Televisione e terremoto. Dalle immagini continue al respiro corto di una cultura in cerca di scorciatoie.

La televisione - diceva McLuhan - è un medium caldo. Nel linguaggio del guru canadese l'espressione indicava il carattere di alta definizione del flusso televisivo, flusso informativo che lo spettatore - semplificando - non deve sforzarsi di integrare con la propria partecipazione, per la semplice ragione che non ci sarebbe nulla da integrare.

Può essere che McLuhan abbia ragione. Ma va tenuto fermo che il carattere esaustivo1 dell'esperienza televisiva ha un fondamento ideologico. Esso implica in partenza l'esistenza una realtà televisibile, un oggetto la cui comprensione si dà solo attraverso la mediazione televisiva e per il quale la diretta - con la sua caratteristica unità di tempo e luogo - rappresenterebbe il non plus ultra dell'informazione.

Ora, l'esperienza del pubblico televisivo italiano è stata dominata, nelle ultime settimane, dal confronto diretto e serrato con la retorica della tragedia. L'esposizione televisiva di cui ha goduto il sisma in Abruzzo fa emergere - specie alla luce delle sue implicazioni politiche - l'esigenza di riflettere lucidamente sui meccanismi culturali di tale costruzione retorica.

La questione è intricata. Prendiamola alla larga: Los Angeles, 1992. A seguito di un discusso incidente, la città californiana viene sconvolta da una serie di scontri tra la polizia e le componenti ispaniche e afro-americane della popolazione. L'anno successivo Robert Altman firma una pellicola che proprio nella popolosa metropoli ricolloca, in un unico intreccio corale, nove racconti (e una poesia) dello scrittore americano Raymond Carver. Il film si apre sul rombo di motore degli elicotteri che sorvolano la città, spargendo insetticida, e si chiude - emblematicamente - sul rombo di una scossa di terremoto.

 

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Due eventi, gli elicotteri e il terremoto, che sembrano mettere in parentesi le frammentate vicende private dei personaggi che costruiscono il film. Vicende e relazioni minime, soffocate da un orizzonte costantemente chiuso, in un montaggio casuale di situazioni che lega queste esistenze l'una all'altra, rifiutando al contempo di inquadrarle in rassicuranti logiche causa-effetto. Esse restano Short cuts, per l'appunto. Scorci, frammenti, tagli brevi. Il titolo della pellicola pare svelarne la sintassi, la struttura compositiva. Ma l'ambivalenza dell'espressione inglese ci mette sulla strada di una lettura più sottile: shortcuts significa anche, paradossalmente, 'scorciatoie'. Verso cosa?

Torniamo a noi. I fatti abruzzesi interrogano la capacità della nostra cultura di comprendere al proprio interno eventi di portata traumatica: si tratta di tradurre l'esperienza in un segno culturale, dotarla cioé di un significato accettabile, in grado di iscriversi in una tradizione, fosse anche al fine di produrvi riletture e rovesciamenti di senso. Questa capacità di traduzione è anzi - secondo il semiotico della cultura Jurij M. Lotman - ciò che definisce la cultura come meccanismo di produzione della memoria sociale.

L'impressione è che - di fronte alla necessità di tradurre accadimenti dirompenti come una calamità naturale - questa funzione della cultura sia stata "espropriata" dal sistema della comunicazione, in particolare dalla comunicazione televisiva. Ma quest'ultima funziona secondo leggi proprie, e queste leggi sono quelle di cui si accennava all'inizio, per le quali - in sostanza - la visibilità istantanea dell'evento coincide con la sua conoscibilità, mettendo da parte la necessità di farne memoria, di assorbirlo in un sistema di segni culturali. Questo approccio a diffusione orizzontale si oppone con maggior evidenza al bisogno di verticalità, di ricollegare passato e presente, territorio ed esistenza privata.

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In questa prospettiva - riprendendo i fili - l'operazione altmaniana ci mette in guardia dalla tentazione di cercare una facile scorciatoia verso la definizione di un senso. I frammenti di reportage, la reiterazione visiva delle macerie, le interviste ad alta temperatura patemica, l'ossessione della diretta. Queste modalità del discorso televisivo stanno ai fatti abruzzesi come l'intricata costruzione narrativa delle vicende di Short Cuts stava al momento culturale che aveva partorito le rivolte losangeline, evocate implicitamente dallo stesso terremoto finale.

L'alternativa ci pone di fronte alla necessità - di per sé terribile - di elaborare e articolare in profondità esperienze luttuose, violente, assurde. Un compito difficile: ma «la cultura - scriveva Lotman - esiste fra l'altro per questo, per analizzare e disperdere i timori»2.


1Che - in verità - nella riflessione di McLuhan ha piuttosto un carattere sensoriale. La stessa distinzione in media caldi e freddi appare peraltro contraddittoria in altri passaggi.

2LOTMAN J. M., SEDDA F. (cur.), Tesi per una semiotica delle culture, Meltemi, Roma 2006.

Gli autori di Vorrei
Pasquale Cicchetti