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alla crisi del governo Prodi in poi, dopo quindici anni di durissime contrapposizioni abbiamo assistito alla ripresa di un clima politico che sembra caratterizzarsi per il reciproco riconoscimento e rispetto e per una ritrovata disponibilità al dialogo, con la volontà di realizzare insieme le grandi riforme istituzionali.

Nella cosiddetta Prima Repubblica questo tipo di relazione tra maggioranze e opposizioni era un dato consolidato e presente nella cultura sia a livello nazionale che locale.

Le due più grandi forze politiche di allora, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, principali artefici della stesura della Costituzione Italiana, pur in presenza di un sistema elettorale proporzionale, già allora si ponevano de facto l’una di fronte all’altra con una approccio “bipolare”. Il riconoscimento reciproco era ritenuto fondamentale per l’interesse del nostro paese.

Pur nella chiara distinzione dei ruoli di maggioranza e opposizione, nelle forze politiche del tempo c’era un patrimonio di cultura politica comune, consolidato e reciprocamente riconosciuto: il sistema di valori nati dalla resistenza al nazifascismo, l’interesse generale del paese, una concezione della politica come servizio da rendere al paese e alle comunità locali.

Di conseguenza nella aule parlamentari e nel nostro Consiglio comunale per decenni, anche quando lo scontro di merito era duro e contrapposto, non veniva meno una modo di rapportarsi “civile” nel cercare assieme le soluzioni migliori nell’interesse del Paese o della città e nella relazione politica ma anche personale.

È in questo clima che anche a Monza ebbero la possibilità di affermarsi nei due partiti maggiori (come in altri) figure politiche di grande spessore. Persone il cui valore era riconosciuto da tutti come l’ex sindaco democristiano Elio Malvezzi e Vladimiro Ferrari del PCI.

Ma anche nelle stagioni permeate dalle migliori intenzioni a lungo andare si sono andate producendo alcune storture che incisero poi pesantemente sulla crisi del sistema politico prima, e in seguito sullo stesso sistema dei partiti. La pratica di allora aveva un nome: consociativismo. In parole povere la possibilità di mettersi d’accordo sulle questioni importanti dividendosi oneri e onori. Le scelte “condivise” andavano ad impattare sulle grosse tematiche urbanistiche, edilizie o nel caso dei comuni sulle stesse aziende municipalizzate. L’avvento di Tangentopoli quando ancora si respirava ampiamente questo clima, e la crisi dei partiti che ne seguì, misero in luce pur con responsabilità diverse un deterioramento etico e politico trasversale agli schieramenti. La DC scomparve e il PCI fu costretto ad accelerare il proprio cambiamento.

La domanda che sorge è quindi questa: c’è qualche analogia tra i nuovi “rapporti” a livello nazionale tra PD e PdL, le condizioni di maggiore urbanità ricreatesi dopo le risse della precedente amministrazione anche nel nostro Consiglio comunale, e il clima che caratterizzava la già citata Prima Repubblica? Nel nuovo “clima di collaborazione e cooperazione” non c’è il rischio a lungo andare di confondere ruoli e programmi? Della scomparsa di una reale autonomia del governo e di una reale opposizione che confermi il “tanto sono tutti uguali” che la campagna mediatica sulla “casta” e il “grilliamo” sembrano avere prestato alla cultura e al modo di ragionare di tanti italiani? E nel caso di Monza, il voto unanime in Consiglio comunale sul nuovo PGT prelude ad altri accordi tra le due parti, col rischio di nuovi consociativismi?

Roberto Scanagatti
Dopo anni di forti contrapposizioni ideologiche (anticomunismo) o personali (antiberlusconismo), l’attuale ripresa di un clima politico positivo, di dialogo, ha qualche analogia con la tradizione degli anni ‘70 e ’80, quella della cosiddetta Prima Repubblica, e in particolare col rapporto di allora tra le due forze principali, la DC e il PCI?

Non mi pare di trovare analogie o, se vi sono, ancora non emergono. I motivi sono tanti ma su uno vorrei centrare l’attenzione. A differenza di ciò che avvenne negli anni ’70, oggi non siamo in presenza di una consistente partecipazione attiva alla vita politica. Allora esistevano categorie sociali forti, capaci di incidere e condizionare l’azione dei partiti fino a dettarne l’agenda politica. Un vento di protagonismo collettivo che, peraltro, aveva soffiato anche su gran parte del resto d’Europa. Con questo bisogno di partecipazione i partiti tutti, nessuno escluso, dovettero fare i conti. Quando la tragedia del terrorismo tentò di minare alle fondamenta lo stato democratico, la reazione unitaria di quasi tutte le forze politiche, ed in particolare della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, fu decisiva. Mi pare che la ripresa del dialogo di questi giorni sia dettata da ragioni per certi versi opposte. Nasce dalla costatazione che la misura è colma e che il processo di disgregazione tra politica e paese reale è giunto ad un limite pericoloso. La frammentazione del tessuto sociale ed economico, accanto alle grandi sfide della globalizzazione, rende tutto più difficile. Spero che per questo si torni al confronto, perché c’è consapevolezza che se ne esce solo attraverso risposte adeguate, che non sono sicuramente appannaggio di una sola parte. A livello locale, dopo i cinque anni di dura contrapposizione in aula consiliare della precedente amministrazione, sembra prevalere un rapporto corretto tra maggioranza e opposizione e l’impegno a trovare accordi nell’interesse della città, come nel caso del Pgt.

In passato Monza aveva saputo esprimere una lunga stagione di reciproco rispetto politico e istituzionale nel quale operarono pur su fronti diversi, grandi personaggi che lavorarono per l’interesse della città. Anche in questo caso, c’è una qualche analogia tra presente e passato?
Le tossine prodotte dai comportamenti in aula a cui abbiamo assistito nei cinque anni dell’Amministrazione Faglia a volte avvelenano ancora il clima dell’aula consiliare. D’altronde non si era mai assistito a comportamenti del genere. Per eliminare definitivamente ogni residuo, sarebbe bene che i principali protagonisti di quegli episodi facessero ammenda. Prima questo accadrà, meglio sarà per tutti. Per il resto sarebbe sufficiente considerare che non si è lì per rappresentare se stessi ma chi ci ha eletto. Utilizzando questa semplice regola, unita alla consapevolezza di appartenere ad un’istituzione democratica, credo che potremmo interpretare al meglio la nostra funzione. Noi abbiamo cercato di svolgere un ruolo di opposizione senza dubbio diverso dalla precedente, con qualche risultato. Sulla vicenda del Pgt, ma anche in altre situazioni, quando le nostre proposte erano sensate e la maggioranza si è posta in condizione di ascolto, abbiamo contribuito a migliorare i provvedimenti amministrativi. Certo il clima di vent’anni fa era di tutt’altro genere. Anche solo sul piano dei comportamenti. Raramente il Sindaco – che allora svolgeva le funzioni anche di presidente dell’assemblea – era costretto a richiamare l’aula per il vociare, la confusione, l’andirivieni. Ora il Presidente interviene raramente, quasi sconsolato, perché tanto sa che è inutile… Eppure negli anni passati gli scontri sul piano dei contenuti erano fortissimi, senza esclusione di colpi. La differenza però era che le parole avevano un valore. Da qualunque parte provenissero. Oltre al fatto che spesso chi le pronunciava aveva una storia politica importante da poter raccontare. Costruita con passione e – perché non dirlo – sacrificio. In fondo la differenza tra ieri e oggi, forse è tutta qui: le parole avevano un peso, contavano, perché chi le pronunciava aveva idee da esprimere. Ora non sempre accade e le parole non valgono più.

La volontà di dialogo e la cooperazione tra maggioranze e opposizioni produssero a lungo andare, nella Prima Repubblica, fenomeni deteriori come il consociativismo a livello locale. Attualmente, da più parti, si denuncia il rischio che venga meno l’autonomia dei ruoli tra chi governa e chi fa opposizione. Il cosiddetto “inciucio”. Sono esistiti ed esistono realmente questi pericoli?
Sicuramente i rischi ci sono. L’idea stessa del consociativismo è, credo, la negazione di un principio fondamentale della democrazia, che assegna a chi raccoglie più consensi il compito di governare. D’altro canto l’opposizione, oltre a svolgere un ruolo di controllo e di denuncia, sono convinto abbia il diritto, se ne è capace, di incidere sulle scelte che la maggioranza compie, in coerenza con i contenuti del proprio programma. Come pure credo che su questioni di grande rilevanza o quando si devono scrivere le regole, una maggioranza avveduta farebbe sempre bene a tentare di allargare i confini del consenso istituzionale. L’inciucio avviene quando maggioranza e opposizione, annullando le reciproche differenze, si incontrano con l’obiettivo di tutelare interessi reciproci di parte. Escludo che nel passato fosse presente in città una prassi politica di questo genere. Semmai il problema per chi è minoranza può essere un altro, quello cioè di ricercare una sorta di legittimazione politica, rinunciando ai propri valori, mostrando una subalternità culturale. Questo, per fortuna, e parlo per la mia parte, personaggi come Vladimiro Ferrari e Franco Antelli – per citarne due a me tra i più cari – non ce l’ hanno insegnato.

Alfonso Di Lio
Dopo anni di forti contrapposizioni ideologiche (anticomunismo) o personali (antiberlusconismo), l’attuale ripresa di un clima politico positivo, di dialogo, ha qualche analogia con la tradizione degli anni ‘70 e ’80, quella della cosiddetta Prima Repubblica, e in particolare col rapporto di allora tra le due forze principali, la DC e il PCI?
Premetto che ogni epoca ha le sue peculiarità, anche in politica, per cui non sono sovrapponibili espressioni culturali che possono registrare della analogie. È vero che, esauritesi le spinte nate dalla caduta del muro di Berlino, oggi è sempre più possibile ripensare e riconsiderare le ragioni di scelte che hanno determinato la storia degli ultimi sessant’anni. Sta cadendo in disuso il termine “revisionismo”, vero spauracchio per chi, da sinistra, ha tentato, in un passato anche non molto lontano, di rileggere con occhio più nitido avvenimenti e scelte dalla caratura fortemente ideologica. Da parte della destra è stata fatta una scelta di chiusura netta col passato. Insomma, oggi è in effetti possibile, se lo si vuole, cercare ciò che unisce piuttosto che ciò che divide, pur nel rispetto delle differenti posizioni. Ed è proprio questo rispetto che io ricordo come atteggiamento prevalente nella battaglie politiche degli anni Settanta e Ottanta. Quale la ragione? Probabilmente allora il forte senso di appartenenza e di militanza di ciascuno generava, insieme con un’altrettanto forte spinta alla affermazione delle proprie posizioni, la considerazione che anche l’altro fosse comunque mosso da un’eguale convinzione che le proprie idee avessero il diritto di affermarsi o di prevalere. Oggi, quindi, il confronto si gioca più sulla ricerca di soluzioni concrete ai problemi della società che sull’affermazione di una propria visione globale della società stessa, e questo dovrebbe favorire la distensione e una maggiore disponibilità al confronto dialettico. A livello locale, dopo i cinque anni di dura contrapposizione in aula consiliare della precedente Amministrazione, sembra prevalere un rapporto corretto tra maggioranza e opposizione e l’impegno a trovare accordi nell’interesse della città (vedi il Pgt).

In passato Monza aveva saputo esprimere una lunga stagione di reciproco rispetto politico e istituzionale nel quale operarono pur su fronti diversi, grandi personaggi che lavorarono per l’interesse della città. Anche in questo caso, c’è una qualche analogia tra presente e passato?
Io non sono d’accordo nel definire in modo così categorico le differenze fra il modo di fare opposizione di prima e quello di adesso. Le modalità non sono figlie di una sola parte né vengono sposate e messe in pratica da tutti, in ogni occasione. Probabilmente oggi ci sono delle condizioni più favorevoli al dialogo: senza dare primogeniture, è un bene che il clima cambi, se si vuole lavorare a beneficio della città.

La volontà di dialogo e la cooperazione tra maggioranze e opposizioni produssero a lungo andare, nella Prima Repubblica, fenomeni deteriori come il consociativismo a livello locale. Attualmente, da più parti, si denuncia il rischio che venga meno l’autonomia dei ruoli tra chi governa e chi fa opposizione. Il cosiddetto “inciucio”. Sono esistiti ed esistono realmente questi pericoli?
Alcuni termini, come compromesso storico o consociativismo, sono collocabili storicamente e non so se abbiano cittadinanza nella vita politica attuale.
Credo che il termine “inciucio”, oltre ad evocare un livello qualitativo scadente della politica, stia comunque sparendo dal lessico abituale. Anche se pericoli di un ritorno a forme deprecabili di commistione sono sempre in agguato, ritengo che tutti abbiamo il dovere di fare tesoro degli errori del passato, per contribuire a costruire un clima e un modo di rapportarci più consono ad un paese che vive alcune difficoltà strutturali, per affrontare e superare le quali occorre uno spirito nuovo.