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«I migranti mi hanno mostrato la fragilità della vita ma anche l’enorme forza che abbiamo noi per lottare per difenderla».

Non riuscivo a trovarmi, non riuscivo a definirmi.
Se qualche anno fa m’avessero chiesto di definire la mia cultura d’origine, quella brianzola non avrei saputo che dire.
Certo non avevo un metro di paragone. L’aereo, in vita mia, l’ho preso solo una volta, per volare sul territorio italiano e la nave pure, sempre per raggiungere un’isola italiana.
Grazie a Dio ad un certo punto della mia vita ho iniziato ad incrociare sguardi profondi, con rughe solcate dalla fatica di una vita,  sguardi che puntano all’infinito del deserto o che guardano dall’alto di una montagna il paesaggio sottostante. E’ in questo modo che sono stata  in Marocco, sono stata in Senegal e in Burkina Faso. Anche in Ecuador e in Perù, una volta anche in Argentina, a Cordoba.
Ho ascoltato da voci calde e profonde storie di paesi lontani, ma nello stesso tempo così simili a quelle che ti raccontano da bambino, o a quelle che studiavi sui banchi di scuola.
Storie di miti ed eroi, Donne e Uomini Giusti che hanno fatto la storia, quella vera.
Ho sentito l’odore della stufa che si accende in Romania per riscaldare la casa durante il gelido inverno.
Ho conosciuto una stregona che mi ha spiegato le mie origini, chi è la mia famiglia. Ho udito il canto delle donne al lavoro in cucina come nei campi. Ho scoperto che esiste una tonalità di blu a me prima sconosciuta, il blu di Voromet, dai racconti di Katalin. Ho superato la prova che le giovani spose romene devono sostenere con la suocera per poter essere accolte nella famiglia del futuro marito.

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Foto di Chiara Vaccargiu
(Tutte le foto di questo dossier, salvo dove indicato diversamente, non raffigurano gli intervistati)

 

Soumia mi ha insegnato cosa vuol dire Karama, dignità, attraverso la semplicità e la naturalezza dei suoi gesti. Ho combattuto  e sto combattendo contro i miei Jinn, gli spiriti,  le mie paure dettate dalla non conoscenza. Vivendo degli sguardi dei miei compagni di viaggio sono stata chiusa in un tir per cinque giorni dalla Turchia e ho sentito sulla mia pelle il brivido gelido di una notte su un gommone dall’Albania a Bari; sono stata sull’aereo carico di speranze che ha portato qui Vangjo, guardavo dall’oblò il futuro che stava arrivando. I miei confini, qualcuno direbbe Hudud, si sono dilatati nel linguaggio, nello sguardo.
L’ossessione della mia anima di conoscere me stessa si sta placando, i problemi di ricerca dell’identità  si stanno dissolvendo grazie a questa terapia.
E’ così  semplice ora,  ho capito che qui in Brianza sei giudicato migliore tanto più soffri, tanto più lavori, tanto più sei santo. Me li vedo li i nostri vecchi  dopo una giornata di duro lavoro nei campi o nelle fabbriche rientrare in corte piegati in due dalla fatica ma sentendosi un poco sollevati dai commenti dei vicini: “L’è un brau baghai el laura tut ul dì”.”
Ho capito che io arrivo da questo, ma ho capito anche che oltre al lavoro e al giudizio degli altri vi sono molte cose. V’è la famiglia, l’affetto, e il tempo, il nostro tempo per vivere.
I migranti mi hanno mostrato la fragilità della vita ma anche l’enorme forza che abbiamo noi per lottare per difenderla.
Loro non lo sanno, non gliel’ho mai detto che io sono viva, che mi sento viva e partecipe grazie a loro, i miei eroi.