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Charlie Hebdo e la diatriba satira sì satira no(n riuscita). Un po' di storia e riflessioni a mente fredda sulla satira e sul suo ruolo nella società moderna

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arà anche vero che i problemi sono ben altri, come si dice spesso, rispetto a una vignetta più o meno riuscita; tuttavia, il polverone sollevato dalle vignette di Charlie Hebdo sul sisma che ha colpito l'Italia centrale il 24 agosto ha suscitato nel Paese un dibattito su libertà di espressione e satira alquanto vivace. Almeno, su internet e reti sociali, anche se ben presto potrebbe infiammare pure i tribunali, italiani e transalpini.

Le principali posizioni contrapposte, in sostanza, erano due. Da un lato, si è sostenuta la bontà di tali vignette, capaci con una causticità irritante – e per questo efficace – di criticare aspramente il sistema italiano corrotto, un magna magna simboleggiato da pasta e lasagne. Satira granguignolesca, insomma, ma pienamente rispondente alla sua funzione di critica serrata e feroce del sistema.

Dall'altro lato, invece, in diversi hanno puntato il dito contro Charlie Hebdo, accusato di insensibilità e meschineria, quando non di sciacallaggio – usando i morti italiani per vendere copie attraverso disegni irrispettosi e per nulla satirici.

Entrambe le posizioni, in realtà, appaiono parziali, non del tutto incardinate sull'aspetto principale della questione, cioè che cosa sia la satira e quali siano i suoi scopi. Non da un punto di vista morale o – peggio – moralistico, ma soltanto in quanto genere artistico-letterario.

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Prima di riprendere la riflessione, allora, sarà il caso di chiederci: che cos'è la satira di preciso? In che cosa consiste? Quando nasce? E perché?

La satira nasce come genere letterario che si pone l'obiettivo di criticare il potere e censurare i costumi dei potenti e dell'intera società, senza esclusione di colpi e usando tutti gli strumenti a disposizione, anche il ridicolo. Curioso è che nasca nella società latina, in epoca imperiale, e non in quella greca: per convenzione, infatti, si parla del latino Lucilio come precursore e fondatore del genere nella sua caratteristica fondamentale: critica feroce sotto forma di aggressione personale. Almeno, stando a sentire Quintiliano e Orazio. Certo, in ambito greco qualcosa di simile lo aveva fatto Aristofane, che non perdeva occasione per ridicolizzare Socrate, per dirne una. Sul fatto che quella di Aristofane fosse compiutamente satira, però, qualche dubbio rimane.

In ambito latino, se Orazio fece della satira un elegante strumento di critica bonaria e leggera (con il potere, tutto sommato, non aveva cattivi rapporti), sono Persio e Giovenale a dare al genere quei tratti che tuttora noi moderni consideriamo imprescindibili: bando alle "conversazioni costruttive" con il lettore; benvenuta invettiva impietosa che tutto abbassa e distrugge, benvenuto linguaggio realistico (quando non proprio volgare e scurrile).

Che cosa criticano, questi autori? Quella latina è per prima cosa una satira di costume: sotto i colpi del poeta deve finire la degenerazione della società, la corruzione, il vizio, l'indegnità morale. Ancor di più, deve essere vituperato il fatto che tale corruzione sia premiata, mentre l'onestà e la virtù sono calpestate. Cosa che, ovviamente, non succedeva nei bei tempi antichi, quando c'era la Repubblica e la virtù era cercata e riverita (i nostalgici, come si vede, appartengono a tutte le età storiche).

I bersagli in sostanza sono tutti. Schiavi, ricchi, stranieri, cittadini, nobili, donne, omosessuali (questi ultimi due soprattutto per Giovenale): tutti danno il loro contributo al decadimento morale che inquina la società, ed è per questo che l'indignazione dell'autore satirico non risparmia neanche una di queste categorie sociali.

A questo punto verrebbe da dire: dov'è quindi che se la prendono con il potere? La satira di costume in realtà è sempre satira contro il potere: Persio e Giovenale se la prendono con il potere esercitato dalla società in cui vivono – fatta da quella gente lì – sulla loro vita di reietti, di emarginati, di clientes colti ma privi di autonomia economica: perché alla fin fine i due poeti questo erano. E, comunque, in una satira di Giovenale viene messo alla berlina anche l'imperatore insieme a tutto il senato, per dire.

I prodromi sono già tutti qui, anche se, nel corso del tempo, il genere si evolve, fra alti e bassi, e, soprattutto, cambia sponda. In che senso? Come si sarà notato, la satira nasce come retriva, reazionaria: a essere pianti sono i bei tempi andati (quando i treni arrivavano in orario). L'obiettivo morale della critica satirica non è contribuire a formare un mondo migliore, ma sottolineare che il mondo migliore è già stato perso.
Perché la satira diventi strumento che alla distruzione (della corruzione presente) affianchi la costruzione (di una società migliore), bisogna passare attraverso l'Illuminismo e la sua fiducia nel contributo che le arti e la cultura possono dare al progresso umano: è con questa base solida – tanto solida che dura tuttora nella mente di chi fa satira e di chi ne gode – che il genere diventa la lama affilata contro le storture della società. Montesquieu, con il suo "romanzo" epistolare Lettere persiane, critica la dissolutezza e la corruzione della corte parigina, usando l'espediente del punto di vista capovolto (le osservazioni sulla società francese sono poste da nobili provenienti dalla Persia); in Italia è emblematica la satira contro la nobiltà fatta da Parini nel poemetto in endecasillabi sciolti Il giorno, dove si mette in ridicolo e si denigra fortemente la tendenza di un'intera classe sociale a sperperare e sprecare non solo denaro e risorse, in spregio alla povertà, ma anche intelligenza e capacità, senza alcun pensiero verso la pubblica utilità.

Pian piano, inoltre, la satira si compone di altri pezzi, come per esempio il forte rapporto con il comico – poco importante per gli autori latini e invece vivacissimo nel precursore greco Aristofane. Già nel Seicento qualcosa in tal senso si era mosso, sopravvivendo carsicamente durante l'epoca dei Lumi. Certo, per molti lettori moderni, la chiave comica è l'unica possibile per la satira, e su ciò si sbagliano; pure, nel Novecento e fino ai nostri giorni, lo strumento della risata resta fra i più efficaci, di quelli a disposizione dell'autore satirico.

Questi spunti ci permettono di riprendere il nostro ragionamento: la satira dunque ha lo scopo di far ridere? Assolutamente no. La satira deve far riflettere sulla società, partendo dalla deliberata distruzione del proprio bersaglio. Se poi fa anche ridere, ben venga. Il bersaglio però qual è? Quale deve essere? Senz'altro il potere, inteso in senso ampio: i potenti, in prima battuta; in seconda battuta, bersaglio potrebbe essere l'insieme di comportamenti scorretti che – andando per la maggiore, essendo praticati in modo indiscriminato – corrompono la società. E come lo deve colpire? Con tutto l'arsenale a disposizione. La satira offende. La satira desacralizza. La satira picchia duro, per suscitare rabbia e indignazione. Le stesse che si suppone abbiano mosso l'autore satirico a pubblicare la propria opera, per censurare qualcosa che avverte come tremendamente nocivo per la società in cui vive.

Alla luce di queste considerazioni, che cosa pensare, dunque, delle vignette "incriminate"? L'intento satirico c'è tutto, questo è il primo punto da tenere a mente. Anche solo per la storia della rivista, non se ne può dubitare. Charlie Hebdo aveva l'obiettivo di far riflettere sul sistema italiano – ma potenzialmente europeo, per questo se ne sono voluti occupare – che fa prosperare loschi interessi, quasi sempre di costruttori, a scapito della salute o della vita stessa delle persone comuni.

Delle due opinioni contrapposte citate all'inizio, però («satira ben riuscita, infatti fa arrabbiare tutti» vs «non satira, ma anzi sciacallaggio»), fa specie che nessuna abbia tenuto a mente una terza possibilità interpretativa – neanche tanto inverosimile – cioè che quello di Charlie Hebdo sia stato un tentativo fallito. Un po' come un atleta di cui si conoscono le buone capacità, ma che stecca una gara. Succede.

20160913 Satira e Satira 2Perché diciamo che è un tentativo fallito? Si tratta di un rifiuto di ordine morale (non si deve cercare di far ridere e nemmeno fare satira sui morti)? No, non si tratta di questo. La satira moderna si è liberata dal moralismo che contraddistingueva quella di epoca latina, perciò giudicare secondo dettami morali non può portare lontano. Quello della rivista francese è un tentativo fallito perché in quei disegni non c'è nulla di ciò che si vorrebbe vituperare e censurare. Non c'è la mafia – tirata in ballo un po' come pezza d'appoggio valida per tutte le occasioni in cui si parla di Italia, peraltro – non c'è Renzi, non c'è Berlusconi, non c'è Andreotti. Insomma, in quei disegni non c'è il sistema. C'era nelle intenzioni, non nella realizzazione concreta. Si mostra il risultato, la gente che ha sofferto per via della malafede di amministratori e imprenditori senza scrupoli, ma è proprio sulle vittime che si applica il filtro del ridicolo, che si vuota il caricatore dell'offesa senza pietà.

I difensori dei vignettisti francesi hanno invocato, dal canto loro, la necessità di riflettere a fondo sui disegni prima di giudicarli di pancia, per comprenderne la reale intenzione. La satira, però, non è poesia contemporanea, non è prosa lirica. La satira è immediata, deve essere al tempo stesso sofisticata ma a prova di mistificazione. Per questo è difficilissima da realizzare. La riflessione profonda deve venire dopo aver letto/visto, non prima. Il nesso fra contenuto della vignetta e presunto intento di attacco al potere, nella sua forma di loschi interessi che fanno lasagne di persone innocenti, è dunque forzoso, posticcio. Non si sta dicendo che a monte non ci fosse un simile intento, ma solo che a opera terminata il colpo non è andato a bersaglio. E non lo ha fatto per un motivo alquanto semplice: per colpire i potenti si è rivolta la mannaia sui deboli, sulle vittime. Un errore che chi fa satira dovrebbe aver imparato da un pezzo a non commettere. Certo, anche Giovenale riservava strali a categorie sociali che noi definiremmo deboli: omosessuali e donne, per dire. Lo faceva però perché per lui quelle categorie sociali rappresentavano davvero un potere che contribuiva a rendere peggiore la società in cui viveva (le donne vituperate erano matrone nobili o addirittura madri di imperatori, per intenderci).

I detrattori, dal canto loro, hanno negato del tutto alle vignette l'appartenenza al genere satirico; in primo luogo, perché non fanno ridere; in secondo luogo perché non si fa satira sui morti. In realtà, le cose stanno esattamente al contrario di tutto ciò: la satira non deve far ridere, ma riflettere, e soprattutto deve poter riguardare ogni cosa, a maggior ragione la morte. Solo, senza dimenticarsi qual è il suo primo obiettivo: colpire e vituperare il potere, sotto ogni forma e con ogni mezzo.

Gli autori di Vorrei
Simone Camassa
Simone Camassa

Nato a Brindisi il 7 maggio del 1985. Insegnante di Italiano, Storia e Geografia nella scuola pubblica, si è laureato in Lettere, in Culture e Linguaggi per la Comunicazione e in Lettere Moderne, sempre all'Università degli studi di Milano. Suona la chitarra elettrica (ha militato in due gruppi rock, LUST WAVE e BLACK MAMBA) e scrive poesie.

Appassionato di sport, ha praticato il nuoto a livello agonistico fino ai diciotto anni, per un anno ha anche giocato a pallacanestro. Di recente, è tornato al cloro.
È innamorato della letteratura in tutti i suoi aspetti, dalla poesia fino al fumetto supereroistico statunitense. Sogna di realizzare un supercolossal hollywoodiano della Divina Commedia, ovviamente in forma di trilogia e abbondando con gli effetti speciali.

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