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Il pianista-compositore più detestato d’Italia, forse del mondo, Allevi è davvero il grande musicista che crede di essere o il fenomeno da baraccone descritto dai suoi accusatori?

 

Giovanni Allevi di Ascoli Piceno, classe 1969, ha conquistato un formidabile primato: è diventato il pianista-compositore più detestato d’Italia, forse del mondo. Il primo a sparare sul pianista è stato, probabilmente, il giornalista Filippo Facci: «Allevi in Senato dirigerà un’orchestra. Dettaglio: ha imparato quest’anno, ma ha detto che ha studiato i grandi maestri su Youtube1 E Uto Ughi, violinista di fama internazionale: «È un nano in confronto a Horowitz, a Rubinstein. Ma anche rispetto a Modugno e a Mina.»2

la protesta anti-Allevi si è fatta addirittura esplosiva in questi giorni, non appena è partita la notizia che il ragazzaccio avrebbe diretto l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai nell’esecuzione dell’inno di Mameli.

Tra il concerto natalizio al Senato del 2008 e la recente serata promossa da Rai RadioUno al Teatro Gobetti di Torino in apertura delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, Allevi ha collezionato successi commerciali ma anche critiche di rara ferocia: la sua musica è stata definita banale, scontata, edulcorata, accattivante (nel senso di “ruffiana”), facilona, da aeroporto, da ascensore, da aperitivo, da Sanremo, da incapace, da passatempo, da buonumore, orecchiabile, operazione di marketing, risibile, irrilevante, fenomeno mediatico costruito a tavolino, inesistente, piacevolmente inutile. Per molti critici, Allevi non è altro che un mistificatore. La sua polemica con Ughi è stata addirittura oggetto di un libro, Beethoven non è Zucchero, pubblicato nel dicembre 2009 dagli editori della rivista “Classic Voice”.

Se a mettere in fibrillazione la critica e i blog fu, nel 2008, il placet natalizio del Senato, la protesta anti-Allevi si è fatta addirittura esplosiva in questi giorni, non appena è partita la notizia che il ragazzaccio avrebbe diretto l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai nell’esecuzione dell’inno di Mameli. Il presunto crimine è stato perpetrato a Torino il 31 gennaio. Allevi si è presentato sul podio in jeans e capelli scarruffati, un po’ perché è fatto così e un po’ per rinfrescare, a beneficio degli adolescenti, lo spirito giovanile del Risorgimento. Le cronache riportano che l’esecuzione è stata salutata da una standing ovation.

Allevi è davvero il grande musicista che crede di essere o il fenomeno da baraccone descritto dai suoi accusatori? La questione non mi tange; sarei tentato di liquidarla con uno sbrigativo «chi se ne frega». Non perché io sia indifferente alle emozioni della musica, o perché sottovaluti i giudizi degli esperti, o non m’interessino gli equivoci e il Kitsch derivanti dalla commistione tra ciò che è sublime e ciò che viene spacciato per tale. Dico solo che la scelta di Allevi come capro espiatorio universale, da parte di chi ama la musica seria, mi pare iniqua e sproporzionata rispetto ai reali problemi della musica in Italia.

È vero: Giovanni Allevi non è né Pollini né Chick Corea, ma non produce nemmeno l’ombra di quei danni culturali di cui è ritenuto responsabile. Assai più nocivo, per l’educazione musicale delle masse, mi sembra il repertorio di canti liturgici contemporanei che s’intonano (preferibilmente stonando) nelle nostre chiese, durante la messa. Canti di soave squallore musicale e poetico, più loffi del peggior trash sanremese. Non si pretende che in tutte le parrocchie risuonino, ogni domenica, cantate di Bach e oratori di Händel intonati dal coro dell’abbazia di Westminster o della Chiesa dei Mormoni di Salt Lake City. Ma fra quelle altezze e la nenia di Purificami, o Signore / sarò più bianco della neve si spalanca una distanza a dir poco oceanica. Il Vaticano farebbe bene a commissionare un’indagine sull’impatto negativo della cattiva musica sulla fede degli italiani. Il subsanremo cattolico è talmente sgradevole da mandare in tilt persino le orecchie degli angeli, se gli angeli hanno orecchie.

Un altro aspetto fastidioso dei reiterati attacchi ad Allevi nasce dal sospetto che sia un bersaglio troppo facile. Se proprio bisogna prendersela con qualcuno, meglio puntare con coraggio su qualche mostro sacro. Ricordo ancora con sgomento gli osannati concerti dei Three Tenors: la sguaiatezza di Pavarotti, Carreras e (un po’ meno) Domingo, aureolati per ben altre performance e perciò automaticamente dotati di licenza di uccidere. Ancora nell’area del canto: con tutta la simpatia e l’affetto che ci ispira Andrea Bocelli, dobbiamo pur riconoscere che Caruso era un’altra cosa. Così come dovremmo prendere atto che, nella musica, c’è spazio per (quasi) tutti; ben altre sono le cose che dovrebbero indignarci.

Quando, ignaro dell’ombroso avvenire, attaccai Fratelli d’Italia, non lo feci né per motivazioni politiche né per idiote recriminazioni sulla storia dei padri.

Ma non mi sarei occupato di questo argomento se Allevi non si fosse trovato invischiato in un tema, questo sì, davvero affascinante: l’inno di Mameli e Novaro, il centocinquantenario dell’Unità d’Italia, la sorte dei simboli patriottici italiani in un’era refrattaria alla memoria e all’orgoglio nazionale. Insomma, Fratelli d’Italia nell’epoca più sfratellata della nostra storia, con la banda Bossi – sdoganata dall’impareggiabile Silvio – all’attacco di Cavour, di Mazzini, della lingua di Dante, degli intellettuali, dei “terroni”.

Mi prendo la libertà di inserire qui una digressione. Nel 1994 pubblicai su “La Repubblica” e qualche testata specialistica di marketing, a nome dell’agenzia BGS di cui ero partner, uno scherzo intitolato «Dieci modeste proposte per la sostituzione dell’inno nazionale.» Si era ancora lontani dagli exploit della Lega contro l’inno e il tricolore; non mi sarei mai azzardato a scherzare su Fratelli d’Italia se avessi potuto prevedere il bieco futuro che ci sarebbe piombato addosso. Adesso metto molto impegno a insegnare il nostro inno ai miei nipotini, che hanno imparato a cantarlo senza sbagliare nemmeno l’ostico verso «stringiamci a coorte».

Quando, ignaro dell’ombroso avvenire, attaccai Fratelli d’Italia, non lo feci né per motivazioni politiche né per idiote recriminazioni sulla storia dei padri. La polemica che innescai, e che animò per un’intera estate i mass media e i vacanzieri in spiaggia, voleva essere di natura squisitamente estetica. E sportiva. Cogliendo lo spunto dalla sconfitta degli Azzurri contro il Brasile nella finalissima della Coppa del Mondo, scrissi: «Pensate che il testo di Mameli e la marcetta di Michele Novaro siano il miglior carburante che la nazione possa offrire ai suoi eroi?» E poi: «Dell’elmo di Scipio l’Italia si è cinta la testa, ma si è anche rotta le palle.»

Mi pento amaramente dei miei peccati, e mi rallegro del fatto che il sondaggio da noi promosso sul dilemma «Volete tenervi l’attuale inno o cambiarlo?» mobilitò la maggioranza degli intervistati in favore di Mameli. Ma, tornando alle critiche sollevate contro il pianista Allevi: davvero è così sconveniente che sia stato lui e non, per esempio, un Abbado o uno Chailly a dirigere l’esecuzione dell’inno a Torino? La musica di Novaro è equiparabile a quella di Verdi, Rossini, Beethoven? Di quali sottigliezze o complessità è fatta? Non è forse una marcia popolare, creata da un modesto compositore patriottico – l’equivalente risorgimentale di Bella ciao? Non la suonano da sempre le bande comunali e dei Carabinieri, come viene viene e senza offendere le orecchie dei musicofili? Che c’è di male se la si mette in mano all’Allevi di turno?

Fratelli d’Italia esige il massimo rispetto, oggi più che mai, per il suo valore simbolico; ma non è necessario né opportuno fingere che si tratti di una sublime pagina musicale.

Fratelli d’Italia esige il massimo rispetto, oggi più che mai, per il suo valore simbolico; ma non è necessario né opportuno fingere che si tratti di una sublime pagina musicale. Neanche Herbert von Karajan riuscì a trarre da quella elementare partitura eventuali sfumature nascoste: la incise nel 1972 per la Deutsche Grammophon, con i gloriosi Berliner Philharmoniker, insieme ad altri national anthems europei, e non risultò più ispirata o commovente di come l’ascoltavo, quand’ero piccolo, dalla banda municipale di Canosa di Puglia.

Ammettiamolo: siamo alquanto distanti dal Mozart di Land der Berge, Land am Strome, l’inno nazionale austriaco, e dall’Haydn di Einigkeit und Recht und Freiheit, che tanto fummo costretti a maledire quando i cattivi lo travestirono da Deutschland über Alles. Le note di Novaro impallidiscono anche nel match contro melodie meno titolate, dalla Marseillaise di Rouget de Lisle a God save the King (o the Queen) di autore rimasto ignoto. Ma non importa. Fratelli d’Italia ha proprio questo di buono: che possiamo suonarlo e cantarlo e persino strapazzarlo come ci pare, senza far rabbrividire né Uto Ughi né altre orecchie delicate. Perché dev’essere l’inno di tutti noi, Allevi compreso. E comunque, Bossi e i suoi seguaci ci sputerebbero sopra anche se a suonarlo e cantarlo in coro fossero gli angeli in persona.

 

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Uscito per la prima volta il 1° agosto 1994 su “La Repubblica”, questo intervento scatenò mesi di polemiche sulla stampa, alla radio e alla televisione. Il testo osava suggerire, come alternative all’inno di Mameli, non solo il solito Verdi di Va’ pensiero ma anche canzoni classiche napoletane e alcuni successi di Modugno, Lucio Battisti, Paolo Conte e Jovanotti. (Clicca per ingrandire)

 

1 F. Facci, E ora Ligabue alla Scala, “Il Giornale”, 20/12/2008.

2 Intervista rilasciata a “La Stampa” dopo il concerto natalizio, diretto da Allevi, promosso dal Senato della Repubblica nel 2008.

Gli autori di Vorrei
Pasquale Barbella
Pasquale Barbella