Una riflessione sull'inquietante monito lanciato dalle canzoni, apparentemente “leggere”, che hanno fatto da colonna sonora all'estate 2018.
Estate 2018. Quali canzoni ha passato il convento? In molti casi, le solite: usa e getta, di poche pretese, scacciapensieri, con un ritornello studiato ad arte per essere “tormentone”, ossia un “grande tormento” per le nostre orecchie. Perché lo stillicidio è stato incessante: in spiaggia, in discoteca, in automobile, in televisione o seduti al tavolino di un bar davanti a una gigantesca coppa di gelato. Proprio per questo, ci è entrato nel cervello ed è andato in loop.
Questo meccanismo - che non attiene solo alla sfera della musica - non è affatto una novità. Qualcuno infatti sostiene che il primo vero tormentone estivo risalga al 1983 (Vamos a la playa - «Oh! Oh! Oh! Oh! Oh!» - dei “fratelli” Righeira), ma in realtà è possibile retrocedere almeno all'inizio degli anni Sessanta, ai tempi di Legata a un granello di sabbia di Nico Fidenco. Di fatto, è ormai una tradizione ben radicata: si pensi che, nel 2001, dopo la sbornia da Vamos a bailar di Paola e Chiara, Raf incise l'ironica Allegro tormentone, in cui recita: «Niente ci salverà da una stupida canzone / È dissenteria da tormentone. / Chi non ha odiato mai una stupida canzone?».
È vero, i tormentoni sono brani-stalker che si fanno “odiare”, eppure non vanno demonizzati, perché tutto sommato hanno un intento nobile: quello di distrarci, farci dimenticare - almeno per una sera (o forse per un'intera estate) - le angherie dell'esistenza e i pensieri negativi (e non ne mancano di questi tempi!). Simone Cristicchi, già nel 2011 - in piena crisi economica - cantava: «La gente non ha voglia di pensare cose negative: / la gente vuol godersi in pace le vacanze estive» (Meno male, 2011). E aveva ragione!
Ritengo dunque che la canzone estiva assolva a una funzione socialmente utile, dal momento che, almeno per un po', mette tra parentesi i guai e ci invita ...«a bailar». Ma siamo sicuri che si tratti sempre e solo “canzonette” - per dirla con Bennato - così sostanzialmente diverse da quelle “impegnate”?
Partiamo dal presupposto di Jovanotti, che all'inizio di quest'anno – 2018 - ha pubblicato un brano intitolato Le canzoni: «Le canzoni non devono essere belle, devono essere stelle, illuminare la notte, far ballare la gente». Così recita il cantautore di Cortona, che sembra ricordarci la funzione della musica cosiddetta “leggera”: se da un lato deve distrarre, divertire, «far ballare» appunto, dall'altro guida all'introspezione o, quanto meno, invia segnali al nostro inconscio per indicarci la via d'uscita dalle zone tenebrose dell'esistenza.
Le canzoni (anche le più semplici, le più orecchiabili, le più brutte) vanno invece annoverate tra gli altri mass media, perché veicolano dei messaggi. Specchio della società che le ha prodotte, non possono essere prive di contenuto.
Io non ho mai amato vezzeggiare il termine “canzone”, perché ritengo che la parola “canzonetta” di base screditi il genere. Le canzoni (anche le più semplici, le più orecchiabili, le più brutte) vanno invece annoverate tra gli altri mass media, anzitutto perché veicolano dei messaggi. Esse sono infatti specchio della società che le ha prodotte e, proprio per questo, non possono essere prive di contenuto. E ciò, si badi, vale anche per pezzi “antichi” come Vamos a la playa che, lungi dall'essere un brano superficiale, giustifica la propria ragion d'essere in quel contesto di rinnovata guerra fredda che furono i primi anni Ottanta, quelli degli scudi stellari di Ronald Reagan, della paura di un conflitto atomico e del film The Day After.
Anche le canzoni che ci hanno “tormentato” durante l'estate 2018 hanno fatto ballare e distratto dai problemi quotidiani, ma in realtà hanno raccontato qualcosa di più profondo: nello specifico, la storia di una lunga notte, un tunnel in cui noi, intesi come società e Paese, ci siamo infilati (o siamo stati infilati), ma da cui ormai sarebbe opportuno uscire.
Molti dei brani di quest'anno ruotano, come mai prima, intorno a due questioni: da un lato, la dipendenza da smartphone e social network, dall'altro il bisogno di viaggiare verso località esotiche. Attenzione, non si tratta di una novità assoluta (basti pensare a Milano-Bangkok di Giusy Ferreri e Baby K oppure a Vorrei ma non posto di J-Ax e Fedez, entrambe del 2016): va però rilevata da un lato la combinazione dei due temi, dall'altro la loro ricorrente presenza nelle hit del 2018.
Certo, la canzone estiva, fin da quando i discografici ne fiutarono il business - all'inizio degli anni Sessanta - ha sempre fatto riferimento a «spiagge», «mari» oppure «pinne, fucili ed occhiali», ma l'ambientazione era di norma italica (e, a pensarci bene, persino lo scorso anno impazzava la Riccione dei Thegiornalisti).
Molte invece sono le canzoni del 2018 che raccontano di “fughe” verso paesi stranieri, per lo più esotici, meta di chi cerca un po' di spiritualità e “natura”, lontano finalmente dalla folla e dai comportamenti conformistici, come quelli insiti nell'uso morboso del telefono cellulare.
Già a gennaio, Francesca Michielin aveva pubblicato l'album 2640, nato proprio a partire dal desiderio della cantante di rifugiarsi in Colombia. Così, canta in Bolivia: «Portami in Bolivia per cambiare tutto! / Spegnerò il telefono, / sarò libera e indipendente». Altri brani del suo disco (un paio usciti nel 2017) tradiscono sin dal titolo il desiderio della cantante di trovarsi “altrove”: si pensi a Io non abito al mare, Tropicale, Tapioca, Vulcano e Lava.
Sono poi uscite le “canzoni dell'estate”, a cominciare dall'immancabile tormentone da compagnia telefonica (dalla pubblicità al call center), secondo una tradizione che dura da quasi vent'anni (ossia dalla stagione immediatamente successiva al decreto Bersani del 1998): è Da zero a cento, canzone ambientata a Maracaibo, in cui la rapper Baby K puntualizza che «Io cerco il mare, mentre tu cerchi il Wi-Fi».
Intanto, Loredana Bertè, tornata al successo grazie a Non ti dico no dei Boomdabash, mette in guardia: «Questa sera non ti dico “no”. / Puoi portarmi fino in Messico, / ma non andiamo al mare! / In qualunque posto / c'è troppa gente d'agosto» (qualche verso dopo, la meta preferenziale diventa la Cina).
In Nero Bali, interpretata da Elodie, il confronto tra chi è incapace di uscire dal pantano esistenziale e chi invece è capace di guardare “oltre” è icasticamente descritto nel verso: «Buttiamo in mare il cellulare. / Io vedo nero, tu vedi Bali».
Tra le canzoni dell'estate (non per forza tormentoni) spicca anche Kashmir Kashmir di Cesare Cremonini, dal titolo sufficientemente eloquente, in cui viene raccontata la storia di un immigrato in Italia. Di fronte ai pregiudizi, il cantautore rivendica: «Voglio girare il mondo, non andarci contro».
C'è un cenno a social e viaggi esotici anche in Ti ricordi di me? , interpretata da Alessio Bernabei: «È che mi piaci anche senza “like”. / Ricordi quel viaggio a Dubai?», mentre il messaggio è subliminale in Amore Zen (si pensi al titolo) de Le vibrazioni, in cui d'altronde si prende in giro il culto occidentale dell'immagine.
Il tema dell'identità, in una società in cui l'essere sembra prevalere sull'apparire, è per altro affrontato in modo paradigmatico in Faccio quello che voglio, video-canzone di Fabio Rovazzi: il protagonista ruba le sembianze e la voce di alcuni artisti - dunque fugge anche lui, braccato dalle forze dell'ordine - ammettendo che «attirati dal male, / l'onestà non ha budget: / tutto ciò che è vietato ci piace».
Pure Fabri Fibra, nel featuring al brano Fotografia, puntualizza: «Mille messaggi, sempre la stessa faccina, ma se non usi i social nessuno si fida».
Alcuni, come Le Deva, non hanno però nulla da obiettare: «Mi manca il suono del dj, / i selfie in spiaggia che ti fai» (L'estate tutto l'anno).
Non troviamo alcun riferimento alla tecnologia nella hit Amore e Capoeira - di Takagi e Ketra feat. Giusy Ferreri e Sean Kingston -, dove però è presente la solita istanza di fuggire («Avevo solo voglia di staccare, andare altrove / non importa dove, quando, non importa come»), naturalmente in luoghi esotici - come suggerisce il riferimento alla capoeira, arte marziale brasiliana.
Persino il social-dipendente Gianni Morandi (che, dopo Volare di Fabio Rovazzi, torna a occuparsi di aerei) va annoverato in questo elenco: in Ultraleggero canta - su testo di Ivano Fossati - di viaggi in terre lontane («Le donne [...] sognano posti di cui non hanno mai sentito parlare: / il cuore della Cina»).
A questo punto la domanda è: cosa può avere ispirato la creatività di tanti artisti incanalandola verso una destinazione comune, il topos del viaggio oltreoceano?
Che questa voglia di esotico sia stata suggerita dal cinquantesimo della rivoluzione sessantottina e dalle suggestioni orientaleggianti che tanto influenzarono la moda e la musica di quei mesi “caldi”?
Che il successo dell'ironica reprimenda di Francesco Gabbani, Occidentalis Karma (2017), possa aver stimolato a una comprensione più seria del concetto di Oriente, che è anzitutto una condizione dell'anima e non un fotogramma da “taggare”?
Che la fonte di ispirazione vada ricollegata anche all'emergere e affermarsi di artisti immigrati di seconda generazione (come il Ghali di Cara Italia)?
Sarà stato il “fuggi fuggi” da un concetto di Europa che ormai fatica sempre più a sopravvivere perché, così come attuato, si è rivelato non all'altezza degli ideali in nome dei quali era stato concepito?
È comunque indubbio che c'entrino la tecnologia e il fatto che siamo un popolo dalla spiccata dipendenza da cellulare: qualcuno inizia evidentemente a invocarne la disintossicazione.
Così, in effetti, nelle canzoni dell'estate 2018 non sempre il viaggio è auspicato per forza come reale e, a volte, è semplicemente metaforico. Per Annalisa, ad esempio, è un'esperienza da vivere con la mente: «Ti faccio fare un viaggio dentro di me […] / Ti mostro un mondo che nella realtà non c'è» (Bye Bye).
Nella realtà o nella fantasia, in ogni modo, si vagheggia un altro scenario e si sogna di tagliare la corda - di allontanarsi da un universo virtuale che lede l'autenticità dei rapporti, da una società che vive di cliché, da una classe politica che non mantiene le promesse - in cerca di “natura” e “verità” (quella trasparenza che alberga nel cuore di ognuno): «Ho bisogno di qualche cosa di vero / come l'aria, la terra, il sole ed il cielo», aggiunge Annalisa.
Il messaggio è chiaro: il disagio è collettivo, ci pervade totalmente ed è anzitutto esistenziale. C'è qualcosa di inquietante che sta modificando le nostre vite, facendoci perdere non solo il contatto con la realtà ma anche, forse, la capacità di comunicare e di provare empatia: peculiarità degli esseri umani.
Le canzoni di quest'estate, che ci hanno “tormentano” durante le vacanze, sembrano dunque di primo acchito frivole e prive di pretese. Nei fatti, però, raccontano «una storia italiana» - per dirla con J-Ax e Fedez - e il disagio che la caratterizza, avvertendoci: “Attenzione, gente: non è che ci stiamo perdendo qualcosa? A furia di vivere sempre connessi e di cercare like, non stiamo forse perdendo la capacità di credere in noi stessi? Non stiamo forse disintegrando i valori più autentici, i soli che possono farci provare l'ebbrezza di essere vivi e di essere umani?”.
Stiamo giocando col fuoco.
Andiamo a guardarci (o rivederci) film come The Circle, Perfetti sconosciuti o Non c'è campo (o, meglio ancora, qualche episodio della serie tv Black Mirror –segnalo in particolare Orso bianco, Zitto e balla e Caduta libera) e meglio comprenderemo l'inquietudine sottesa a una «stupida canzone».