20091114-schifano

Una televisione rispettabile dovrebbe smettere di invitare i cafoni.
Esistono strumenti tecnici per disinnescare queste forme di teleteppismo

Se è vero che la formazione individuale dipende dalla comunicazione (ambientale, scolastica, religiosa, politica, mediatica etc.), dovremmo cominciare a familiarizzare con la critica della comunicazione al più presto possibile, magari dalle medie inferiori. Dotarci, cioè, di nozioni e strumenti di difesa, in modo da essere meno inconsapevoli degli effetti prodotti dall’ascolto di questa o quella campana sul nostro modo di sentire e ragionare. Sprovvisti come siamo, in larga maggioranza, di questi utensili di controllo, rischiamo di comprimere la nostra libertà di pensiero e d’azione entro canoni fissati da terzi senza sottoporli al filtro del dubbio o, in generale, della nostra coscienza. Tutto ciò che apprendiamo diventa allora ambiguo e confuso. Quando al liceo (scientifico) dei miei tempi si studiavano ore e ore di Iliade e Odissea, credevamo di assorbire il beat omerico mentre invece respiravamo aria di classicismo italiano sette-ottocentesco, dal momento che i nostri testi erano le versioni di Vincenzo Monti (1754-1828) e Ippolito Pindemonte (1753-1828). Niente di male, beninteso: purché te lo dicessero e, magari, ti istruissero sulle trappole di ogni traduzione letteraria, specialmente se poetica. Ma finché si è nell’ambito della letteratura, le distorsioni non sono quasi mai così pericolose da suscitare preoccupazione. Di certo più allarmante sarebbe se un buontempone insegnasse a un bambino di quattro anni che la strada bisogna attraversarla col rosso. «Vai, vai». E lui va.

Nel mondo contemporaneo il coro delle fonti di comunicazione, spesso interessate e amplificate dai mass media, ci mette nella condizione del bambino pronto ad attraversare la strada col rosso, il giallo e il verde accesi in contemporanea. La televisione è, di tutti i semafori, quello dal segnale più luccicante. Ci insegna a scegliere il partito da votare, ad alzare la voce quando parlano gli altri, a litigare con chi non la pensa come noi, a tracannare idee come si tracanna una birra, a insultare le donne e gli avversari politici, a odiare gli stranieri e i diversi, a preferire certa musica anziché altra, a sognare di diventare VIP senza l’obbligo di coltivare una qualsiasi competenza. Ci insegna per fortuna anche altre cose, più formative e meno volgari: ma sarebbe in ogni caso utilissimo imparare a districarsi nel labirinto delle voci, a sottoporle a giudizio, a far prevalere la nostra capacità di elaborazione sul menu che ci viene somministrato.

Una delle campane più squillanti suonate dai mass media è la pubblicità. Fra tutte è forse la più innocua, anche quando ci infastidisce o ci disgusta; è nella sua natura avvertirci che mira a farci comprare questo o quel prodotto o servizio, e sapendolo siamo liberi di lasciarci persuadere o di ignorare le sue esortazioni. Ma mentre sappiamo riconoscere a colpo sicuro uno spot pubblicitario, non sempre possiamo dirci altrettanto abili nel riconoscere uno spot propagandistico. La propaganda differisce dalla pubblicità proprio in questo: non porta scritto in fronte «mi chiamo propaganda». Finge di essere informazione disinteressata, mentre mira allo stesso obiettivo della pubblicità: conquistare la nostra adesione, il nostro consenso.

Negli ultimi anni la televisione ha prodotto in Italia più danni che in qualsiasi altro paese, a causa del pesante uso politico, propagandistico e nazionalpopolare che se ne è fatto e se ne fa. Ha contribuito a scardinare valori indispensabili alla convivenza civile, alla cultura e all’istruzione in generale, all’emancipazione delle classi più indifese, alla diffusione del rispetto delle minoranze. E ha sistematicamente ucciso quella forma di civiltà che una volta si chiamava “buona educazione”, porgendo a ogni pie’ sospinto la telecamera e il microfono a ringhiosi personaggi della politica e del potere, a creature senz’arte né parte di un neo-avanspettacolo teleautarchico, a giornalisti più portati alla rissa che alla penna, a migliaia di cittadini convinti che un’apparizione sullo schermo vale più di un terno al lotto e va quindi arraffata ad ogni costo, compreso quello di esibire gli aspetti più personali e talvolta imbarazzanti della propria vita privata.

In un paese in cui parlamentari e senatori strillano come galline, s’insultano, si picchiano, mangiano insaccati e stappano bottiglie nei luoghi istituzionali le poche volte in cui si ricordano di frequentarli, i talk show a più voci costituiscono – per coerenza – il ring ideale ove sfoggiare i peggiori istinti polemici, dove la polemica non è però confronto di opinioni ma pura e cacofonica babele di suoni sovrapposti: vince chi grida e insulta di più, sopraffacendo l’antagonista con la dinamite delle proprie corde vocali. Si dirà: che colpa ha la televisione se i suoi ospiti sono così? Due risposte: la prima è che una televisione rispettabile dovrebbe smettere di invitare i cafoni; la seconda è che esistono strumenti tecnici per disinnescare queste forme di teleteppismo. Come? Semplice: basta volerlo. Ogni contendente, se di contesa si tratta, ha diritto a tot minuti di tempo per rispondere all’intervistatore; durante la sua risposta i microfoni degli astanti vengono scollegati e la telecamera inquadra il parlante di turno, non le smorfie di dileggio e i gestacci degli altri. Si può fare? Certo che si può: nelle ultime settimane di campagna per le elezioni presidenziali negli Stati Uniti i due candidati si confrontano in televisione tre volte, devono rispondere entrambi alle stesse domande, hanno gli stessi minuti a disposizione e non possono essere interrotti da nessuno, nemmeno – ovviamente – dall’anchorman. Scaduto il tempo il microfono passa all’antagonista. Di più: questi confronti d’opinione e di programma sono talmente importanti che i sondaggi del giorno dopo registrano di solito significative variazioni di orientamento nell’opinione pubblica: e non perché uno dei due ha alzato la voce, ma perché l’uditorio ha avuto modo di ascoltare e comprendere entrambe le posizioni. Quanto all’intervistatore o anchorman che dir si voglia, lo si intravede appena, di spalle; porge la domanda e sparisce con discrezione fuori campo, senza sfarfallare in studio come una danzatrice del ventre.

Ora, è vero che gli Obama e i McCain parlano in pubblico con maggior misura e autorevolezza dei nostri, indipendentemente dalle posizioni politiche e dalla regia dei talk show; ma a maggior ragione una televisione seria (e indipendente) dovrebbe evitare che una Santanché insulti ripetutamente Maometto in diretta o che un avvocato di grido gridi «mavalà» a tutti quelli di cui non condivide l’opinione.

 

Chi è Pasquale Barbella

Nato a Ruvo di Puglia nel 1941, Pasquale Barbella inizia la carriera pubblicitaria a Milano nel 1967, dopo esperienze in altri settori (tra cui quattro anni di mail writing presso la Mondadori). Alla professione dedica 36 anni di attività come copywriter, direttore creativo e coordinatore creativo di network internazionali. Nel 1990 è tra i fondatori della BGS (Barbella Gagliardi Saffirio); dal 2000 al 2003 è membro del Worldwide Board of Directors del gruppo internazionale D’Arcy, per il quale è anche responsabile dei servizi creativi per l’Europa e il Nordamerica. Con i suoi team ha creato case histories di successo per Swatch, Lacoste, Champion, Infostrada e numerose altre marche. I suoi lavori sono stati spesso premiati in festival italiani e internazionali. È stato per due volte presidente dell’Art Directors Club Italiano, che lo ha eletto nella sua Hall of Fame. Nel 1992 è stato membro della giuria dell’International Advertising Film Festival di Cannes, nel 1998 membro della giuria dei CLIO Awards a Chicago, nel 1999 presidente della giuria TV del Festival Internazionale di Mosca. Nel 2002 è stato l’unico relatore europeo a One Show China, congresso sulla pubblicità tenutosi a Shanghai. Nel 2004 ha presieduto a Milano un convegno sulla creatività italiana organizzato dal videomagazine britannico Shots, e ha partecipato come lecturer al Masters Degree Program in Strategic Communications alla Columbia University di New York. Tra le pubblicazioni più recenti: interventi sulla creatività in Il dolce tuono. Marca e pubblicità nel terzo millennio, a cura di M. Lombardi, Franco Angeli Editore, 2000; Shakespeare graffiti, a cura di M. Cavecchi e S. Soncini, Cuem, 2002; La comunicazione d’azienda, a cura di U. Collesei e V. Ravà, Isedi/Utet, 2004; La comunicazione in corso. 7 anni di eccellenza alla Facoltà di Sociologia di Urbino di AAVV, Franco Angeli Editore, 2006; Bill Bernbach e la rivoluzione creativa di Mara Mancina, Franco Angeli Editore, 2007. Ha pubblicato anche racconti e un romanzo, Giardini neri, edito da Lupetti nel 1995.

Pasquale Barbella è stato ospite della nostra rivista alla presentazione del suo libro "Confessioni di una macchina per scrivere. La pubblicità tra visione di marca e visione del mondo", qui il resoconto.

Gli autori di Vorrei
Pasquale Barbella
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