Integrazione, culture e universi televisivi: la differenza resistente delle enclaves bollywoodiane nelle società della diaspora

Guardiamoci intorno. In metropolitana, nei quartieri popolari, nelle pizzerie. L'Italia è un Paese multietnico. Di più: lo è sempre stato. Le nostre città, la nostra lingua, i nostri costumi sono un mosaico di tradizioni infinitamente variate e rimescolate. Piaccia o non piaccia.

Similmente a quanto già è accaduto in società con una più lunga storia di melting pot, è probabile che nei prossimi decenni categorie come gli afro-italiani o gli indo-italiani acquisteranno visibilità e riconoscimento all'interno della cultura nazionale. Ovvio a dirsi, l'identità di queste figure ibride dipenderà in larga parte dal ruolo dei media di massa. Linguaggi, mondi visuali, sottoculture di abbigliamento. L'emersione di nuove dinamiche identitarie, ora confinate al ruolo di curiosità da reality show, ridefinirà l'intero panorama televisivo e mediatico.

In questo dossier tuttavia ci occupiamo di mostrare come queste figure – marginalizzate e ridotte a contorno nella rappresentazione ufficiale della società – ne costituiscano in realtà già oggi una parte integrante e attiva. Resta da capire allora in che termini esse si rapportano ai linguaggi che la definiscono.

Uno dei fenomeni più curiosi (e trascurati) è quello che lega la comunità dei migranti asiatici a un certo tipo di orizzonte mediatico. Ci riferiamo alla sterminata produzione indiana: vero e proprio caso mondiale, l'India ospita la prima cinematografia del globo per numero di film prodotti, e – in seguito alle liberalizzazioni economiche del 1991 – ha visto il proprio immenso mercato interno aprirsi alla competizione di emittenti televisive nazionali e non, fino all'affermarsi di una florida produzione locale. Emittenti come la murdochiana STAR TV realizzano ormai direttamente in India prodotti destinati a servire un'area amplissima, dal Bangladesh alla Cina.

In parallelo alle liberalizzazioni, la fine del secolo ha aperto la società indiana a una massiccia diaspora. Uno studio di Radikha Seth ha messo in luce a livello accademico un fenomeno colto in Italia – ad esempio – da Vittorio Moroni, nel documentario Le ferie di Licu. Parlo della tendenza di questi migranti a ritagliare delle enclaves mediatiche, per combattere la sensazione di estraneità al nuovo contesto in cui sono immersi. Ciò avviene da un lato grazie ai canali satellitari, e dall'altro grazie alla capillare diffusione di vhs pirata. Questi mezzi permettono infatti la creazione di un vero e proprio legame ombelicale, attraverso cui film bolliwoodiani in lingua hindi e soap operas locali sciamano nell'esistenza quotidiana di migliaia di persone lontane dalla propria terra.

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Si verifica così un fenomeno inverso a quello che aveva caratterizzato il ruolo della televisione di Stato nel nostro Paese, nei primi anni del servizio pubblico. L'integrazione culturale – con le tensioni e le difficoltà che comporta – è combattuta e ritardata da queste prassi di “radicamento resistente”. E' come se la ricreazione del proprio universo mediatico domestico – in qualche modo – annullasse o riducesse il bisogno di colmare la distanza con l'universo sociale reale in cui si agisce. Si pensi solo alla lingua, o al ruolo della televisione nella diffusione di un immaginario comune.

Seth rileva come gli abbonamenti satellitari alle emittenti domestiche vengano usate dai migranti come un argine, per difendere le proprie tradizioni e promuoverle alle nuove generazioni. Si tenta cioé di prevenire la contaminazione trasmettere la propria cultura trasportandone i discorsi in un ambiente estraneo. Ai parenti in visita si mostrano videocassette con programmi televisivi di casa, ad esempio. Ma è soprattutto sui matrimoni combinati che passa la linea del conflitto. La sottomissione femminile e il controllo famigliare sulle nozze – pratiche messe a rischio dal contatto con lo stile di vita occidentale – vengono veicolate e riaffermate attraverso l'attaccamento a questi prodotti. Seth nota anche come i contenuti puritani che caratterizzano le pellicole bolliwoodiane valgano a riaffermare una certa diversità dai costumi occidentali, e piacciano – per questo – anche alle comunità di lingua araba e religione musulmana.

Sulla strada dell'emersione delle nuove identità ibride – almeno per quanto riguarda una consistente fetta di esse – si colloca insomma un vero e proprio scoglio culturale, destinato a pesare soprattutto sulle seconde generazioni. In questa prospettiva, assume importanza strategica ripensare codici e contenuti del nostro sistema mediatico, cercando di colmare la marginalità cui è oggi relegata la rappresentazione di questi gruppi sociali.

Si tratta – volendo – anche di conquistare un mercato in espasione. Ma soprattutto si tratta di favorire forme di contaminazione espressiva, che – uscendo da una logica un po' paternalistica di rappresentazione dell'altro – creino uno spazio di scambio e di confronto all'interno della cultura nazionale, in cui valori e usanze possano reagire gli uni con le altre. Sarà traumatico e ci saranno tensioni. Ma – dopotutto - questa è l'integrazione.

Gli autori di Vorrei
Pasquale Cicchetti