20091220-whitechristmas

Perché è sbagliato sottovalutare le sparate della Lega: non solo operazioni per catturare voti, ma tasselli di una strategia che punta a radicare la mitologia fondante di un nuovo stato.

 

“Ero straniero e mi avete accolto”

(Mt 25,35)

 

 

A Natale siamo tutti più buoni. O no? Una volta, forse. Ma oggi, in Italia, rancore, paura, accanimento contro il diverso non vanno in vacanza nemmeno sotto le feste. Uno dei più recenti, preoccupanti sintomi è l’iniziativa che la giunta leghista di Coccaglio (Brescia) ha infelicemente battezzato Operazione White Christmas. Un nome la cui involontaria ironia la situerebbe a metà tra Bing Crosby e il Totò della mitica Operazione San Gennaro, se i contenuti non fossero (giusto per stare nel clima di stagione) agghiaccianti: in breve, si tratta di ‘schedare’ entro il 25 dicembre tutti i 400 extracomunitari (su un totale di 1.500 stranieri residenti) che hanno il permesso di soggiorno scaduto da sei mesi e che devono aver avviato le pratiche per il rinnovo. Se non dimostrano di averlo fatto, la residenza viene revocata d’ufficio.

 

È lo stesso sindaco Franco Claretti a precisare che “…da noi non c’è criminalità, vogliamo soltanto iniziare a fare pulizia”. Ma se non c’è un problema criminalità legato all’immigrazione, che tipo di ‘pulizia’ si vuole fare? A chiarirlo, in maniera neanche tanto velata, è il nome stesso dell’operazione, traducibile più con un ‘Natale bianco’che con un ‘bianco Natale’: è una pulizia etnica. Naturalmente (e fortunatamente) all’italiana, a colpi di carte da bollo invece che di kalashnikov. Come dire: dato che non possiamo mandar via quelle 1.100 facce scure che, ahimè, sono in regola, faremo di tutto per cacciare almeno i 400 che sono lì lì per. Chiarisce meglio il Lega-pensiero l’assessore alla sicurezza Claudio Abiendi: “Per me il Natale non è la festa dell’accoglienza, ma della tradizione cristiana, della nostra identità”. Famiglie con bambini? Ecchissene. Lavoratori onesti che non possono rinnovare il permesso, semplicemente perché hanno perso il posto di lavoro? Pèsc per luur.

 

E non provate a ribattere ad Abiendi & soci che la tradizione cristiana è accoglienza. O, in tema di identità, che oltre un miliardo e 100 milioni di cattolici non italiani nel mondo non capiscono perché mai l’impronta cristiano-cattolica dovrebbe essere una caratteristica distintiva dell’identità italiana (o magari ‘padana’!) piuttosto che di quella spagnola (e i reyes catòlicos dove li mettiamo??), francese (alle radici della patria non hanno forse Giovanna d’Arco?) o irlandese o polacca. Non provate a portare obiezioni logiche, perché non c’è logica in queste scelte se non quella, cinica, di strumentalizzare a fini politici una paura ancestrale che si è prima evocata e poi coltivata.

 

Cristiana o celtopadana, purché sia ‘tradizione’

O forse una logica c’è? Secondo alcuni analisti più raffinati (o dietrologi più contorti, dipende dai punti di vista), ci sarebbe. Qualche settimana fa, ha destato scalpore negli ambienti politico-mediatici Fratelli d’Italia? (punto interrogativo incluso), un pamphlet dietro il cui anonimo autore si celerebbe un personaggio molto addentro all’entourage di centrodestra – e con gran contezza di cose leghiste. Ambientato nel 2013, il racconto fantastorico ipotizza che, dopo una schiacciante vittoria alle regionali del 2010, la Lega faccia cadere il governo Berlusconi e appoggi dall’esterno un esecutivo ‘di salvezza nazionale’ Pd-Udc-Idv, approfittando poi della debolezza della coalizione per mettere a segno una ‘secessione di velluto’ del Nord, a partire dal Veneto.

 

In uno dei passaggi del libro, l’informatissimo anonimo nota come le boutade e le aggressioni verbali leghiste, apparentemente estemporanee e mirate a vantaggi immediati, siano in realtà parte di una strategia complessa che la Lega sta portando avanti da tempo e che punta a costruire sul territorio e sull’identità (insomma, sul vecchio-nuovo binomio sangue-suolo, Blut und Boden) una nuova ideologia che sostituisca quelle morte del ‘900. In effetti, ad alcuni osservatori che guardano la situazione con un occhio meno politico, e più storico e sociologico, non è sfuggito che la Lega è da tempo impegnata nella costruzione della mitologia fondante di un nuovo stato. Del resto, l’obiettivo della secessione rimane nello statuto del partito e, sebbene definito informalmente come ‘storia’, non è mai stato ufficialmente rinnegato.

 

Se state pensando che si tratti di una pretesa velleitaria, ripensateci un attimo. Ogni nazione, o meglio ogni stato, ha i propri miti fondativi. Che non sono necessariamente inventati (come Romolo e Remo), anzi, hanno quasi sempre un fondamento storico (la presa della Bastiglia, per esempio…) ma sono sempre ‘riprogettati’ a ritroso per essere funzionali allo stato di fatto cui si devono riferire. E per questo cambiano nel tempo e nello spazio, spostando confini e appartenenze. C’è stato un momento in cui gli abitanti delle Tredici Colonie hanno smesso di sentirsi coloni inglesi, e hanno cominciato a sentirsi americani. E i loro miti fondanti sono diventati i Padri Pellegrini e la Guerra d’Indipendenza. A un certo punto della loro storia, l’Austria non si è più sentita uno dei tanti stati tedeschi (così ancora si definivano gli austriaci ai tempi di Mozart, per esempio, nel tardo ‘700) e ha iniziato a percepirsi come qualcosa di specifico e diverso, all’interno della comunità dei parlanti tedesco, costruendo sulla propria dinastia regnante il suo mito fondativo, quel mito asburgico così potente che ancora oggi affascina molti.

 

La grande occasione mancata dalla Lega

La comunanza di lingua è elemento necessario (ma non sempre: non in Svizzera, tanto per dire) ma non sufficiente a costruire una nazione. Provate a chiedere a un ticinese se è italiano (o a un ginevrino se è francese) e vedrete che vi risponde, più o meno educatamente. Sì, obietterete voi, ma dietro l’autonomismo-federalismo-secessionismo della Lega c’è solo una questione di soldi. Può darsi. Ma questo non cambia il quadro. Anche la guerra d’indipendenza americana è scaturita da un problema di tasse (sul tè, per la precisione: ricordate la vicenda del Boston Tea Party?): il primo motto dei rivoluzionari a stelle e strisce è stato No taxation without representation, niente tasse senza rappresentanza: all’inizio, tutto ciò che reclamavano era il diritto di mandare i loro rappresentanti al Parlamento di Westminster, che decideva delle loro tasse. E guardate dove sono arrivati.

 

In questo quadro, il ‘cristianesimo’ leghista non ha nulla a che fare con la fede (lo provano le pesanti critiche portate recentemente al cardinale Tettamanzi, tra gli altri) e rappresenta solo un altro tassello identitario in un controverso mosaico per il quale si possono recuperare indifferentemente i Celti e Alberto da Giussano, la battaglia per il crocifisso in classe e il rito pagano delle ampolle con l’acqua del Po.

 

Per fortuna (degli altri), pur avendo una strategia a lungo termine (e questo nella politica italiana è già molto) la Lega appare piuttosto maldestra nell’attuarla. Lo scivolone di Barbarossa, il costosissimo (per i contribuenti italiani – tutti, inclusi siciliani e calabresi) kolossal in costume che doveva diventare il Braveheart padano, ne è la dimostrazione. Altrettanto lo sono i goffi tentativi di realizzare notiziari in dialetto. Sensato il tema (la lingua come collante identitario), sbagliato lo svolgimento. Sarebbe bastato copiare i cugini catalani che, per (ri)fondare la nazione, come prima cosa hanno creato fin dagli anni ’20, tramite l’ortografia, una lingua standardizzata capace di rappresentare tutte le parlate dei diversi paisos catalanos, da Perpignano fino ad Alicante – anzi, Alacant – con l’effetto di permettere la trasposizione scritta di concetti complessi (cosa assai più difficile nei dialetti) e trasformare il catalano in una vera lingua veicolare. La stessa operazione è stata tentata nel sud della Francia con l’occitano, anche se con risultati molto meno impattanti dal punto di vista politico.

 

 

Coltivatori dilettanti di semi di nazioni

Nella Lega, però (sempre per fortuna per gli uni, e purtroppo per gli altri) manca il livello culturale dei movimenti indipendentisti iberici, dove ha militato il meglio dell’intellighenzia catalana. Al punto che il movimento verde non è stato capace di cogliere nemmeno l’assist che negli anni ’90 è arrivato dal mondo accademico. Quando, soprattutto grazie agli studi del linguista australiano Geoffrey Hull (il suo saggio è del 1987-88), la comunità scientifica cominciò ad ammettere che le parlate del Nord Italia non erano affatto dialetti italiani, ma celtoromanzi (lingue ‘sorelle’ di quelle francesi, dunque, e non italiche), che rappresentavano varianti di una stessa lingua comune (battezzata da Hull ‘padano continuo’ o ‘padanese’) e potevano vantare, almeno fino alle soglie del Rinascimento, una tradizione scritta che non aveva nulla da invidiare a quella occitana o catalana.

 

Sono materiali esplosivi, questi, nel crogiolo dove gli stati e le nazioni muoiono e nascono di continuo, quello stream of consciousness tra generazioni che per semplicità chiamiamo inconscio collettivo. E proprio per questo non si capisce bene se il fatto che siano dei dilettanti a maneggiarli ci debba più rassicurare o preoccupare. In ogni caso, un solo errore non bisognerebbe commettere: sottovalutare il fenomeno. Esattamente quello che politici e intellettuali italiani hanno fatto per vent’anni. E continuano a fare ora. Non basta continuare a ripetere, come per autoconvincersi, che “…la Padania non esiste”. Perché di una nazione si può dire lo stesso che Michel Foucault diceva a proposito dell’anima: poiché vive nel mondo dell’intelletto, nel momento in cui l’uomo inizia a pensare che esista, essa esiste. Tanto più oggi che, con lo sviluppo di aree come il Nordest e la dorsale adriatica, il centro-nord è diventato un’area tanto più economicamente e socialmente omogenea al suo interno, quanto sempre più distante dal centro-sud. Nessuna entità statale può sopravvivere a lungo con un territorio spaccato in due tra una parte che è la seconda o terza macroregione più ricca d’Europa e un terzo del paese dove il reddito procapite è precipitato al 75-80% della media Ue. E i leghisti non saranno economisti di Harvard, ma certe cose le sanno. Di pancia, ma le sanno.