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Intervista al cantautore: le origini, il blues, Willy DeVille, il successo, il futuro.

 

Non tutti sanno che sei nato proprio a Monza prima di trasferirti sul Lago di Como. Hai ricordi dei tuoi pochi anni monzesi? Ti senti ancora legato alla città in qualche modo?
I ricordi li ho, psichedelici e confusi ma abbastanza presenti. Era il periodo in cui tutti andavano sulla Luna e io ho fortissimo questo ricordo. C’era la Luna ovunque, sia sulla terrazzo di casa - in via Biancamano numero 1 - sia in tutti telegiornali, sui giornali, sulle riviste, l’Europeo, l’Epoca
Io ricordo che attorno a casa mia c’era parecchia campagna, ora non c’è più niente di tutto questo. Ricordo la signora Esther al piano di sotto, che aveva una tintoria e mi dava delle macchinine, penso del figlio o del nipote, dentro un sacchetto del pane; una vicina di casa che si chiamava Lorenza e non mi faceva giocare con NIENTE dei suoi giocattoli, quando io le chiedevo “con cosa giochiamo?” “con NIENTE”. Questo per dire che ho dei ricordi, eccome.
Un grosso legame poi con Monza non c’è più stato, perché io non ci sono più tornato per un certo periodo. Mi sono stabilito sul Lago, sono diventato uno del Lago e ho cominciato a viaggiare in quella direzione. Ma ad un certo punto, proprio qualche anno fa, ho cominciato con l’età a sentire un richiamo, un qualcosa che mi mancava, un buco. Questo buco era fatto di ricordi confusi e di una città che mi ha visto nascere ma che poi non mi ha più visto, se non in rare eccezioni. Ricordo un concerto tanti anni fa, verso il 2000-2001, a Villa Reale e poi basta. Ecco, quando ci fu la notte in Piazza del Duomo, lì per me è stata una ricongiunzione forte, dopo tanti anni, dopo dieci anni, cioè, dieci anni di carriera ma dopo quasi quarant’anni, insomma, tornare nella tua città natale come portatore di un qualcosa di artistico, tutto quello che è successo, ecco è stata una cosa che per un momento mi ha anche abbastanza colpito da un punto di vista emotivo. Quindi mentirei se dicessi che oggi come oggi non mi sento legato a questa città.

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Foto di Francesca Pontiggia

La tua carriera ha raccolto tanto sia dal punto di vista della critica, per esempio il Tenco, che del pubblico, il concerto al Forum col sold-out. C’è qualcosa che senti ancora come mancanza, qualcosa a cui vorresti arrivare nei prossimi anni?
Sai il tempo è qualcosa che esiste soltanto nel momento in cui lo hai trascorso. Perché tu puoi parlare di tempo proiettandoti nel futuro, ma è difficile dire oggi cosa vorrei fare, domani e dopodomani. Mi sono abituato a lavorare passo per passo e momento per momento, un po’ come quando buttando la pietra nel lago vedi questi cerchi concentrici. Allora io ti dico: di cose ne sono successe più di quelle che mi aspettavo. Vorrei andare avanti e, viaggiando, capire cosa devo fare ancora, cosa voglio fare ancora. E allora lascerò proprio a questi cerchi concentrici della pietra la scelta.
Spero di scrivere canzoni che non vadano a ripetersi troppo. Spero di poter aver ancora la forza di scrivere qualche libro; qualche cosa che abbia un senso per me e per altri, e spero di rimanere sempre credibile Alla fin dei conti sono le persone il vero riconoscimento, i premi, se sono prestigiosi ti aiutano comunque veramente molto, come iniezione di fiducia.

Dopo il folk, il country, il cantautorato, nella tua musica si sente sempre più forte l’eco del blues. Com’è nato l’amore per questo genere?
Il blues è un nome che si dà ad un genere e che sappiamo benissimo, l’han detto tutti fino alla morte, è anche uno stato d’animo. Io tante volte magari mi sono circondato di grandi musicisti che avevano la netta predilezione per il blues. Con me in questo momento c’è Francesco Piu: un chitarrista strepitoso, sardo, che ci rappresenterà a Memphis per il Delta Blues Festival. Non è vero che facevamo dei concerti blues, però è verissimo che questo spirito che noi chiamiamo il blues, quello che ti prende, quello che vuole a un certo punto rompere degli argini e uscir fuori verso il pubblico, questa cosa arriva e quando arriva è sempre bene accetta, anche se stai suonando un pezzo reggae, anche se stai suonando la Ninna Nanna del Contrabbandiere. È forse più blues quella di pezzi che hanno l’accordo blues.

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Foto di Francesca Pontiggia

In passato hai citato Willy DeVille tra le tue influenze. Purtroppo è recentemente scomparso. Puoi darci ora un tuo ricordo della sua musica?
Ho un ricordo della sua musica, ma ho un ricordo anche di lui come persona perché a Roma ho avuto comunque la possibilità di aprire un suo concerto. Noi eravamo in formazione improvvisata, cioè acustica, semi-acustica, diciamo una via di mezzo perché bisognava fare in fretta col cambio palco. E Willy DeVille collaudava lì il suo tour. Sto parlando di quattro forse cinque anni fa, boh. Grandi musicisti sul palco, lui un personaggio ancora comunque molto ipnotico, lunatico, con qualche problema di gestione e di salute. Comunque un grande rock-man. I suoi dischi sono stati vari, in vari momenti. Lui coi Mink DeVille faceva un certo tipo di musica, poi si è calato dentro lo spirito più cupo della Louisiana e di tante cose che mi hanno sempre affascinato.
Grande artista e grande voce. Il disco che mi piace di più è forse Loup Garou. Laddove c’è una canzone che non ho mai smesso di ritenere una hit, che sarebbe la “Ninna Nanna del Vampiro”, Vampire’s Lullaby. Una canzonequasi sussurrata, con una voce da brivido, che fa capire quanti erano i colori di quest’uomo.

I concerti sono sempre stati un tuo punto di forza. Nel DVD Ventanas si vedono spezzoni dei tuoi show in Campania e Basilicata con la gente che balla e partecipa anche senza capire le parole, praticamente. Sai dare una spiegazione per questa reazione positiva di pubblici anche lontani?
Nel momento in cui una persona riconosce che esiste un’energia che sta arrivando, decide di potersi avvicinare a questa cosa. Quindi si informa, magari si studia anche le traduzioni, partecipa al concerto, si fa trascinare da quello che capisce immediatamente a livello di battito e poi impara a conoscere quello che magari non gli arriva istantaneamente, ed è una delle gratificazioni più potenti per chi fa questo tipo di lavoro.

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Foto di Francesca Pontiggia

Dal vivo esegui spesso anche delle cover, che vanno per esempio da citazioni degli Articolo 31 a You Shook Me All Night Long degli AC/DC. Cosa deve avere una canzone per colpirti e per far sì che tu le renda omaggio.
Con l’età si diventa un pochettino, che ne so io, strani, lunatici. Ci son dei momenti in cui, boh, sei posseduto da un ricordo e, chissà perché, la mania del momento, il tormentone del momento, ti entra dentro. In questo tour estivo c’è questa parte strumentale di Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floyd, che, sapendo che comunque piacevano molto sia al violinista Anga sia a tanti altri, abbiam deciso proprio di frequentare, di suonare. Ci riempie il cuore nel momento in cui la facciamo a inizio concerto, perché vedi tutti questi nostalgici, tutte queste persone che hanno più o meno la nostra età illuminarsi, anche i più giovani, e stupirsi. Ed è come un tributo, no? Canzoni che non fanno parte di quel genere prettamente parallelo al tuo, o uguale al tuo. Qualche volta salta dentro, scherzosamente magari, anche un pezzo di musica leggera o You Shook Me All Night Long, questo amore per un certo metal, per un certo hard rock, che comunque ha caratterizzato e caratterizza tuttora le compilation nel mio I-pod. Cantare le proprie cose è importantissimo, io ho fatto quasi sempre e solo quello, poter a volte buttar dentro però qualcosa di qualcuno ritenuto grande è una sensazione bella.

Stai già lavorando al prossimo disco? Hai qualche anticipazione? Che direzione prenderà?
Eh, no. Il disco nasce come un qualcosa che fermenta e cresce quando deve crescere. Io non ho mai fatto i dischi a tavolino, con un metodo. Al momento potrei avere intorno alle tre-quattro canzoni, o comunque tracce di canzoni tra virgolette “nuove”. Però non c’è ancora un vero mood, un vero background, non c’è ancora un vero plastico sul quale costruire il disco. E siccome ho sempre costruito dischi che avevano un fil rouge, per unire le canzoni tra loro, anche in questo caso mi aspetto che arrivi il momento giusto. È bizzaro di come io mi senta lì, in attesa, e poi tutto ad un tratto salta fuori un disco.

Gli autori di Vorrei
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi

Nasce nel 1984. Studi liceali e poi al Politecnico. La grande passione per la musica di quasi ogni genere (solo roba buona, sia chiaro) lo porta sotto centinaia di palchi e ad aprire un blog. Non contento, inizia a collaborare con un paio di siti (Indie-Eye e Black Milk Mag) fino ad arrivare a Vorrei. Del domani non v'è certezza.

Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.