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Dossier: La verità, vi prego, sulla politica. Come venti anni fa, esiste il rischio di andare  incontro a una nuova lunga crisi dei partiti, sostanzialmente a una Terza Repubblica che speriamo sia meglio della Seconda,  rivelatasi  peggio della Prima.

 

A gennaio dell’anno scorso, dopo la caduta di Berlusconi e il passaggio di mano del governo dai  partiti tradizionali a un governo tecnico, avevo mandato ai democratici del Circolo 6 di Monza, di cui faccio parte, una nota per un dibattito che non c’è stato.

Siccome credo che le mie considerazioni di allora valgano, per quel che valgono, anche per altri partiti, e siano ancora abbastanza attuali, oso riprenderle con qualche snellimento.

Rifare i partiti. 

È già accaduto venti anni fa: dopo anni di contrapposizioni spesso puramente  ideologiche o  strumentali, di politiche scriteriate (vedi l’aumento del debito pubblico),  con corollari di sprechi, malversazioni, corruzione diffusa, i partiti italiani hanno gettato la spugna, ricorrendo  ai cosiddetti tecnici: cioè a persone considerate all’altezza, a differenza dei cosiddetti politici, di rimediare al mal fatto e a rimettere la barca della polis in condizioni di galleggiare e di navigare.

Come venti anni fa, esiste il rischio di andare  incontro a una nuova lunga crisi dei partiti, sostanzialmente a una Terza Repubblica che speriamo sia meglio della Seconda,  rivelatasi  peggio della Prima.

L’insegnamento dovrebbe essere semplice: i partiti hanno fallito, venti anni fa come adesso,  in quella che è forse la loro principale ragion d’essere: quella di selezionare oi aristoi, i migliori, i più capaci di guidare la cosa pubblica.

Se questa è una loro funzione costitutiva (oltre a quella di elaborare proposte per il bene comune), debbono  chiedersi: come riuscire  a svolgerla in futuro, per non fallire di nuovo dopo anni di turbolenza interna ed esterna?

Penso che per farlo debbono trasformarsi da associazioni chiuse, introverse,  in associazioni aperte, estroverse. Debbono superare il loro  stato di separatezza dalla società civile,  mascherato da una ricerca di un consenso misurato dai sondaggi di opinione, e quindi di corto respiro.

I partiti debbono liberarsi di coloro che li considerano come  strumenti  di carriera politico/economica, di arrampicamento (e non di promozione) sociale, e come uffici di collocamento collaterale di arrampicatori falliti.

Allargando al massimo il coinvolgimento di cittadini, interessando il maggior numero possibile di essi  alla politica, i partiti potranno  selezionare, all’esterno o anche al loro interno, i migliori da proporre agli elettori  come leader, come classe dirigente  aperta a un continuo ricambio.

La mia non vuole essere   una condanna indiscriminata della classe politica attuale. Non dirò mai “sono tutti uguali”, perché non è vero e perché il dirlo fa il gioco proprio dei peggiori. Dirò di più: penso che il PD, nonostante e forse proprio per la sua dialettica interna e per il suo sforzo evolutivo (vedi ad es. le primarie), sia “in pole position” rispetto agli altri nella gara per diventare un soggetto politico nuovo. E’ però necessario far sì che  a tutti i livelli, di fronte all’evidente insufficienza attuale  del sistema dei partiti,  cresca il numero di   persone capaci di far tesoro  dell’insegnamento del passato, consapevoli della necessità della conversione  (che consiste, lo ripeto, nella  trasformazione dei partiti  da associazioni chiuse in associazioni aperte), e motivate  ad impegnarsi  per la realizzazione di questo obiettivo.

Ma perché la loro azione abbia  prospettive di successo è necessario che il  sommovimento  parta dal basso. Nel caso del PD,  dai circoli.

Troppo spesso   i circoli, invece di cercare di attrarre  il più gran numero di persone all’impegno sui problemi della cosa pubblica, si comportano come   diramazioni periferiche di vertici preoccupati soprattutto  di tenere sotto controllo l’opinione pubblica. Troppo spesso anche i circoli si riducono a conventicole di poche persone, sempre le stesse, impegnate per lo più  nella  trasmissione di ordini provenienti dall’alto, dedicando troppo poco  tempo ai  problemi locali e troppo a conversazioni poco informate e inconcludenti  sui massimi sistemi. Troppo scarso è il loro ruolo di antenne/sensori/allarmi  periferici del partito,  la loro azione di denuncia dei problemi reali del territorio,  di coinvolgimento dei migliori,  di proposta, di controllo severo dell’operato degli eletti alla gestione della cosa pubblica, di critica costruttiva verso i vertici del partito.

I partiti debbono prendere lezione  dalle tante  e benemerite  associazioni non profit, diventare organizzazioni volontaristiche, con severe regole interne ed esterne di trasparenza e di rendicontazione. Debbono vivere dei contributi dei loro soci, pubblicamente dichiarati, che saranno tanto più consistenti  quanto più l’essere iscritti a un partito apparirà degno, meritevole e motivante. 

Sarebbe ingenuo non tenere conto del fatto che la politica è sempre stata e sempre sarà un intreccio tra potere e servizio, e che i partiti sono il luogo principale di questo intreccio, il luogo dove più forte si manifesta la  lotta tra coloro che vogliono  mettere il potere al servizio della polis, e quelli che vogliono  mettere la polis al servizio del potere.

Occorre fare tutto il possibile perché i  primi prevalgano  sui  secondi.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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