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Ogni governo che prende il posto del precedente si sente in dovere di introdurre una qualche riforma nella scuola. Il punteggio finale degli studenti viene costruito un po’ diversamente, la prima e la seconda prova scritta vengono un po’ modificate, sparisce del tutto la terza prova, la più temuta. Il colloquio orale partirà da un tema, problema, testo, immagine o altro di possibilmente trasversale alle materie, estratto a sorte dallo studente chiamato a scegliere tra tre buste chiuse: la uno la due o la tre.

“Prof ci stanno cambiando l’esame di Stato quattro mesi prima, è normale?” Il prof sa che non è normale ma non lo dice: “Tranquilli, vi va bene, sarà più facile”.

Da parecchie legislature a questa parte ogni governo che prende il posto del precedente si sente in dovere di introdurre una qualche riforma nella scuola. Il bersaglio è facile, il boccone è ghiotto: ormai non c’è nessuna categoria più rassegnata, passiva e fatalista degli insegnanti. All’insegnante si può imporre qualsiasi provvedimento, si sa che non reagirà. Anzi, si metterà ad eseguirlo con zelo. Sui motivi di tale ostinata arrendevolezza bisognerà pur tornare. Magari 30 anni di corsivi del Corriere e di studi della Fondazione Agnelli hanno convinto gli stessi docenti, oltre che tutti gli altri, di essere degli scandalosi fannulloni pieni di privilegi.

Ciò che tutte queste piccole riforme hanno avuto in comune è di evitare accuratamente di affrontare la questione dell’istruzione in modo organico, complessivo.

Ciò che tutte queste piccole riforme hanno avuto in comune è di evitare accuratamente di affrontare la questione dell’istruzione in modo organico, complessivo. Si tagliano due ore di là, si aggiungono due abilità di qua, si cambia il POF in PTOF. Ma in fondo meglio così che una vera riforma dei cicli e dei programmi fatta a colpi di tweet, like e sondaggi.

Il risultato è che sul vecchio impianto della scuola gentiliana si accumulano rattoppi spesso privi di coerenza logica, con le scuole a rincorrere affannosamente l’ambizione di fare troppe cose diverse e tutte insieme.

La legge sulla “Buona scuola” del 2015, tra le altre misure, prometteva per gli anni a venire sostanziali cambiamenti nell’esame conclusivo degli studi secondari superiori. Le forze attuali di governo, che pure in campagna elettorale ne avevano garantito l’abrogazione in toto, si sono applicate per dare attuazione alla riforma renziana.

E dunque la maturità cambia ancora: il punteggio finale degli studenti viene costruito un po’ diversamente, la prima e la seconda prova scritta vengono un po’ modificate, sparisce del tutto la terza prova, la più temuta. Il colloquio orale partirà da un tema, problema, testo, immagine o altro di possibilmente trasversale alle materie, estratto a sorte dallo studente chiamato a scegliere tra tre buste chiuse: la uno la due o la tre. Una parte dell’orale riguarderà i PCTO che sostituiscono l’ASL (quando qualcuno libererà la scuola dalla grandinata ininterrotta di acronimi e di termini economicistici sarà ormai troppo tardi), un’altra parte su vaghi argomenti di Cittadinanza e Costituzione. Infine, ed è qui la chicca, il D.M. del gennaio 2019 recita: “La Commissione cura il coinvolgimento delle diverse discipline evitando una rigida distinzione tra le stesse”. In didattichese, linguaggio che per fortuna i più ignorano, questo passaggio suona inequivocabile: si intima ai docenti di non insistere in richieste di conoscenze disciplinari, di astenersi, di accontentarsi di ascoltare quanto belle interessanti e formative siano state le esperienze di alternanza scuola-lavoro (già ASL, ora Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento, PCTO), le competenze di cittadinanza, le competenze insomma.

Ciò che conta oggi, si dice, non è il sapere, ma il saper fare, il saper essere. Avere l’atteggiamento giusto in una situazione, in una discussione, lavorare in gruppo (taluni dicono in team) sull’obiettivo. Il problem solving.

Da una decina d’anni, infatti, si è fatta strada al Ministero dell’Istruzione la convinzione che nel mondo iperglobalizzato ipercompetitivo ipervelocizzato iperdigitalizzato e via andare, per stare al passo gli studenti debbano acquisire competenze, non già conoscenze. Ciò che conta oggi, si dice, non è il sapere, ma il saper fare, il saper essere. Avere l’atteggiamento giusto in una situazione, in una discussione, lavorare in gruppo (taluni dicono in team) sull’obiettivo. Il problem solving. I nemici da battere? Gli stessi di sempre: il nozionismo, le conoscenze solo teoriche, l’imparare a memoria (?). E allora giù con corsi di aggiornamento, nuove programmazioni, nuove valutazioni; “valorizzare le esperienze”, “dare compiti di realtà”. Compiti di realtà? “Sì, per esempio dare ad un gruppo di studenti l’incarico di scrivere una breve guida turistica della città”. Ah ok. E poi l’immancabile “mettere al centro della scuola lo studente”, non sia mai che qualcuno lo voglia spostare. “Il docente non deve trasmettere conoscenze ma essere tutor, regista, facilitatore di apprendimenti”. Una nuova ideologia.

Se non che cominciano a levarsi alcune grida allarmate, flebili, isolate. I soliti catastrofisti, si sa. Sempre ostili ad ogni novità. Ma se tra questi vi sono docenti come Salvatore Settis allora forse vale la pena fermarsi un momento a riflettere: non sarà che la scuola così tirerà su ottimi esecutori di procedure operative invece che cittadini liberi? Individui ben addestrati ma privi di spirito critico? Comprenderanno il mondo in cui sapranno nuotare bene? Perché ridurre programmaticamente il bagaglio culturale di un giovane? E siamo sicuri che fare sia sempre meglio che pensare?

Anche perché chi prima di noi si è buttato sulle competenze non appare più così convinto: in un rapporto del 2018 l’ente nazionale americano di valutazione (il nostro Invalsi) denuncia che gli studenti statunitensi, abituati per anni a decodificare e rispondere a test standardizzati, comprendono poco nella lettura di un brano di media difficoltà, non sanno quasi più nulla di storia e di scienze, sviluppano un lessico e un bagaglio culturale sempre più ridotto. Quindi consigliano al governo USA un ripensamento.

“Prof ma che ci sarà nelle buste? Usciranno le FAQ del Ministero sull’orale?” “Sì, usciranno. Non vi preoccupate, il colloquio sarà solo una chiacchierata”. Lo dico tutti gli anni, ma quest’anno di più.

 

Immagine tratta dal film “La scuola” di Daniele Lucchetti del 1995

Gli autori di Vorrei
Giuseppe Perinei
Giuseppe Perinei
Giuseppe Perinei ha 44 anni. È nato ad Altamura e vive a Milano, dove insegna filosofia e storia in un liceo