PJHarvey

Per la ventiduesima edizione del Festival Internazionale di Poesia “Parole Spalancate” la  musicista inglese PJ Harvey, ha interpretato la sua prima raccolta di poesie The Hollow of the Hand.

 

Un evento esclusivo. Poca promozione e qualche Vi preghiamo di rispettare la volontà di Polly Jean.
PJ Harvey sceglie un incontro per pochi intimi, fa sapere che non rilascerà interviste e che non autograferà dischi ma firmerà soltanto le copie di The Hollow of the Hand. Durante la serata niente foto o riprese, nemmeno con i cellulari, rigorosamente spenti.

Per l’occasione la sala della Casa della Cultura cambia aspetto. Via il tavolone, luci soffuse, il roll up della ventiduesima edizione del Festival Internazionale di Poesia “Parole Spalancate”, due leggii e un telo di proiezione.
Da parte del suo direttore Claudio Pozzani, una breve presentazione del Festival che si terrà a Genova dall’11 al 19 giugno, qualche ulteriore ammonimento sul codice etico da rispettare per non tradire i desideri di Polly Jean e alla fine appare Lei.
Nella sua magrezza spettrale sotto un lungo cappotto nero.

 

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Foto di Matteo Rovere

 

Un timido sorriso per un pubblico pluri-generazionale che la accoglie con calore e pochi passi decisi per raggiungere il leggio a sinistra. Sistemati i fogli rigidi di carta e assunta una posa plastica Polly Jean Harvey illustra brevemente i viaggi intrapresi con il fotografo e regista Seamus Murphy che hanno dato vita alla raccolta di poesie The Hollow of the Hand e al disco The Hope Six Demolition Project, uscito venerdì 15 aprile. Le tre destinazioni, il Kosovo, l’Afghanistan e Washington DC, corrispondono alle parti in cui è diviso The Hollow of the Hand, un libro che raccoglie i versi di PJ, le fotografie realizzate da Seamus nel loro viaggio e una selezione di altri scatti, a colori e in bianco e nero, degli ultimi vent’anni.

copertina THE HOLLOW OF THE HANDAlle prime parole di On a dirt road la sala ammutolisce.
Polly Jean non legge, dà solo qualche occhiata veloce.
Polly Jean interpreta i suoi versi mentre dietro di lei le fotografie di Murphy scorrono sullo schermo.  Al termine di ogni poesia Claudio Pozzani ne legge la traduzione in italiano.
Polly Jean guarda dritto davanti a sé e catalizza l’attenzione.

Ventiquattro poesie senza mai perdere il suo aspetto statuario. Due pause per bere un sorso d’acqua e un’altra per levarsi il cappotto. Il suo corpo esile sembra intrappolato nella maglia bianca dal collo alto che lascia nuda la schiena e mostra le sue ossa.
Asciutte, come l’interpretazione delle prime poesie.
D’un tratto l’esplosione.

Con An Initiation irrompe sulla scena un’altra PJ. La sua voce è ora più calda, modula il tono e il timbro, varia la velocità delle parole. È un pugno nello stomaco.
Non che alcune delle poesie precedenti non fossero già arrivate alle viscere. Anzi.

Avevano già colpito nel profondo gli interrogativi senza risposta di The Abandoned Village (Ho creduto di vedere una ragazza tra due pareti piene di crepe, l’ho cercata nella grande casa bianca (...) la buccia di una bambola di mais pendeva dal soffitto. Ho chiesto alla bambola cosa avesse visto (...) Ho cercato la ragazza di sopra. C’erano un pettine, dei fiori secchi, un gomitolo di lana rossa srotolato. Un albero di prugne si vedeva dalla finestra (...) Ho chiesto all’albero cosa avesse visto); o lo smarrimento di The Guest Room (Una colomba grigia vola in tondo sopra le rovine. Un aereo torna alla base. Un ragazzo canta alla colomba. Trasporta una bombola blu di gas. Dove me ne andrò? Non ho casa. Avevo un posto ma sono venuti degli ospiti e sono rimasti. Dove me ne andrò?).

O ancora l’indifferenza di fronte alla mano che mendica in The Hand (La gente oltrepassa la mano. Ci sono suoni di clacson e musica. La gente oltrepassa la mano che mendica. Tre ragazzi incappucciati piegano le braccia e schivano la mano, la mano che brilla nella pioggia. (...) La gente va e viene con gli occhi sui cellulari. Nessuno bada alla mano che si tende, scintillando nella pioggia).

Per non parlare poi di Chain of Keys, l’impotente attesa di un’anziana donna che cammina per le strade polverose stringendo tra le mani una catena con le chiavi di casa dei vicini che non faranno mai ritorno:

 

 Chain of Keys

 Fifteen keys hang on a chain.
The chain is old and forms a ring.
The ring is in a woman’s hand.
She's walking on the dusty ground.
The dusty ground's a dead-end track.
The neighbours won't be coming back.

Fifteen gardens overgrown.
Fifteen houses falling down.
Numbers painted on the doors,
posters on the locked-up church
in black and white, the recent dead.

Now all I do is wait, she says.

The woman's old and dressed in black.
She keeps her hands behind her back,
slips the keys along the chain,
worries them and worries them.
Imagine what her eyes have seen.
We ask but she won't let us in.

A key so simple and so small;
how can it mean no chance at all?
A key -  a promise, or a wish;
how can it mean such hopelessness?

Now all I do is wait, she says.
Now all I do is wait, she says.

 

Ma con le invocazioni a dio, i canti nel fango e i “corpi scuri dei bambini” che “giocano nel cimitero a piedi scalzi” di An Initiation la voce di Polly Jean invade la Casa della Cultura.
Sulla stessa scia, nella sezione dedicata all’Afghanistan risuonano la martellante Charikar (Deve esserci qualcosa nell’aria. Combattono dappertutto) e le richieste di un giovane mendicante che, con la “faccia butterata e scavata” schiacciata contro il vetro dell’automobile supplica i passeggeri in The Glass.

 

The Glass

A boy stares through the glass.
He’s saying,
Dollar, dollar.
Three lines of traffic pass.

We’re trapped inside our car.
His voice says,
Dollar, dollar.
His face against the glass.

I turn to you to ask
for something we can offer.
Three lines of traffic pass.

We pull away so fast
all my words get swallowed.
In the rear-view glass

a face pock-marked and hollow
that should be growing smaller
is saying,
Dollar, dollar.

It stares back from the glass;
I can’t look through or past.

 

La poesia di Polly Jean scava e descrive la realtà che si presenta al suo sguardo senza ricorrere a simboli e metafore.
«Ho cercato di scrivere in una forma semplice le similitudini tra Kosovo e Afghanistan» dichiara prima di introdurre la sezione dedicata all’ultima meta dei viaggi compiuti con Seamus Murphy:
«Abbiamo deciso di andare a Washington DC poiché molte delle decisioni riguardo a questi due paesi sono state prese lì».

E qui spicca Sight-Seeing, South of the River, non solo per l’impaginazione che ha nel libro (è la più particolare insieme a The Boy), o perché rimanda a The Community of Hope, secondo singolo e traccia di apertura di The Hope Six Demolition Project, bensì perché in questi versi si consacra la svolta politica di Polly Jean, già evidente in Let England Shake, di cui The Hope Six Demolition Project è il successore. Ma se nell’album del 2011, grazie al quale ha ottenuto il suo secondo Mercury Music Prize, era soprattutto il Regno Unito ad essere messo sotto accusa (E qual è il frutto glorioso della nostra terra? Il frutto saranno bambini deformi), ora lo sguardo critico si allarga a tutti i conflitti dell’Occidente.

 

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Foto di Matteo Rovere

 

Sight-Seeing, South of the River/ The Community of Hope ha già suscitato molte polemiche per la durezza e il sarcasmo con cui Polly Jean descrive l’Area Sette di Washington DC, uno dei luoghi interessati dal programma di riqualificazione urbanistica denominato Hope VI (Questa è la città della droga. Tutti zombie (...) Il sindaco ha piantato degli alberi. Vedete come è migliorata la situazione... Eccoci in un’altra strada di morte e distruzione... (...) La scuola è un cesso vero? (...) Questa è la Comunità della Speranza. Qui costruiranno un Walmart).
Ma nello stesso scenario sono ambientate anche altre tracce dell’album: The Ministry of Defence, Near the Memorials to Vietnam and Lincoln e The Ministry of Social Affairs.

 

 Sight-Seeing, South of the River

“Here’s the Hope Six Demolition Project and here’s Benning
Road, the well-known “pathway of death”. Here’s the I-HOP –
the one si t-down restaurant in Ward Seven. Nice. Okay, this
is drug town. Just zombies. Lotsa wig shops, lotsa baby-
mamas as they call ‘em. The Mayor planted trees. See how
the trees make it better… So here we are on one more
pathway of death and destruction… South Capitol – you can
take this baby all the way up to the dome. The school looks
like a shit-hole, right? Would you want to go school there?
Does that look like a nice place? Here’s the old mental
institution that’s gonna be the Homeland Security base.
Here’s the M. L. K. Deli, here’s God’s Deliverance Centre.
Okay, this is the border of Seven and Eight. Here’s the
Community of Hope. They’re gonna put a Walmart here”.

Per quanto PJ Harvey abbia voluto tenere separate poesia e musica, The Hollow of the Hand e The Hope Six Demolition Project hanno la stessa genesi e nel libro si trovano gli embrioni o i testi integrali di alcune canzoni.
Dalla poesia Where it begins nasce infatti il primo singolo The Wheel; The glass è l’ultima traccia Dollar, Dollar; mentre Chain of Keys, The Orange Monkey e Medicinals mantengono anche lo stesso titolo nell’album pur con qualche variazione nei testi.

E con Throwing Nothing il reading si conclude e lascia spazio agli applausi di un pubblico ammutolito e commosso.
PJ scompare.
Dopo qualche minuto la ritroviamo nell’atrio della Casa della Cultura. Ora sorride.
Firma le copie di The Hollow of the Hand e scambia due battute con tutti. Una guardia al suo fianco e un’altra vicino alla fila per gli autografi. Ancora nessuna foto.
Ma restano impresse le sue parole, i suoi gesti, i suoi occhi e la stretta di mano data con un sorriso.