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Maschi, italiani, la vera emergenza siete voi che legittimate
e riproducete la cultura dello stupro.

A

seguire l’ennesimo stupro, immancabilmente i politici e i notabili di turno si sentono in dovere di ripristinare l’equilibrio violato: da bravi patriarchi tuonano nei microfoni e sulle pagine di giornali, promettendoci sicurezza e che giustizia sarà fatta, che ci proteggeranno. Una logica subdola, che paradossalmente rimarca quegli stessi istinti alla base dello stupro: la folle idea che il maschio possa “dominare” sul corpo della donna, farne oggetto delle proprie volontà, mero strumento per la realizzazione dei propri desideri….erotici, ma anche politici (vedasi le dichiarazioni di Berlusconi, sul corpo di Eluana che…può anche riprodurre!).

L’immaginario collettivo sulla violenza sessuale costruito da politici e giornalisti ci propone una donna vittima e un aggressore “mostro” figlio di una barbara cultura, oppure, più raramente, un uomo “normale”, “di buona famiglia”, trasformatosi in mostro in preda ai fumi dell’alcol o della droga. Così i giornali li raccontano, così i criminali sessuali sono entrati nell’immaginario collettivo.

Il discorso pubblico sulla violenza sessuale degli uomini sulle donne è mistificatorio. L’obbiettivo è deviare l’attenzione: o sul presunto bisogno di protezione della donna, o sulla necessità di “lotta ai non luoghi della città” -seguendo le affermazioni di Zingaretti sui fatti di Guidonia-.
La risposta politica è più sicurezza, maggiore controllo del territorio.
Questo approccio è devastante: cancella l’aggressore “in quanto uomo”, cancella la realtà statistica che conferma che la maggior parte degli stupri, delle molestie, delle violenze fisiche e psicologiche, avviene tra le mura domestiche, per mano di coniugi, amici, parenti. Perché questo ci insegna la cronaca delle ultime settimane: se è il rumeno o l’extracomunitario a stuprare ha commesso un crimine e quindi va punito ed espulso; se invece è lo stimato professore di scuola media ad avere abusato sessualmente di una sua allieva, può riservarsi di non rispondere al Gip ed alle “accuse” della ragazza che trova il coraggio di denunciare; se è il ragazzino di una “famiglia perbene”, annebbiato dai fumi di alcool e droga, la vittima lo vuole pure conoscere, lo possiamo perdonare.

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Una campagna dell'associazione POWA (People Opposing Women Abuse): «Se devi usare la forza, è stupro».

In questa isterica rappresentazione collettiva in chiave tragica del dramma dello stupro, sfuma la figura dell’aggressore, maschio, e la lucidità della sua scelta criminale predatoria, per lasciare spazio alla ferocia di un mostro straniero, tossico, alcolizzato, con disagi psicologici, con problemi esistenziali. Rappresentato il dramma, la ricerca del lieto fine ce la offrono politici e opinion man nostrani e di buona volontà, che fanno a gara per mettere a suo agio la vittima di turno, per offrirle un lavoro precario da due lire per tirare avanti, e per tranquillizzare le altre donne spaventate promettendo vigorosi militari a guardia delle strade e sguinzagliati in giro alla ricerca di nomadi e clandestini. Il tutto, mentre l’opposizione punta il dito evidenziando, nonostante la destra al Governo, il “crescere dell’insicurezza”.

E’ chiaro che se la storia puntualmente viene costruita lasciando nella penombra la donna, nella parte della vittima che piange sulla sua disgrazia, e puntando i fari sul protagonista cattivo, lo straniero, e l’eroe buono, il politico-poliziotto italiano che, a stupro compiuto, arriva a gestire la situazione e ripristinare l’ordine, la morale è una scontata richiesta di tolleranza zero e controllo sociale. Si innesca una reazione pubblica di xenofobia e intolleranza nei confronti di clandestini e stranieri, la violenza sulle donne diventa un problema di ordine pubblico, e viene raccontata e condannata solo nel momento in cui si consuma in luoghi aperti e per mano di estranei malintenzionati.

Diventa in questo modo impossibile una riflessione collettiva contro la violenza sulle donne come problema culturale

Diventa in questo modo impossibile una riflessione collettiva contro la violenza sulle donne come problema culturale, e addirittura la rappresentazione del problema della violenza sulle donne in termini di “rischio di stupro da parte di estranei in luoghi insicuri” riesce a creare più allarme sociale delle statistiche, che invece rappresentano come rischio dominante quello di violenza in famiglia e molestie sessuali da parte di partner, parenti e conoscenti.

Così, mentre le donne silenziosamente continuano a convivere con traumi domestici quotidiani, a subire ricatti sessuali sul lavoro e ammiccamenti osceni per strada, la stampa e i politici continuano a parlare di mostri.

Come se lo stupro, in casa o per strada, non fosse frutto di una cultura patriarcale, pornograficamente fallocentrica, che vuole la donna disponibile, oggetto sessuale che sorride ammiccante dai grandi cartelloni pubblicitari sulle strade, dalle riviste dei giornali, dai reality, dal Parlamento, sempre disponibile a ruoli servili, gratis in casa e sottopagate fuori.

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La campagna affissioni di Telefono Donna che il Comune di Milano ha rifiutato

In Italia stuprare una donna è reato, ma la “cultura dello stupro” non solo è moralmente lecita, soprattutto è socialmente e simbolicamente dominante.

Incombe dai megacartelloni pubblicitari della Relish, pesa come un macigno nelle battute di Berlusconi, da quella sulle precarie che vorrebbe sposate a suo figlio, a quella delle belle donne con il soldato di scorta, a quella – forse involontaria ma non per questo meno inquietante- sulle capacità riproduttive di Eluana, corpo vuoto vincolato a una mera funzione biologica, che solo per stupro potrebbe dare vita.

Vince anche economicamente, la cultura dello stupro, aumentando le tirature dei giornali che si perdono nel disquisire su seni rifatti e propongono nei loro siti fotogallery di donne da calendario.

Forse non è questa la vera emergenza, il monopolio maschile del discorso pubblico, l’accondiscendenza collettiva al gioco perverso degli ammiccamenti fallocratici di vecchi tombeur de femmes, il silenzio collettivo degli uomini “normali” sulle loro responsabilità, l’incapacità di cogliere che la matrice dello stupro sta proprio nel sessismo, in una cultura che esclude dalla soggettività politica le donne e le relega al ruolo passivo di sedotte e seduttrici, donne per bene e donne male, destinatarie in ogni caso di politiche di controllo sociale volte alla disciplina del loro utero, sia esso come strumento di maschio piacere o come strumento di maschia preservazione della specie?

Siamo un Paese governato da maschi ipocriti e moralisti, donne asservite alle logiche dominanti, dove governati e governate sono silenti.

L’interesse marginale (o la non menzione) che la stampa nazionale riserva alle notizie di “normali” anziani cittadini italiani che stuprano le badanti, “normali” professori italiani che stuprano le alunne, “normali” figli italiani che uccidono madre e sorella, “normali” zii italiani che stuprano le figlie della sorella con cui viveva in casa, (giusto per citare notizie pure di questi giorni) ci dimostra che la “normalità” dello stupro –confermata dalle statistiche, ripeto- è un tabù.

E questo silenzio assordante, questa rimozione del problema, è essa stessa un femminicidio simbolico, politico, ideologico, che si ripete ad ogni atto di violenza di un uomo sulla donna, e si rinvigorisce attraverso provvedimenti, leggi e sentenze che di questa stessa cultura si nutrono, giustificandola e riproducendola.

Siamo un Paese governato da maschi ipocriti e moralisti, donne asservite alle logiche dominanti, dove governati e governate sono silenti.

E’ questo silenzio ipocrita e moralista che consente il femminicidio, perché legittima la cultura familista e quella dei cinepanettoni, impedisce lo stanziamento di fondi per politiche di promozione dei diritti delle donne, di informazione e ausilio per scappare dalla violenza, e favorisce invece politiche securitarie, di controllo e gestione maschile del territorio, della sessualità, della maternità, della produttività lavorativa stessa delle donne, depotenziandone il ruolo, marginalizzandone il pensiero, impedendone l’effettiva autodeterminazione ed il protagonismo politico e culturale.

E’ un femminicidio perché la quotidiana discriminazione di donne e lesbiche continua nell’impunità collettiva, tacitamente accettata, culturalmente favorita.

Se il maschio italiano non si interroga sulle proprie responsabilità e non si ripensa nella sua umanità, dismettendo le logiche di dominio patriarcale fino ad oggi fatte sue, questa sì rappresenta una vera emergenza.

Se noi donne e lesbiche continuiamo a tacere su questo, la normalità dell’emergenza ci seppellirà, “in quanto donne”.

dal blog di Barbara Spinelli
Per gentile concessione dell'autrice

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Barbara Spinelli, praticante avvocato, collabora con i Giuristi Democratici a livello nazionale ed internazionale e con la Rete Femminista. Le sue ricerche riguardano soprattutto le politiche di contrasto alla violenza e alle discriminazioni di genere e il femminicidio nel mondo. Oltre a numerosi articoli per quotidiani e testate specialistiche, sul tema ha redatto per i Giuristi Democratici il dossier "Violenza sulle donne: parliamo di femminicidio. Spunti di riflessione per affrontare a livello globale il problema della violenza sulle donne con una prospettiva di genere".

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Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale
Autori e curatori: Barbara Spinelli. Contributi: Patrizia Romito
Franco Angeli, pp. 208 € 18

Perché un libro sul femminicidio? Per raccontare le origini e la storia di questo recentissimo neologismo, ormai sempre più diffuso anche nel nostro paese con riferimento alla strage delle donne di Ciudad Juarez, in Messico. L'autrice documenta la nascita del termine femminicidio, antecedente a tali fatti, e spiega come esso sia stato adottato dalle donne centroamericane per veder riconosciuti e rispettati i propri diritti umani, in particolare quello ad una vita libera da qualsiasi forma di violenza. Femminicidio è la violenza fisica, psicologica, economica, istituzionale, rivolta contro la donna "in quanto donna", perché non rispetta il ruolo sociale impostole. L'autrice illustra, inoltre, le tesi elaborate in Centroamerica sulle cause del femminicidio ed espone i meccanismi di indagine e di denuncia, i dati risultanti dalle ricerche locali, le politiche sviluppate sulla loro base, la conseguente richiesta di riconoscimento giuridico del femminicidio come specifico reato e come crimine contro l'umanità.
Nel volume si mette in luce l'alleanza tra donne e Ong a tutela dei diritti umani per inchiodare lo stato messicano alle sue responsabilità per i massacri di donne a Ciudad Juarez. Ora, grazie alla copertura mediatica del caso messicano, il femminicidio non rappresenta più solo una specificità centroamericana, ma ha assunto una valenza generale, uscendo dall'ambito importante, ma ristretto, della descrizione di un fenomeno locale per costruirsi come concetto giuridico, di rilevanza interna e internazionale.
Il percorso di riconoscimento del femminicidio come crimine contro l'umanità, ora preso in considerazione anche a livello europeo, ha una valenza universale: consente di individuare il filo rosso che segna, a livello globale, la matrice comune di ogni forma di violenza e discriminazione contro le donne, ovvero la mancata considerazione della dignità delle stesse come persone. Non rispettare i diritti delle donne lede l'umanità tutta: tale affermazione pone le basi per la costruzione di relazioni sociali diverse, incentrate sulla Persona in quanto tale e sul rispetto reciproco a prescindere da ogni forma di diversità, sia essa sessuale, etnica, giuridica o ideologica.