere ma avevo un’azienda da mandare avanti e lui mi ha confortato. Ha detto: Succede che uno deve fare un mestiere e poi rimane poeta. Mi ha raccontato di Svevo che doveva mandare avanti l’azienda del suocero. Poi per molti anni ho lasciato tutto nel cassetto. Poi, a un corso di filosofia orientale, incontro Francesco Solitario, che ha la cattedra di estetica all’università di Arezzo. Con L’imbuto rovesciato, il mio primo libro, io sono diventato scrittore e lui è diventato editore.

Quando hai pensato che quello che scrivevi era poesia?
Sempre e mai. Sono sempre insoddisfatto di ciò che scrivo, sul momento. Però dopo averci lavorato un bel po’, alla fine le mie poesie mi piacciono. Alcune le ho riscritte trenta volte, prima che mi piacessero.

Come si fa ad avere successo con la poesia?
Ho partecipato a tanti concorsi e tanti ne ho vinti, ma resto sempre un po’ scettico nei confronti dell’ambiente che c’è intorno alla poesia, o per meglio dire a certa poesia. Detesto i circoli di poesia. Non mi piacciono i poeti che si parlano addosso, ma, si sa, poeta mangia poeta.

Perché scrivi?
Non me lo sono mai chiesto. Lo faccio e basta. Che altro dovrei fare?

Chi sono i tuoi preferiti?
Ho un estremo interesse verso tutto ciò che è antico, esoterico, orientale. Lì c’è la conoscenza che più mi attrae.

E la tua professione?
Dal punto di vista materiale mi hanno tolto tutto, ma io sono tranquillo. Tutta la mia vita da imprenditore l’ho vissuta come uno che fa una guerra. Ti è servita? Sì, no, non si sa. Nel Mahabarata il protagonista prima di una battaglia si chiede perché deve combattere. Il suo auriga gli dice di combattere, di fare il suo dovere fino in fondo, astraendosi, ma senza fuggire. Ho fatto così.

Che aspirazioni hai riguardo alla tua poesia?
Vorrei finire quello che sto facendo. Sto scrivendo un patchwork. Se devo tradurre il mio cognome in inglese è Patchwork. È una cosa in prosa, una storia non legata. Non mi interessa la consecutio temporum né che la gente capisca. Non scrivo per gli altri adesso. Ero tentato di proporlo a qualche editore, ma non so. Bisogna essere postumi e abituarsi all’idea. Per questo sto studiando come muoversi nell’aldilà. Ora vado in Egitto a prendere le misure. Ormai so quasi tutto su come comportarsi nell’aldilà. Potrei scrivere un manuale. Mi farò un piccolo sarcofago per le mie poesie. I miei libricini verranno chiusi in una scatola metallica e verranno con me.

Cos’è per te la poesia?
Una tara. Per la vita pratica e normale è una tara, perché ti fa pensare, ti fa mettere in dubbio tutto. Per avere successo nella vita è meglio non essere poeti. È una medicina, ma bisogna conoscere il concetto di malinconia. La poesia è la verità. Anche le altre arti, certo, ma la poesia è il mezzo più semplice ed economico per esprimersi. Non mi cito mai, perché non trovo sia il caso, ma, sarà la vecchiaia, mi viene in mente un mio verso: “La poesia è forse di chi non può più vincere.”

Gradini
… … … …
Ammalarsi e curvarsi,
e curvandosi trovare movimento,
gradini,
o discendere pendii,
senza cadere,
temendo l’umidità, come se fosse
solo un fatto di oggi, strano,
l’umidità che rivela queste vene nel cemento,
vene scavate, aperte,
senza fine.

 

BRUNO COLAIEZZI

Come hai iniziato?
La prima poesia l’ho scritta a 17 anni. È stata una folgorazione. Vivevo a Venezia. Sono corso in camera, l’ho scritta e l’ho perduta per poi scoprire dopo trent’anni che mia madre la conserva ancora. Dove l’ha trovata non so. Dovevo tirar fuori l’energia malinconica che avevo dentro, perché suonavo il pianoforte ma non componevo. Mi mancava il comporre. Leggevo un libro, il linguaggio mi attraeva e allora dovevo per forza ritirarmi e scrivere. Ho accumulato decine di plichi gettati senza mai pensare che ero un poeta. Non mi passava nemmeno per l’anticamera del cervello.

Quando hai pensato che quello che scrivevi era poesia?
Definire la cosa come poesia è accaduto quattro anni fa, perché ho recuperato alcune poesie che avevo scritto e mi sono piaciute. Sono così arrivato alla consapevolezza. Ho raccolto la mia roba e l’ho mandata a un amico poeta, Pierluigi Galliani. Era il 2004. Non pensavo di pubblicare, volevo solo farmi leggere. Galliani è diventato il mio mentore. Due anni e mezzo fa Pierluigi mi porta a casa di Giampiero Neri, poeta famoso, perché l’iniziazione in poesia c’è sempre. Emozione tremenda, lui silenzioso che mi accoglie in un salotto pieno di quadri d’autore. Leggevo le mie cose e lui non diceva niente, poi a un certo punto si è illuminato e ha detto: Quando trovo una poesia che mi colpisce la devo imparare. Allora ho capito che le mie cose gli piacevano. Sono tornato da lui. La terza volta mi ha detto che avevo talento, che la poesia è una strada lunga e che non dovevo scoraggiarmi. Il settembre scorso mi ha chiamato e mi ha chiesto se volevo fare il vicedirettore della loro rivista di poesia, il Monte Analogo (www.rivistailmonteanalogo.it). Per me è stato un onore accettare.

Come si fa ad avere successo con la poesia?
Non ne ho la minima idea. La poesia si fa attraverso le riviste. I concorsi non servono a niente e non ti fanno entrare nell’entourage dei poeti che contano. L’originalità di questa rivista è che le poesie vengono selezionate in base all’emozione che suscitano e all’esperienza dei redattori. Comunque io non ho successo. Intorno alla poesia c’è un mondo accanito come se ci fossero degli interessi economici pazzeschi. È un mondo deludente. Credevo nella poesia di trovare un ambiente sereno e rilassato, che si volesse parlare di letteratura, non per creare un meccanismo perverso di commenti, presentazioni e legami impegnativi. C’è gente che si affatica. Mi è stato detto da un poeta noto che ti devi muovere in continuazione. Se non ti chiamano hai paura sempre di aver perso qualcosa e la cosa diventa frustrante. Ho intenzione di continuare con beneficio di inventario. Andrò avanti finché mi diverte. Non pubblicherò per pubblicare né per avere una presentazione solo fine a se stessa.

Perché scrivi?
Mi chiedo se sono io a scrivere. Scrivo perché in quel momento non posso che fare quello. La metà delle mie poesie le ho scritte sul treno, alla ricerca disperata di qualcosa su cui scrivere. Se porto il bloc notes non mi viene nessuna idea. Allora non lo porto. Ho come una mano invisibile. Butto giù qualche verso, arrivato a casa la sera vado avanti.

Chi sono i tuoi preferiti?
I miei poeti di riferimento sono Saba, Clemente Rebora, Sandro Penna, Vittorio Sereni, Leopardi, Baudelaire, Edgar Lee Master, Neruda, Kavafis. La poesia straniera però non mi trasmette le stesse cose di quella italiana, perché purtroppo sono negato con le lingue. Ora che scrivo, però, non trovo più il piacere della letteratura, perché ho sempre quest’ansia di trovare negli altri qualcosa che mi possa servire. Mi vergogno quasi a dirlo.

E la tua professione?
Il lavoro quotidiano è un impedimento terrificante. I poeti non dovrebbero lavorare. Per me lo scrivere poesie è una fatica tremenda. Due ore di lavoro mi spossano. L’ideale sarebbe un lavoro part time.

Che aspirazioni hai riguardo alla tua poesia?
Certo, è ovvio che uno desideri pubblicare e essere riconosciuto. Ma il libro deve essere la conseguenza di un riconoscimento. Il sogno della mia vita è riuscire a essere apprezzato e pubblicare, ma tantoè impossibile vivere con la poesia.

Cos’è per te la poesia?

Ritmo. Il ritmo è l’essenza della poesia. Si è abbandonato il ritmo a vantaggio della parola.
Vita. La poesia si mescola insieme alla vita e così io non riesco a vedere il mestiere del poeta, che si confonde con il resto. Immortalità. L’idea che qualcuno di sera stia leggendo una cosa tuaè fantastico, risponde al desiderio di essere dove non sei, quando non ci sei.

Se così ti amo con quel poco
stretto da pareti,
è poco dirsi.

Tra i fili un richiamo
i libri che scosto, tumefatti
corpi di carta. Volano assembrate
le ore, difese
da miti e correnti,
a mezzanotte circa
con avanzi di cibo e le cicche,
il vuoto odore d'oleandro
sul balcone infinito,
ruggente la notte
come ogni ferita che divora.
Stupro della notte, delle lancette
fuori orario
della vernice sui muri,
del colore che ho in mente (perla)
di te, colore che si fonde
un po' si perde, pelle a pelle
come noi d'altronde.

Gli autori di Vorrei
Clementina Coppini