20210506 monza



Recentemente, discutendo sulla bozza di volantino del Coordinamento delle Associazioni di quartiere che invita a partecipare a un presidio dinanzi al palazzo comunale di Monza contro la colata di cemento che si sta riversando sulle poche aree libere della città, nel punto del volantino in cui si auspica “una città più vivibile”, ho proposto di aggiungere a “vivibile” la parola “attrattiva”. E questo per contrastare l’accusa che ci viene rivolta di proporre una città immobile e chiusa in sé stessa. Alla fine si è deciso di non aggiungere quella parola, non perché oggettivamente piuttosto brutta, ma perché usata proprio dai cementificatori per giustificare le nuove costruzioni. Cosi la parola “attrattività” segue le sorti di un’altra parola scottante: “Identità”. Sono parole sostanzialmente sequestrate dalle destre, come a suo tempo fece Berlusconi con l’espressione “Forza Italia”.


Io non accetto di sottostare a queste manipolazioni demagogiche, queste appropriazioni indebite di parole ed espressioni. Ma tutti coloro che si definiscono “di sinistra” dovrebbero reagire. Riappropriarsi delle parole non è solo una questione formale, incide sulla sostanza di visioni politiche nuove e lungimiranti da proporre alle persone e alla collettività. In particolare per quanto riguarda la parola “identità”, non è accettabile che venga intesa con il significato di chiusura, di esclusione, di primato di chiunque su chiunque altro (“America First”, “Prima gli Italiani”, versioni moderne della “razza ariana” nazifascista). La parola “identità” usata in questo senso implica aggressività, violenza, premessa di distruzione reciproca.


In realtà il significato del termine è diverso, anche se complesso. Perché senza l’identità, costruita nella storia e sempre in evoluzione, non si è nessuno, e non si dialoga e ci si confronta con nessuno. A qualsiasi livello e declinazione, personale, famigliare, cittadino, lavorativo, sociale, globale. Culturale, sportivo.
Per spiegarmi meglio, forse è utile che pubblichi il testo seguente, con cui ho risposto a un questionario sul “dopo la pandemia”, proposto nel marzo del 2020 da Piero Bassetti, Presidente della Fondazione Bassetti e primo Presidente della Regione Lombardia nel 1970: 


«Essere glocal significa riuscire a realizzare congiuntamente il massimo coinvolgimento del singolo abitante del pianeta e il massimo di convivenza civile globale, nelle relative forme sociali e istituzionali»

 

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A questo scopo credo che sia necessario ispirarsi a un nuovo principio di sussidiarietà globale, principio che ha radici millenarie, laiche e religiose, ma che dovrebbe essere concepito come aperto, dinamico e flessibile, per governare le identità e le conflittualità che si manifestano a tutti i livelli in quanto insite nella natura umana. Tenendo conto del fatto che il gioco delle vocazioni, delle capacità, delle competenze e anche dei rapporti di potere e dei privilegi costituiti crea disuguaglianze che spetta alle istituzioni rendere compatibili e funzionali alla libertà di tutti, intesa come bene indivisibile.


Dialogo continuo per conciliare le diverse identità, che hanno di per sé una straordinaria resilienza storica, ma che vanno tutelate e valorizzate nella misura in cui non siano arroccate, ma aperte agli apporti esterni, senza il timore di esserne snaturate ma anzi nella fiducia di esserne arricchite. Occorre fare in modo che le identità, i sensi di appartenenza e i loro conflitti siano più vicini ai commerci e agli sport (pensiamo a una squadra di calcio, dove conta il tocco del piede e non il colore della pelle) che alle guerre. Meglio ancora, che ogni persona divenga portatrice consapevole di diverse identità, convergenti ma anche contraddittorie nella complessità di ogni essere umano, e variabili nel tempo. Il massimo risultato sarebbe la soluzione di conflitti come quello arabo-israeliano, grazie alla acquisita consapevolezza che le rispettive identità non verrebbero mai meno se la loro convivenza si realizzasse in uno stato non confessionale, anche in presenza di matrimoni misti.


Credo che le rivoluzioni tecnologiche, l'affermarsi di sistemi reticolari in tutti i campi dell'agire umano, dallo scambio di informazioni alla distribuzione di energia, non possano far venir meno il principio di sussidiarietà. Anche le reti sono e dovranno essere governate per assicurare un ragionevole equilibrio tra doxa (opinione) e episteme (conoscenza, competenza). Come sperimentiamo oggi, nessun sistema informatico o progresso nell'intelligenza artificiale potrà sostituirsi ai parlamenti, cioè ai luoghi dove si parla al di là degli strumenti».

 

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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