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Dossier: La Provincia di Monza e Brianza. L'intervento del segretario della CGIL Maurizio Laini al convegno del 15 ottobre 2012  «Non era meglio una riforma vera?»

 

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a carta delle Autonomie Locali: dalla riforma del Titolo V, al Federalismo, al riordino.

Fino a pochi mesi fa, il dibattito sul riordino delle Autonomie Locali era incentrato sul Disegno di Legge all’esame del Senato della Repubblica riguardante “Individuazione delle funzioni fondamentali di Province e Comuni, semplificazione dell’ordinamento regionale degli enti locali, nonché delega al Governo in materia di trasferimento di funzioni amministrative, Carta delle autonomie locali. Riordino di enti ed organismi decentrati”.

Un disegno di legge firmato (sembra una vita fa) da Calderoli, Ministro per la semplificazione normativa, Maroni, Ministro dell’interno, Bossi, ministro per le riforme e per il federalismo, Fitto, ministro per i rapporti con le regioni, Tremonti, ministro dell’economia e delle finanze, Brunetta, ministro per la p.a. e l’innovazione.

L’ultimo testo era stato approvato dalla Camera dei Deputati il 30 giugno 2010 e trasmesso al Senato il 2 luglio 2010.

Il Disegno di Legge, collegato alla riforma del Titolo V della Costituzione (2001), ha avuto un iter faticoso e particolarmente lento, complicato da un coinvolgimento della Conferenza Stato/Regioni e da un dibattito molto difficile con le rappresentanze di Comuni, Province e Regioni, appunto.

In cartella avete la ripresa dei primi articoli, fino all’indicazione delle funzioni delle province e dei comuni: giusto per segnare la distanza tra l’orientamento del dibattito politico in atto in Parlamento e le secche determinazioni del Decreto Monti che insiste sulla medesima materia, decreto detto “Spending Review”, che di fatto abolisce le province.

Il Disegno di Legge “Carta delle Autonomie Locali” provava ad allineare le funzioni e le titolarità; aveva cioè l’obiettivo di annullare le sovrapposizioni di competenze e di realizzare quel disegno di sussidiarietà verticale che faceva dei territori il primo livello di autonomia amministrativa e trasferiva, verso il basso, competenze e responsabilità; riservando via via ai livelli “centrali” le funzioni che espressamente non potevano essere esercitate a livello territoriale, ma avevano bisogno di una scala di intervento più vasta, di un coordinamento maggiore, di coerenze più impegnative.

Questo approccio era condivisibile, al di là del testo in discussione: un’idea di paese costruito su diversi livelli di governance, responsabili e dotati di autonomia.

Erano il portato di una cultura del decentramento, della valorizzazione dei territori e delle autonomie, di quel disegno di federalismo positivo, se vogliamo, che proprio dall’inizio degli anni 2000 aveva espresso egemonia nel dibattito politico su questa materia.

Proprio partendo da una giusta rivalutazione dei compiti e delle funzioni si poteva immaginare una revisione seria dei livelli dell’autonomia locale, della loro utilità e della loro dimensione (e quindi del loro numero).

Questa discussione non solo non è mai arrivata in porto, ma ormai da tempo risultava incagliata essendo in campo interessi politici, economici e sociali di sicuro rilievo.

E’ del tutto ovvio che una delle cause decisive di questo “incagliamento” è stata l’esplosione della crisi finanziaria prima ed economica poi in cui anche il nostro paese è precipitato.

La gravosità dei problemi finanziari ha sconvolto in qualche misura le priorità, indebolito le ipotesi di riforma limitandone la praticabilità.

Il problema delle risorse – oltre ad altri di natura più squisitamente politica - ha cambiato il corso del processo, portando già da tempo alle restrizioni della finanza locale e all’irrigidimento dei vincoli del patto di stabilità limitando di fatto l’autonomia e la capacità gestionale degli enti locali virtuosi e non.

 

Le responsabilità della politica: relativamente all’itinerario del codice delle Autonomie e allo spettacolo che in queste settimane dà di se.

In ogni caso un modo per fare una discussione sul riordino istituzionale c’era.

La necessità di razionalizzare il sistema delle autonomie è stata chiara fin dall’atto di compimento della riforma del titolo V della Costituzione.

La politica nel suo complesso ci si è dedicata dai primi anni 2000: ma la politica italiana su questa materia, come su tante altre, non ce l’ha fatta.

Il ritardo nella chiusura del percorso (dieci anni almeno) è tutto attribuibile alle modalità di discussione della politica italiana.

Il primo giudizio da trarre riguarda quindi l’incapacità della politica in Italia e dei Governi che si sono succeduti negli ultimi dieci anni di costruire una visione di paese condivisa; di affrontare il tema delle riforme necessarie con il rigore e la serietà che gli argomenti imponevano e la generosità di chi deve guardare al paese e alle sue reali condizioni prima che ai propri interessi.

Dieci anni almeno, prima della crisi, sono stati sprecati.

Oggi siamo lontani anni luce dalla discussione sull’attuazione del titolo V: al dibattito di merito su Regioni e Province si è sovrapposta l’immagine di una politica fondata sull’appropriazione indebita, sui costi gonfiati e impropri, su sistemi di corruttela e di clientela; addirittura sulla capacità della ‘ndrangheta di vendere preferenze e ottenere denari e affari in cambio.

La credibilità di un confronto dai profili Costituzionali “alti” si è dissolta in un rapporto tra cittadini e istituzioni fortemente compromesso.

Per i cittadini elettori le Regioni e le amministrazioni locali sono da punire e vengono facilmente equiparate ai costi della politica.

Non c’è bisogno di essere sindacalisti, di essere “addetti ai lavori” della politica per fiutare come la gente covi rancore, addirittura, nei confronti della politica; come sia infiammabile il clima nel nostro paese; come sia complicato affrontare questioni di merito politico o amministrativo con cittadini furenti e vessati da dal rigore a senso unico e calati – loro malgrado – nel ruolo di spettatori di evidenti degenerazioni.

 

La natura del Governo Monti:
l’Europa, la lettera della BCE, il fallimento della politica.

Il Governo dei tecnici è la presa d’atto che il fallimento della politica avrebbe potuto portare conseguenze irreparabili per il sistema Italia.

Anzi: la politica stessa si fa consapevole del proprio fallimento e si scansa, rassegnandosi a portare acqua – senza condizioni – a tecnici che fino a poco tempo prima facevano parte del board delle oligarchie finanziarie internazionali, che magari hanno contribuito a scrivere le lettere della BCE e che, alla fine, sono stati chiamati a gestirle.

Cosa c’entra questo con l’abolizione della provincia di Monza e Brianza?

C’entra: il dibattito democratico nel paese a detta di molti è stato sospeso; la politica, sul ring, è stata contata e non è stata in grado di rialzarsi; si sono susseguiti i decreti prendere o lasciare.

Il merito, le riforme, hanno lasciato il posto ad obiettivi di carattere finanziario cui il Parlamento non se l’è sentita di non aderire.

Il decreto cosiddetto “Spending Review” è una riforma?

No, è un taglio; secco, lineare, aritmetico. A prescindere dalla discussione su compiti, funzioni e titolarità.

Ed è stato regolarmente votato dal Parlamento.

Così come sono stati regolarmente votati il decreto “salva Italia” che ha tagliato le pensioni e inventato trecentomila esodati; così come è stata votato il decreto sul mercato del lavoro e via di questo passo.

Il Governo dei tecnici parla di riforme, ma la missione che si è assunto è evidentemente quella di gestire solo interventi di riduzione della spesa.

Non solo senza investimenti, ma senza idee vere di revisione, di ammodernamento, di attenzione alla crescita.

La CGIL ha aspettato pazientemente il momento per fare la discussione con il Governo: sulla riforma della pubblica amministrazione, sul recupero di efficienza e di qualità nella gestione della burocrazia e dei servizi e ha registrato solo tagli agli organici e agli stipendi dei pubblici dipendenti; sulla riforma fiscale, sull’alleggerimento del carico fiscale sul lavoro e sulla possibilità di ridare fiato ad un’economia in ginocchio e ad un dato occupazionale mai così negativo e non ha avuto risposte sullo sviluppo, sulla crescita, sull’occupazione.

Così il riordino delle province: avremmo voluto discutere di funzioni, di titolarità e democrazia, di criteri.

Abbiamo avuto un decreto prendere o lasciare e siamo alle viste del prossimo, della conclusione unilaterale del percorso.

 

L’intervento del Governo Monti: tecnico, finanziario, aritmetico.

Il Governo quindi adotta, sulla questione del riordino istituzionale, il medesimo approccio, tipico della sua esperienza, per fortuna pro tempore: taglia.

Lo fa invocando le richieste dell’Europa di risanare, ma anche di ridisegnare la complessità istituzionale del nostro paese.

Così come aveva fatto chiedendo esplicitamente modifiche all’art. 18 dello Statuto del Lavoratori, l’allungamento dei tempi di pensionamento delle donne e via di questo passo, vuole la semplificazione istituzionale.

Tant’è che ci si inventa un itinerario di una velocità strabiliante (sei mesi per dimezzare le province e ridurne le funzioni) passando sopra qualsiasi tentativo di dibattito.

 

Il giudizio degli elettori e la difficoltà di un dibattito di merito.

Obiettivamente mi sembra di vedere che ha gioco facile: il giudizio diffuso è che i tagli alle province sono tagli alla politica, ai costi della politica.

Sembra che il consenso al governo tecnico sia anzi ancora piuttosto alto.

Chi pensa di poter costruire un rapporto con la popolazione in difesa dell’Istituzione Provincia si sbaglia: sondaggi anche recenti confermano che è molto alta, assolutamente maggioritaria la quota di popolazione che considera l’abolizione delle province un primo passo verso la cacciata definitiva dei ladroni dal tempio.

E’ difficile, per chi non è addetto ai lavori, percepire la dimensione istituzionale della provincia: più facile difendere l’identità territoriale e la storia di comunità che, pure vicine, si son date battaglia fino a strutturare il proprio profilo e i propri confini.

Ma vedere cosa fa una provincia è difficile, al punto da non saperne declinare le competenze e le funzioni.

 

Il ritorno: la clausola di supremazia.

Del resto, che questo sia il clima (relativamente al giudizio sulla politica, giusto o mal orientato che sia) lo dimostrano i commenti al disegno di legge Costituzionale che il Governo ha presentato settimana scorsa: obiettivo la modifica del titolo V della Costituzione e il ripristino della “clausola di supremazia”.

E’ chiaro a tutti che si accelera l’inversione ad U nel processo di riordino istituzionale.

Quel che è nuovo e a favore di vento è che i giornali nazionali di tutti i colori salutano questa inversione con espliciti segni di giubilo: finalmente, ritorno alla ragione, fine dell’ubriacatura federalista, recupero delle anomalie…….

Forse è persino giusto pensare ad un rinnovato controllo dello Stato sulle regioni a statuto speciale; ad una ripresa di responsabilità dello Stato sulle decisioni in materia di grandi infrastrutture, di reti e impianti energetici di interesse nazionale.

Ma la svolta avviene a freddo e il dibattito è tutto da fare (se ce ne sarà tempo e occasione).

Certo è che con questo testo il Governo intende blindare i tagli agli enti locali e garantire efficacia indiscutibile alle leggi di stabilità; intende mettere al sicuro il riordino delle province e sottrarlo alla giurisdizione della corte costituzionale, così come intende sfoltire il contenzioso presso la corte relativo alle materie cosiddette “concorrenti” tra Stato e Regioni.

 

I criteri, il II livello, le funzioni.

Quindi: il decreto Spending Review intende dimezzare grosso modo il numero delle province.

Lo fa assumendo due soli criteri, due dati grezzi e obiettivi: popolazione e vastità del territorio.

E qui la provincia di Monza e Brianza ci resta, finisce la sua corsa.

Il Presidente Allevi (che difficilmente ha ragione) ha ragione a proclamare che è grave il fatto che non siano stati considerati criteri di carattere economico e sociale.

Non avrebbe ragione se intendesse “siccome Monza è ricca, a differenza delle province povere ha diritto ad essere conservata”, ma senza dubbio la considerazione della popolosità, della dimensione delle attività economiche e delle esigenze di politiche attive sul fronte economico e del lavoro sarebbe stata necessaria.

Il decreto però fa di più (e i giornali sono più distratti su questi altri due cardini dell’operazione): elenca in tre righe le funzioni delle nuove province (pianificazione territoriale, viabilità provinciale e edilizia scolastica) e trasforma le province in organismi di secondo livello.

Secondo l’ANCI Lombardia sono ben 169 (splittate) le funzioni che dalle Province verrebbero “restituite” alla Regione o (più difficilmente) ai Comuni.

Poi: niente elezioni, consigli e giunte, ma presidente eletto dai sindaci della nuova provincia.

In complesso l’operazione è quella di un trasferimento dei luoghi decisionali; la sostituzione di una governance territoriale, vicina alla gente e comunque vicina al bisogno, con una governance più lontana e meno esposta e visibile, probabilmente meno consapevole.

 

Tutte le province sono morte, anche quelle “salve”.

Va da sé la valutazione della CGIL su questo tema: tutte le province sono “morte”, non solo quelle soppresse o accorpate.

Anche quelle che festeggiano la propria “salvezza” sulla base dei criteri del decreto sono province declassate; saranno luoghi di confronto, di discussione (nel migliore dei casi), impotenti però di fronte a scelte che pure riguarderanno il governo territoriale.

Anche se (voglio dire) Monza e Brianza fosse conservata dopo il dibattito di domani in Regione e dopo l’atto risolutivo del Governo a fine ottobre o giù di lì (e dubito fortemente che ciò si verifichi) la nuova provincia di monza e Brianza sarebbe un’altra cosa.

Mortificata. Pressoché svuotata. Così le “salve” Brescia, Bergamo e Pavia.

Altro discorso merita la costituzione dell’area metropolitana di Milano: per il territorio corrispondente all’attuale provincia l’operazione è diametralmente opposta.

Per Milano si tratta non solo di mantenere le funzioni e le prerogative della vecchia provincia, ma di un obiettivo rafforzamento del ruolo del Comune metropolitano, cui si fa corrispondere una capacità programmatoria e di intervento necessaria e attesa da tempo.

Come sapete per Monza e Brianza l’ipotesi di un ritorno al passato sarebbe improponibile persino per sola accademia in quanto il DL nega in esplicito questa possibilità.

Certo, di deroga in deroga, di ridiscussione del testo in ridiscussione il Governo potrebbe riprendere in considerazione l’ipotesi di Monza nell’area metropolitana: mi sembra che le forze rappresentative del territorio siano in prevalenza contrarie a dire “abbiamo scherzato, riprendeteci con voi”, ma è chiaro che a quel punto – dopo aver verificato l’impossibilità di un accordo sul riordino – sarebbe solo il Governo a decidere.

 

La governance territoriale dei processi produttivi e sociali; le politiche attive per il lavoro; le funzioni “centrali”: prefettura, questura, agenzia delle entrate, agenzia del territorio….; l’intervento di tutela ambientale; la dimensione socio/sanitaria.

La CGIL esprime tutta la sua preoccupazione, quindi.

Perché qui, a Monza e Brianza, è in atto un percorso di valorizzazione dell’identità economica e sociale della comunità e del territorio.

Perché il progressivo “annusarsi” delle forze economiche e sociali, l’implementazione progressiva di funzioni istituzionali, la migliore definizione del rispecchiamento tra territorio e governance provinciale hanno cominciato a costruire maggiore consapevolezza e a suggerire piste di intervento concertato, soprattutto in materia di sistema economico e lavoro.

Qui non sono in discussione le scelte dell’Amministrazione Provinciale e la loro qualità.

Foss’anche pessima la prova che l’amministrazione Allevi ha dato di se il giudizio sulla provincia è il giudizio sulle potenzialità dell’Istituzione e sulla sua utilità.

Dovessimo correlare significato delle istituzioni democratiche e politiche di gestione o qualità degli uomini dovremmo chiudere il parlamento, in Italia, e dismettere le forme dello stato democratico.

Siamo invece preoccupati perché verrebbe a mancare un’interfaccia istituzionale e di gestione ad un percorso che negli ultimi tempi il mondo economico e sociale a Monza ha intrapreso.

E poi la preoccupazione va oltre: le provincie accorpate o soppresse vedranno declassata la presenza sul territorio delle funzioni cosiddette “centrali”: prefettura, questura, agenzia delle entrate, agenzia del territorio, direzione del lavoro, sportelli per l’immigrazione e via di questo passo……

Temiamo un indebolimento dell’accessibilità di queste funzioni istituzionali con problemi per i cittadini e l’indebolimento degli interventi legati alla missione di questi uffici.

Si può pensare come si vuole, ma per noi non avere un Prefetto vuol dire dover rinunciare ad un ruolo (spesso anche solo di moral suasion) a tutela delle regole e della trasparenza per i cittadini e le imprese.

Battaglie per la legalità, per la sicurezza, per il lavoro avrebbero dunque tutta un’altra dimensione, tutto un altro contesto.

Ma ancora: i sistemi di politiche attive per il lavoro, la formazione professionale pubblica e non, gli interventi di tutela ambientale, i servizi socio/sanitari promossi e coordinati su dimensione provinciale dall’ASL andrebbero ricollocati in reti di dimensioni diverse e governati in modo come minimo più centralistico.

 

I risparmi sui costi della politica e quelli sulle reti dei servizi.

Allora il sospetto nostro è questo: i risparmi attesi, i tagli, operati con il riordino delle province non insistono tanto sui costi dei consiglieri provinciali, delle giunte, della politica, come si pensa.

Le stime di risparmio su questa dimensione di spesa non sono trascurabili, ma certamente non risolutivi e il Governo Monti lo sa benissimo.

Il risparmio può venire solo da un intervento sulle reti dei servizi: c’è chi immagina una razionalizzazione necessaria dei servizi, chi apprezza l’ipotesi di un’utile contrazione di organici nella pubblica amministrazione, chi calcola economie di scala.

I tagli veri potrebbero essere quindi proprio ai servizi per i cittadini.

Il giubilo per i “tagli alla politica” potrebbe trasformarsi in una triste sorpresa per i cittadini elettori.

 

Il patto di stabilità e l’azzeramento delle risorse disponibili al governo locale.

Che del resto stanno già pesantemente soffrendo.

Su questo fronte la contrazione dei budget delle Amministrazioni Locali per effetto del patto di stabilità e i tagli massicci alla finanza locale hanno prodotto – negli anni del federalismo sbandierato, si badi – una contrazione dei servizi disponibili ai cittadini e un aumento cospicuo della pressione fiscale locale, compreso l’innalzamento di rette, tariffe e tickets.

Gli enti locali sono allo stremo e le ricadute sono spesso pesanti soprattutto sul welfare territoriale e gli investimenti.

La sensazione è che il combinato disposto della Spending Review – dei tagli, in volgare – alla sanità, alla scuola, alla finanza locale accompagni un progressivo ritrarsi del pubblico, al progressivo contrarsi dello stato sociale lasciando al mercato tout court e ai suoi costi la soluzione di bisogni anche primari dei cittadini.

Certo non è la riduzione delle province e delle loro funzioni a decretare la fine dell’intervento pubblico nel sociale, ma anche questo è uno step di quel processo.

Un’altra volta discuteremo dell’ineluttabilità di queste scelte e soprattutto della qualità dell’impianto progettuale nelle quali sono inserite: rimane che questo processo è sotto gli occhi di tutti..

Si chieda ai pensionati, alla crescente fascia di povertà, alle famiglie dei disoccupati (1/5 famiglie in Brianza conosce nel 2012 cassa integrazione, mobilità, disoccupazione…) quale percezione hanno dell’offerta di servizi in quest’ultima fase della storia del nostro paese.

 

Gli organici della PA e l’accessibilità dei servizi per i cittadini utenti.

La CGIL del resto considera lo Stato Sociale un’opportunità di sviluppo del paese; la riforma della pubblica amministrazione una risorsa verso la crescita del paese.

I tagli sono tagli di posti di lavoro, tagli di organici, tagli nella qualità del lavoro e nell’organizzazione del lavoro dei pubblici dipendenti che meriterebbero ben altra valorizzazione nello scenario di perseguimento della ripresa economica.

 

NON ERA MEGLIO UNA RIFORMA VERA?

Era meglio una riforma vera. Era meglio un percorso rigoroso ma attento al merito.

Un disegno di ricostruzione dell’economia del paese e della sua infrastrutturazione istituzionale.

Per quanto ci riguarda era meglio che Regioni, Province, Comuni fossero rivisti sulla base di funzioni individuate in modo razionale, di indicatori di efficacia attesa e di efficienza nei confronti dei cittadini.

Come ho tentato di dire in apertura, la CGIL ha considerato in questi ultimi anni e considera necessario un intervento di riordino istituzionale.

Non siamo per scatenare il diluvio universale (ammesso che qualcuno ne sia capace) sulle innovazioni in questo campo per tenere tutto com’è ora.

Si trattava di trasformare in opportunità scelte necessarie e di arrivarci con il percorso più corretto.

 

Invece il CAL: tavoli territoriali frettolosi, ipotesi Podestà, emendamento in CAL, deroghe.

Invece ci tocca una riforma istituzionale discussa per qualche minuto su tavoli territoriali con dubbio sbocco; di apprendere dai giornali l’ipotesi del presidente Podestà; di consumare in un’ora con un emendamento brillante, ma necessariamente estemporaneo, la richiesta di deroga per Monza e Brianza nuova provincia; di leggere – nei diversi deliberati dei Cal Regionali - della richiesta di deroghe per questo, per quello, per questo motivo o per quello; e chi non ne ha, di motivi?

 

Domani la Regione Lombardia.

Domani la Regione probabilmente discuterà la proposta del CAL della Lombardia.

Non ci è dato sapere l’esito della discussione.

E’ paradossale che a venti ore di distanza dalla decisione ancora sia così confuso lo stato del dibattito: si tratta di scelte rilevanti, non di nulla.

Il quadro delle posizioni politiche è frantumato, a occhio non ricomponibile in una proposta di sintesi capace di reggere il confronto con Roma.

Formigoni non sembra convinto della bontà della soluzione individuata, anche la sua passione per il tema sarà ancora più scarsa, visti i problemi per lui molto più seri da affrontare in questi giorni.

Anche se l’ipotesi di Monza Brianza nuova provincia in deroga fosse confermata e trasferita al tavolo del Governo, la mia sensazione è che non ci siano le condizioni complessive per tenere questa proposta viva.

I segnali suggeriscono che il Governo intenderebbe sostituirsi senza indugio (così come previsto dal testo della legge) alle reticenti proposte delle Regioni, decretando il rispetto dei criteri indicati e ridisegnando anche la Lombardia, così come le altre Regioni.

Il Governo non può permettersi una marcia indietro ed ha poco tempo per chiudere la partita.

E la politica lombarda, debolissima, ha scarsi margini di confronto: il tavolo è apparecchiato e rifare il menù sembra impossibile, a quest’ora.

La CGIL di Monza e Brianza preferisce il mantenimento della provincia.

Ma in subordine pensa ad un accorpamento con territori con un’analoga vocazione economica e sociale, primo fra tutti Lecco.

Per noi il sistema produttivo e il lavoro hanno un rilievo ovvio.

Per una volta condividiamo la posizione della CISL, che – dovendo per motivi suoi arrivare ad una ridefinizione delle strutture territoriali – ha già scelto l’accorpamento delle Unioni Sindacali Territoriali di Monza Brianza e Lecco.

Il consolidamento della soggettività del sistema economico produttivo di Monza e Brianza (rappresentato dalle categorie economiche, dalle organizzazioni sociali e dalle Istituzioni territoriali) rimane comunque un obiettivo.

Già le sinergie della Camera di Commercio con il territorio lecchese (e comasco, per la verità) costituiscono una traccia.

Sono stati sviluppati progetti comuni che poggiano proprio sulle caratteristiche economiche di Monza, Lecco (e Como) e sulle loro comuni vocazioni manifatturiere.

Vista da questo punto di vista la strada dell’accorpamento con Lecco potrebbe persino rivelarsi per Monza una buona prospettiva: per questo occorrerà presidiare il percorso facendo attenzione che la proposta della Regione Lombardia sia coerente con la situazione che abbiamo descritto e possa essere assunta realisticamente dal Governo e dal Parlamento.

Sarebbe una magra consolazione poter dire che il Parlamento ha avuto torto inventandosi soluzioni estemporanee a fronte di scelte unilaterali e sbagliate.

Non condividiamo il disimpegno dal tema sul tipo “facciano loro, noi siamo contro”…..

Duri, puri e irrilevanti.

Perché siamo convinti che in omaggio ai criteri e alla logica di nuove deroghe, avremmo davanti o la “grande provincia del Nord, con Como capoluogo (MB, LC, CO, VA) o il rientro nell’area metropolitana di Milano.

Soluzioni complicate da gestire e non certamente favorevoli agli interessi dei cittadini di Monza e Brianza.

 

CGIL e processo di revisione delle Province e dei servizi.

Al di là dell’annunciata disfatta, però, la CGIL è già proiettata su quel fronte che ho abbondantemente descritto: la battaglia della CGIL in Lombardia e della CGIL su questo territorio sarà tesa a difendere gli standard dei servizi per i cittadini.

E anzi intendiamo presidiare i luoghi delle decisioni e delle discussioni con l’obiettivo lavorare per semmai per la qualificazione dei servizi oggi esistenti.

Il vero nodo è questo: come il processo che è stato innescato possa essere trasformato in un’opportunità di verifica della risposta ai bisogni dei cittadini.

 

Nuovo Governo, nuovo quadro politico: una stagione nuova?

Del resto vorremmo essere ottimisti; vorremmo valorizzare quei segnali di novità che debolmente si affacciano sia sulla scena europea che su quella domestica.

Vorremmo sperare – mettiamola così – che il 2013 sia un anno di svolta e che con uno scatto di orgoglio il quadro politico possa dedicarsi ai problemi veri del paese.

Abbiamo bisogno di buona politica proprio perché continuiamo a ritenere che sia compito della politica indicare gli orientamenti, descrivere gli scenari, costruire le riforme, governare le difficoltà.

 

Per gentile concessione di Maurizio Laini - CGIL Monza e Brianza