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Dossier: Di che tribù sei? Per i non addetti ai lavori, varcare la soglia delle sale prova è come entrare in un luogo sacro dove si rivelano i segreti del mondo magico (ma a volte disperato) dei musicisti. Un mondo a sé stante, con linguaggi e rituali propri

 

I

l luogo incantato è l’area antistante uno degli studi di registrazione e prove di Monza. Vicino ai cancelli e nel cortile, i gruppi musicali, a qualunque categoria appartengano, siano essi composti di giovanissimi interpreti o da attempati professionisti, sono riconoscibili all’istante: loro, i musicisti, sono esseri unici, accomunati al resto del branco da quel grande universo che è la passione per la musica. Gli strumenti che li accompagnano, portati spesso con finta noncuranza e trascuratezza, in pesanti custodie blindate, sono i loro segni distintivi, ancor più del tipo d’abbigliamento sfoggiato.

Uniche eccezioni sono i gruppi darkpost-punk che esibiscono trucco pesante, vestiti rigorosamente neri o viola scuro e fantasiose acconciature; oppure quelli metal, dai capi in pelle nera, borchie e catene vistose. Per tutti, ogni giornata trascorsa a provare i pezzi equivale a un trasloco di strumenti musicali, stivati nelle auto: chitarre, bassi, parti di batteria, microfoni personali, computer, tutti oggetti freddi, bui e inanimati che prendono vita e luce appena varcata la soglia.

 

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Come in un grande suk, le sale di prova e registrazione sono un crocevia infinito e variopinto di gruppi musicali, ci trovi professionisti già affermati in campo discografico e band i cui brani non diverranno mai prodotti finiti o che saranno destinati ad un mercato di nicchia. Quello che emerge è il clima di assoluta semplicità e complicità con cui i musicisti e i cantanti interagiscono fra loro: lo scambio di battute, di consigli tecnici e di informazioni è prassi usuale; l’artista affermato che si sofferma ad ascoltare un assolo di un giovane sconosciuto non stupisce.

Nel grande insieme musicale s’intersecano tanti generi sonori, ognuno regolato da norme d’uso e riproduzione, norme che in realtà finiscono per essere spesso semplici trasgressioni a quelle di altri generi. Ci sono gruppi che nascono e si sciolgono nel giro di poco tempo, altri in cui i musicisti collaborano con più band, altri ancora che formano sodalizi che durano una vita, come grandi famiglie allargate per le quali le prove e i concerti sono solo l’epilogo di tante altre esperienze vissute in comune.

Una larga fetta della tribù dei musicisti è formata dalle tribute band, artisti che condividono la passione per gruppi già famosi, al punto tale di ricercare la perfetta riproduzione dei suoni e la cura maniacale dei dettagli: abbigliamento, voce del cantante, scenografia, oggetti sul palco. Meno numerose sono le cover band che si limitano a ripresentare brani noti, spesso rimaneggiandoli e facendoli propri. I nomi scelti da questi gruppi sono generalmente anagrammi o parafrasi di titoli di album e canzoni dei gruppi ispiratori. Il sottoinsieme delle band emergenti è invece quello che più fatica a trovare una sua collocazione di mercato: per proporre i pezzi inediti, per pagare le sale prova, per acquistare gli strumenti, si autofinanzia e spesso con enormi sacrifici in nome di Euterpe.

Osservare il momento dell’ingresso delle band nei vari studi, mette in luce una serie di rituali che si ripropongono ogni volta prima delle prove, sono gesti collaudati compiuti sempre con le stesse sequenze, con gli stessi ritmi. Ciascun membro si appropria di un suo spazio all’interno della sala e pare come isolato dal resto del gruppo, in una sfera invisibile. Collegare il proprio strumento all’amplificatore, provare l’accordatura, riprodurre suoni, scaldare la voce: il tutto avviene simultaneamente. Lo spettatore che dovesse osservare quegli attimi, nota l’incredibile quantità di suoni, di rumori, di movimenti che si manifestano senza apparente sincronia: è come se ogni musicista o cantante fosse lì presente solo per sé. Per una serie di interminabili minuti è tutto un parlare sovrapposto, un suonare note all’apparenza senza senso, un alzare e abbassare toni.

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Ciascun membro della tribù ha poi il suo curioso rito scaramantico: la sciarpa, sempre la stessa, da avvolgere attorno al collo con movimenti studiati, il plettro da appoggiare sempre nella stessa posizione, i movimenti del corpo ripetuti, l’arrotolare e srotolare cavi. Ogni musicista, nel suo angolo, armeggia borsoni degni di Mary Poppins, stracolmi di oggetti, spinotti, cavetti, adattatori, strumenti elettronici. Poi, quasi all’improvviso, un segnale, un colpo di bacchetta sul rullante, uno scambio di sguardi quasi impercettibile tra loro, un vento misterioso che tutto avvolge e con incredibile magia, i suoni prima scomposti, trovano una loro comune ragione: la musica. E poi parole e musica si incontrano, nascono i sogni e le emozioni.

È la musica, è la musica ribelle
che ti vibra nelle ossa, che ti entra nella pelle
che ti dice di uscire, che ti urla di cambiare
di mollare le menate e di mettersi a lottare”
(E. Finardi – Musica Ribelle – 1976)