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 Le aziende puntano sulla responsabilità sociale d’impresa e la sostenibilità per rivitalizzare il business. Ma per i critici è solo un ‘risciacquo verde’ dell’immagine. Il parere di due esperti.

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n cinese, la parola ‘crisi’ si rappresenta con due ideogrammi: uno significa ‘pericolo’ e l’altro ‘opportunità’. Ogni periodo di crisi, infatti, se da un lato mette a rischio certezze già raggiunte, dall’altro offre l’occasione di ripensare modelli e strategie. E la necessità di tagliare i costi e razionalizzare le risorse può spingere a usare la creatività per trovare soluzioni nuove.

Ecco dunque che proprio in questi due ultimi anni di incertezze socioeconomiche, quando non di vera e propria recessione, si sono imposti definitivamente all’attenzione del mondo imprenditoriale – ma anche del grande pubblico – due temi che avevano cominciato a delinearsi negli anni precedenti come lo sviluppo sostenibile e la responsabilità sociale. Come mai proprio ora? Perché le aziende, che la crisi ha spinto a cercare nuovi modi per tagliare i costi, si stanno finalmente accorgendo che sostenibilità e responsabilità sociale d’impresa (spesso indicata con il termine inglese Corporate Social Responsibility e il suo acronimo Csr) non hanno solo motivazioni ‘etiche’, ma anche risvolti economici molto interessanti da questo punto di vista. Per saperne di più abbiamo chiesto il parere di due esperti.

 

Pietro Betto è Business Deveolpment Manager di SAS, multinazionale Usa leader nelle soluzioni di business analytics e business intelligence, cioè i software e i servizi di consulenza che aiutano i decisori delle aziende a interpretare i dati, tracciare scenari e prendere decisioni informate. Al tema del sustainability management, ovvero la gestione della sostenibilità, SAS dedica da tempo grande attenzione ed è attualmente l’unica azienda del settore a proporre una suite completa per gestirne i diversi aspetti non solo valutando lo stato di fatto ma delineando le più adeguate azioni migliorative.

 

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Dottor Betto, perché le aziende puntano sempre più sulla Csr?  

“C’è innanzitutto uno stimolo normativo: a livello nazionale e internazionale, le legislazioni in materia sono sempre più severe e stanno esercitando sulle aziende una crescente pressione a monitorare in modo più puntuale gli indicatori di sostenibilità.”  

Dunque dietro a questa scelta c’è solo un obbligo di legge?

“No, non soltanto. Per alcune organizzazioni, il concetto di Sustainability Management presume una promozione di pratiche sostenibili che punta soprattutto a un immediato ritorno di immagine. Per altre implica l’adozione di innovazioni significative in termini di eco-efficienza, equità e partecipazione sociale. Altre ancora si concentrano nel promuovere e realizzare la sostenibilità attraverso una corretta gestione ambientale delle proprie attività. Ciò che può fare la differenza nella volontà di un’azienda di adottare seriamente pratiche sostenibili sta nella capacità di valutarne i vantaggi. Anche per quanto riguarda la Csr, ciò che si sta rilevando oggi, è una richiesta di conoscenza teorica e di strumenti operativi per poterne tracciare i benefici. Le aziende si interrogano su come e quanto le attività di CSR possano influenzare la catena del valore aziendale, creare valore e quali siano le best practice da adottare sul piano della comunicazione dei risultati ottenuti agli stakeholder e ai cittadini. Per questo noi ci siamo impegnati a fornire alle aziende uno strumento di analisi e valutazione completo, la nostra suite di Sustainability Management. Per applicare concretamente nel proprio business la Csr e poter prendere decisioni in merito è necessario raccogliere, analizzare e monitorare le informazioni e i dati disponibili internamente, ad esempio controllando il consumo energetico dell’azienda, lo stato dei propri dipendenti e la quantità di emissioni prodotte.”

Ha parlato di stato dei dipendenti. Quindi sostenibilità e Csr hanno a che fare anche con le persone e i posti di lavoro?

“Certo, in un’ottica di responsabilità sociale anche i lavoratori sono ‘stakeholder’, cioè portatori di interesse, dell’azienda. Non a caso in molte realtà si usa l’espressione ‘clienti interni’ per indicare i collaboratori: i lavoratori sono persone che scelgono di condividere con l’azienda un pezzo di percorso e quindi meritano lo stesso rispetto che si deve ai clienti.

E in che modo questo si riflette sull’occupazione?

“Un’azienda che alloca e gestisce in modo sostenibile le proprie risorse meno facilmente si ritroverà ad avere grandi numeri di dipendenti che diventano improvvisamente ‘superflui’. Se poi adotta anche politiche di Csr, tutto il percorso di selezione, assunzione e ritenzione delle persone sarà stato studiato in modo far corrispondere il più possibile le aspettative del singolo con le esigenze dell’azienda, minimizzando il rischio che un posto di lavoro sia a rischio perché non porta valore aggiunto all’azienda.”

 

 

Sul tema della Csr abbiamo chiesto un approfondimento a Riccardo Taverna, partner e fondatore di B2 Comunicazione, agenzia milanese specializzata nella valutazione e consulenza sulla reputation delle aziende, che ha istituito una divisione dedicata alla responsabilità sociale d’impresa.

 

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“Quando si parla di Csr – esordisce Taverna – l’accento cade quasi sempre sulla parola ‘social’, forse pensando con questo di dare maggiore risalto alla componente etica. Secondo noi, invece, l’accento va posto sulla parola ‘responsibility’, responsabilità. Se non si tiene sempre presente l’assunzione di responsabilità che esse implicano, le pratiche di Csr rischiano davvero di diventare solo una forma di ‘social greenwashing’, un modo di rinfrescare un’immagine aziendale magari un po’ appannata apparendo più ecologisti e più attenti ai bisogni delle persone. Affrontata da questo punto di vista, la Csr diventa automaticamente anche sostenibilità, perché chi si impegna a gestire le risorse in modo responsabile certamente non le spreca, e questo alla fine genera anche un ritorno economico”.

 

E che cosa dovrebbero fare le aziende in concreto?

“Non si tratta di inventare niente di astruso. In realtà la responsabilità sociale per alcune imprese è sempre esistita, solo che non si chiamava così. Mi vengono in mente alcuni esempi storici. Come Crespi d’Adda, il villaggio operaio voluto dall’omonimo industriale tessile alla fine dell’800, dove gli operai avevano case singole, scuola con libri gratuiti, assistenza sanitaria, impianti sportive e perfino un teatro e una stazione dei vigili del fuoco. Tutto questo aumentava la produttività, certo, ma restituiva alla comunità una parte importante del valore aggiunto sotto forma di diverse forme di supporto, assistenza e miglioramento della qualità della vita. O come l’esperienza di Adriano Olivetti o quelle, negli Usa, di Henry Ford e della Johnson & Johnson che, nel 1943 in pieno conflitto mondiale, si preoccupava di codificare comportamenti responsabili nei confronti dei propri stakeholder.”

 

E oggi?

“La Csr oggi ha un taglio più organizzativo: è una modalità di gestione dell’azienda attraverso la quale si tiene conto con ‘buon senso’ delle istanze e delle aspettative degli stakeholder tutti. Ha a che fare con la qualità, con l’innovazione e l’efficienza dei processi, con la valorizzazione del territorio, delle comunità locali e del capitale umano … e con il concetto di governance allargata: la Csr comporta l’ascolto degli stakeholder, il fatto di prendere degli impegni nei loro confronti e quindi di darne rendicontazione periodica.

La Csr non solo afferma la reputazione dell’azienda, ma rafforza la sua posizione sul mercato e contribuisce a creare valore. In questo senso, la Csr e la sostenibilità sono assimilabili. L’azienda è sostenibile se lo è dal punto di vista economico, sociale e ambientale, le tre dimensioni della rendicontazione secondo un parametro internazionale noto come la Triple Bottom Line”.

Che cosa significa questo per i lavoratori?

“Per essere efficace, la Csr deve essere diffusa a ogni livello dell’azienda e quando questo accade tutti i collaboratori ne ricevono direttamente o indirettamente dei benefici. Inoltre bisogna considerare che, specialmente nelle aziende più grandi, il fatto stesso che una società decida di adottare pratiche sostenibili sfocia spesso nella loro istituzionalizzazione in funzioni dedicate, che quindi generano posti di lavoro. Che, pur non essendo numerosissimi, di solito un responsabile e qualche assistente o collaboratore, sono comunque un segnale importante in un momento di crisi occupazionale”.