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Si è spenta una protagonista della vita culturale di Monza e Brianza.
Che, da laica concreta, ha affidato alle sue azioni il miglior ricordo di sé. Il ricordo di Vorrei.

Se n’è andata Rosanna Lissoni. A ogni frase che mi viene in mente per ricordarla, la sento nel mio cervello con la sua voce un po’ roca, il suo tono ironico, sfottermi per la caduta nell’oleografico, nel libro Cuore. E anche se, ormai, anche dire che “lui/lei avrebbe voluto/non avrebbe voluto così” fa parte dell’armamentario standard delle commemorazioni, lo dico: lei non avrebbe voluto così. Forse sarebbe infastidita anche solo da un sobrio elenco delle cose che ha fatto.

Sicuramente, anche tra i nostri lettori, c’è chi ha conosciuto Rosanna meglio di me. Chi ha lavorato con lei nell’esperienza come Vicesindaco e Assessore alla Cultura del Comune di Villasanta, per esempio. Chi era coinvolto con lei nella promozione della cultura filosofica, e nella sfida di portarla in Brianza, con il suo contributo determinante a un progetto come Abitatori del Tempo. Chi l’ha incontrata nella sua vita di insegnamento.  Io sono tra questi, per me Rosanna rimane sempre “la Lissoni”, “la prof”.

Però credo di avere un titolo particolare per parlare di Rosanna. Perché posso dire, senza retorica, che per me incontrarla è stata una esperienza che mi ha cambiato la vita. Io studente un po’ ribelle dello Zucchi, lei docente di filosofia. Il liceo classico di Monza, all’epoca una specie di presidio oscurantista. Io, unico studente dark, come si chiamavano allora (oggi li chiamano emo o qualcosa del genere, che a me fa venire in mente le trasfusioni). Lei quasi l’unica tra gli insegnanti a saper guardare oltre gli abiti neri, le scarpe a punta e i capelli cotonati.

All’esame di maturità mi sostenne come membro interno, e lottò perché avessi un voto alto nonostante avessi perso un anno, peraltro in circostanze molto particolari.

È stato “per colpa sua”, come diceva lei, che dopo il liceo ho scelto di studiare filosofia all’università. Ciò che reputo tuttora una delle poche scelte intelligenti della mia vita. Un incontro simile a quello che è capitato a Roberto Rampi, oggi vicesindaco e assessore alle Politiche Culturali del comune di Vimercate: “Ho conosciuto Rosanna perché era Presidente della commissione al mio esame di maturità. Mi disse che mi avrebbero dato un bel voto perché sapeva che avrei fatto filosofia: era fatta così. Dopo molti anni l’ho rincontrata nel mio percorso politico ed è iniziata una lunga collaborazione. Ho avuto occasione di conoscere una donna eccezionale, che credeva davvero che cultura e politica sono la stessa cosa – un pensiero quasi eretico, oggi – e lo metteva in pratica. Ha vinto una grande sfida, quella di portare la filosofia in Brianza, ed è stata una grande maestra per me”.

È lei che mi ha fatto capire tutta l’umiltà che c’è nella parola filo-sofia: l’amore per la sapienza. Il filo-sofo non si reputa un sapiente, “uno che sa”, ma è uno che vuole sapere perché “sa di non sapere”. I primi filosofi, disse Rosanna in una memorabile lezione, scelsero di chiamarsi così perché non si sentivano all’altezza dei sòphoi, dei veri grandi saggi del passato remoto che sapevano maneggiare il linguaggio possente del mito, come Omero.

È lei che mi ha fatto capire che amare il sapere vuol dire amare la vita. Tutto il contrario dell’astrattismo degli intellettuali. Perché quella voglia di sapere che ti brucia dentro, e che bruciava dentro a lei, viene dal thaumas, lo stupore continuo e inesausto davanti alle cose del mondo che è proprio dei bambini, e solo chi non lo perde neanche da adulto può essere filosofo.

Lei il suo thaumas, il suo stupore infantile, l’aveva saputo conservare, lo percepivi nell’entusiasmo un po’ adolescenziale che metteva nelle cose che diceva e che faceva. Lei lo coltivava. Perché questo significa “cultura”, “coltivare,” qualcosa di vivo come vive sono le piante che si coltivano. Lei la vita l’aveva scelta in concreto. Facendo delle scelte personali anche difficili. Senza rinunciare alla sua passione, aveva messo davanti a tutto la sua famiglia, la sua vita, la vita vera e autentica se possiamo dire così.

Dopo tanti anni che era stata per me solo un’ex prof, l’avevo cercata e ricontatta. Volevo, in un certo senso, ripagare il mio debito. Farle sapere che ciò che avevo fatto e ottenuto, poco o tanto che fosse, era anche grazie a lei. Pochi mesi fa mi aveva rilasciato un’intervista, proprio per Vorrei, in cui avevamo parlato anche della sua vita e delle sue scelte, off records come si suol dire. Mi aveva parlato della difficoltà di essere donna  e persona di cultura all’epoca della sua giovinezza. Del ’68 in cui, dopotutto, le donne erano relegate a fare i ciclostili. Delle donne di Brianza e dei bachi da seta grazie ai quali erano state protagoniste dell’economia fin dal passato. Delle donne immigrate che hanno bisogno prima di tutto di lavorare, di essere economicamente autonome, per emanciparsi.

In tutto, infatti, era diretta e concreta. Proprio il contrario dello stereotipo del filosofo. Come diretta e concreta era stata anche nella malattia. All’Istituto dei tumori, quando sono stato a trovarla, mi parlava dei dettagli tecnici delle terapie e ironizzava sulle giaculatorie della compagna di stanza. L’ultima volta le ho detto che sarei tornato a trovarla. Non sarà così. La sento ridere di chi dice “è ancora qui tra noi”, “è andata in un luogo migliore”. Lei non lo credeva. Credeva, foscolianamente, che la nostra anima è tutta in ciò che lasciamo di noi nel mondo. Ha vissuto coerentemente con questo pensiero: lasciamo che il suo contributo parli per lei.

 

Rosanna Lissoni verrà ricordata in una cerimonia laica domani sabato 6 marzo alle ore 10.00 in Villa Camperio, a Villasanta.

 

 

 

L'intervista rilasciata due anni fa a Manuela Montalbano 

 

Mi associo al cordoglio della famiglia della professoressa Lissoni. Ho avuto modo di sperimentarne da allievo la ricerca di un metodo innovativo nell’insegnamento; la stessa ricerca che, qualche anno dopo, mi ha portato ad apprezzarne, da giornalista, il tentativo di portare la filosofia fuori dalle accademie, riempiendo i teatri e gettando un ponte tra la cultura “alta” e quella popolare. Sono stati anni di cambiamento per una terra operosa come quella brianzola, cresciuta da sempre nella cultura del lavoro e poi a casa a dormire, ma che ormai adulta e “autonoma”, è da poco alla ricerca faticosa di una nuova identità. Perdendo Rosanna Lissoni perdiamo una delle poche persone portatrici di idee nel grigio panorama culturale monzese. C’è da augurarsi che qualcuno ne segua l’esempio; ma forse, soprattutto, che abbia lo stesso coraggio nel cercare un approccio nuovo, meno meccanico e più personale, alla vita, in una società che funziona sempre più secondo codici da riprodurre all’infinito. Sono sicuro che, con la certezza di aver lasciato questo dietro di sé, sarebbe stata soddisfatta della propria vita e serena nell’accettare la sofferenza.

Antonio Piemontese