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C

ome ha intrapreso questa carriera? Il suo avvicinamento alla fotografia ha seguito altre strade, prima di arrivare al fotoreportage?
Ho iniziato in una strana maniera: con la camera oscura. Mi piaceva vedere stampare le foto a casa di un mio amico, mi sembrava una cosa magica, tutta l’atmosfera è magica: la stanza buia illuminata da una luce soffusa rossa e, soprattutto, vedere come da un foglio bianco immerso nell’acido spuntava l’immagine. Tutto ciò mi affascinava e continua ad affascinarmi. Questo l’ho fatto per qualche anno, prima di iniziare a fotografare. Poi, in un primo viaggio in Marocco, compro una macchina fotografica: una Yashica F3X super, tutta manuale. Siamo nel 1984. Arrivo un po’ tardi alla fotografia, sono “vecchio” ma ho l’entusiasmo e la curiosità di un bambino, che si stupisce per le cose che vede attraverso l’obiettivo. E’ da li che inizio a fotografare in b/n. Fotografo tutto ciò che mi colpisce, che mi incuriosisce, soprattutto seguo la “luce”.

Quindi è più tardi che inizia a fare reportage.
Sì. Mi ricordo: il primo vero reportage lo faccio ad Agrigento. Insieme a un altro fotografo, Tano Siracusa, cominciamo un lavoro durato più di sei mesi all’interno dell’ospedale psichiatrico, documentando il disagio mentale, ma principalmente lo stato di abbandono in cui si trovavano i pazienti. È sconvolgente vedere i ricoverati che gironzolano nudi in spazi enormi o che stanno in mezzo all’urina e le feci, quel cattivo odore che le foto non ti trasmettono. Il reportage non riusciamo a venderlo. Così organizziamo una mostra denuncia e da li scoppia lo scandalo sull’Ospedale psichiatrico di Agrigento.

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Poi ha continuato a lavorare in Sicilia, giusto?
Esatto. A metà degli anni 90 inizio ad interessarmi all’immigrazione clandestina. E’ il perido dei primi sbarchi in Sicilia. Da li inizio una collaborazione con l’ANSA e per esigenze giornalistiche fotografo a colori. Nel 2000 inizio una collaborazione con una agenzia di Milano, seguo le vicende siciliane. Poi, per un periodo mi trasferisco a Milano, seguendo la cronaca milanese ma senza rinunciare a seguire le vicende sull’immigrazione clandestina in Sicilia. Fotografo a colori e in digitale, ma tutto ciò non mi gratifica e non mi da soddisfazioni. Nel frattempo continuo a fotografare in b/n, che è quello che più m’interessa, anche se è difficile vendere un reportage in b/n.

In tutto questo, immagino, avrà sviluppato anche un'idea sulla sua professione.
Quello che cerco di fare è di raccontare, con le mie immagini, storie e questioni sociali, situazioni di persone che non hanno “parola”, che vivono ai margini. La fotografia è prima di tutto un modo per conoscere e raccontare storie e persone. Per questo faccio fotogiornalismo. Io mi sento “un cane sciolto”: ho bisogno di andare da solo, fermarmi un’ora ad un incrocio, parlare, perdere tempo. A volte aspetti e non succede niente; a volte aspetti e, oltre alla luce per cui ti sei fermato, si innesca anche il resto.

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Quindi cosa è la fotografia per lei?
Il termine fotografia, per me, significa “scrittura con la luce”: io l'ho preso alla lettera. È quella scintilla che mi incastra in un luogo e mi obbliga a scattare finché non sono contento; oppure, incontro una persona, cerco di fare delle foto e non funziona, allora dico: ”seguila, sali con lui nella metro, sul treno… e aspetta che la foto ti scelga”, e magari poi sento qualcosa che mi dice di scattare. Adesso lavoro solamente con una Leica M6 con un 50mm summicon 1:2 e una contax g1 con 28mm, 35mm e 45mm, pellicola rigorosamente in b/n, T-Max 400 o Ilford HP5. Per me è importante che la macchina fotografica venga vissuta come un prolungamento del proprio corpo: di solito giro sempre con un solo corpo macchina e una sola ottica.

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Leggendo il suo curriculum si rimane come colpiti da un'impressione di nomadismo, da una specie di vocazione cosmopolita che mi ha ricordato la vecchia scuola documentaria britannica, quella di Grierson per intenderci. Mi pare insomma di cogliere l'idea che il fotogiornalismo descriva una specie di viaggiatore-osservatore, disposto a "cogliere" i sintomi delle realtà sociali con cui entra in contatto, senza però mai radicarsi in esse. È un'impressione sbagliata?
Forse si tratta di un modo per confrontarsi con se stessi. Nelle situazioni estreme devi confrontarti prima di tutto con te stesso, e quindi capisci se hai delle capacità o meno, perché non hai possibilità di replica, o di smentita. Non puoi sbagliare. E poi, la curiosità, il motivo primo che mi porta a muovermi per capire le cose e i fatti stando sul posto, guardando con i miei occhi e parlando con la gente. E, ancora, il pensiero e la speranza di riuscire a smuovere la coscienza di qualcuno attraverso le foto realizzate che raccontano fatti e aspetti legati al sociale, è già una gratificazione. Come per le persone, per me vale anche il posto. Mi sono interessato ai sud del mondo, e questo mi ha portato a viaggiare otto volte in Marocco, due volte in India e Nepal. Ho vissuto per un anno in America Latina, viaggiando tra il Perù, l’Ecuador, la Bolivia e l’Argentina. Mi spinge, come dicevo, la curiosità di conoscere e di vedere.

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Ha un progetto prima di partire, o segue l'ispirazione del luogo?
Mi ritengo un fotografo di “strada”. Cerco sempre di documentarmi sul posto dove vado, parto magari con un progetto, ma una volta sul posto l’abbandono, perché capita che leggendo su qualche quotidiano una notizia breve questa stimoli la mia curiosità. Come è stato, per esempio, in Perù, dove avevo letto una “breve” su un quotidiano sul ritrovamento di una fossa comune risalente al periodo di “Sendero Luminoso”. Questo mi ha portato ad Ayacucho per realizzare un servizio sulle vittime della violenza politica, realizzando una serie di ritratti ai parenti delle vittime. Non si trattava semplicemente di fare delle foto. E' stato per me umanamente emozionante, e spesso mi veniva la pelle d’oca a sentire le storie drammatiche e dolorose che queste persone mi raccontavano. Mi hanno fatto capire cos’è il “dolore” e la sofferenza. Oppure, un’altra storia che mi ha colpito, è stata tra La Bolivia e l’Argentina: avevo trovato una storia sui “paseros” o “uomini mulo”, quasi quattromila persone, tra cui donne, bambini e anziani che lavorano portando addosso sacchi di 70 chili, a volte anche due, da una frontiera all’altra per un dollaro al giorno; persone sfruttate che lavorano 12 ore al giorno senza alcun diritto. Tutto questo, per me, è stato sconvolgente. Mi sembrava un girone infernale. Sono stato li una settimana a cercare di capire perché tutto ciò possa accadere, persone che sfruttano i propri simili...

Esiste un metodo, una deontologia del fotoreporter?
A me piace concentrarmi su un luogo fisico, e, attraverso la sua rappresentazione, parlare anche di altro. Con la macchina fotografica voglio cercare di dare dignità a queste situazioni, cerco di esserci. Ed è anche fondamentale la buona tecnica, la sensibilità, l'originalità dello sguardo, l'onestà nel racconto: sono tutti elementi necessari che si esprimono al meglio se sono accompagnati da un lavoro giornalistico rigoroso, fatto di contatti, fonti e raccolta d’informazioni accurate. Un altro ingrediente fondamentale è il tempo: non si può pensare di cogliere il senso di una realtà sfiorandola superficialmente.

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Come si pone nei confronti della sua nazionalità: quanto pesa l'essere siciliano, italiano (o europeo) sull'occhio che sta dietro l'obiettivo?
Mah… non credo che sia importante la nazionalità, l’essere siciliano, italiano, europeo… Per esempio, è da un anno che vivo a Parigi… L’importante è “esserci”, essere presenti. Non so se è per il fatto di essere “siciliano”, ma una cosa a cui non rinuncerò a fotografare sono le feste religiose in Sicilia, dove il sentimento, la passione delle persone è ancora vivo, ed essere avvolti da questa atmosfera è molto eccitante. E’ un lavoro che porto avanti dagli anni ’80. Qualcosa di molto simile l’ho trovata e l’ho provata fotografando la Settimana Santa in america Latina.

Qualche tempo fa lessi un articolo di Hans Durrer circa una foto scattata in Iraq da Asne Seierstad e rifiutata poi dalle agenzie fotografiche. C'era tutto un discorso sull'importanza di avere foto non vagliate da nessuna censura e sulla necessità di domandarsi cosa accade fuori dal riquadro di ripresa. Secondo lei, esistono i limiti del visibile, in qualsiasi senso si voglia intendere l'espressione: pratico, etico, politico. Fin dove, insomma, si spinge il diritto di vedere, che credo sia altra cosa rispetto al diritto di essere informati?
Per quanto mi riguarda, non dovrebbero esserci censure per l’informazione e, meno ancora, per l’immagine fotografica. Le pongo una domanda io: è giusto ed eticamente e politicamente corretto mostrare le foto dell’impiccagione di Saddam Hussein, come è stato fatto nelle prime pagine di tutti i giornali e che hanno fatto il giro del mondo, e non mostrare le foto di migliaia di soldati americani uccisi in Iraq e in Afghanistan? Neppure le foto di cadaveri dopo gli attacchi contro le Twin Towers di New York? Per quanto riguarda Saddam Hussein, è una immagine rassicurante: dimostra che il “cattivo” è stato sconfitto, è morto, e che la “democrazia” è stata stabilita. Tutto ciò è falso. Mentre per i soldati caduti in Iraq e in Afghanistan, mostrare queste immagini significa dire che tutta la politica estera americana di “esportare la democrazia” è stato un fallimento, e ciò è poco rassicurante per l’America, potrebbe essere politicamente destabilizzante. Eppure queste immagini dovrebbero essere mostrate semplicemente per capire veramente l’orrore della guerra, immagini che, secondo me, non avrebbero bisogno di nessuna didascalia. Sono d’accordo con Elena Boille, photo editor di Internazionale, che in una intervista sostiene: “Le immagini tendono a rendere la realtà più reale. Se non ci fossero state le immagini delle torture di Abu Ghraib, il fatto sarebbe stato meno dirompente. Le foto che hanno raccontato il genocidio ruandese, lo hanno impresso per sempre nella nostra memoria, che si nutre di immagini fisse. La mancanza di immagini rende i fatti meno raccontabili a livello mediatico e meno memorizzabili a livello individuale. I disordini in Tibet offrono un esempio recente di come la mancanza di immagini o anche il filtro attraverso cui le immagini ci arrivano, condizionino la nostra percezione degli eventi”.

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Un'altra questione riguarda la qualità formale di questo tipo di fotografia. Come mantiene l'equilibrio tra l'aspetto estetico e quello (mi passi il termine) "documentario"? Il momento migliore per lo scatto è quello più rappresentativo o quello formalmente più bilanciato? È un po' come dire, se preferisce: si sente "autore" o "interprete" delle immagini che scatta?
Non è una questione di sentirsi autore o interprete. Hai una buona foto quando tutti gli “elementi” si trovano al posto giusto. Diceva Henri Cartier-Bresson che tutti gli elementi si devono trovare nello stesso asse: occhio mente e cuore. Oppure Robert Capa cercava sempre di essere il più vicino possibile alle situazioni che documentava. Infatti, sosteneva: se le tue foto non vanno bene, vuol dire che non ti sei avvicinato abbastanza. Per me bastano queste risposte.

Da ultimo, e un po' per curiosità: che ne pensa del giornalismo a fumetti (Joe Sacco, tanto per fare un nome grosso)?
Usiamo strumenti molto differenti: i fotografi, la pellicola, e i fumettisti come Joe Sacco, la matita. Mi sembra interessante l’operazione che ha fatto con Gorazde. Area protetta: l’importante è raccontare la notizia con onestà intellettuale, e lui ci riesce benissimo a raccontarla.

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Biografia.
Lillo Rizzo è nato a Racalmuto, in provincia di Agrigento, nel 1960. Inizia a fotografare nel 1984. Ha realizzato reportage in Italia, Marocco, Nepal, India, impegnandosi in un discorso di fotografia sociale che tuttavia non trascura gli equilibri formali, in un equilibrio tra ricercatezza e traccia che ne contraddistingue sia la produzione a colori sia quella in b/n. A cavallo tra il 2004 e il 2005 ha viaggiato in America Latina, percorrendo le strade dell’Argentina, della Bolivia, del Perú e dell’Ecuador. Attualmente vive a Parigi, come fotografo free-lance e globe-trotter.

Tutte le immagini sono pubblicate per gentile concessione di Lillo Rizzo / Photo 4

Gli autori di Vorrei
Pasquale Cicchetti