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Quella de Il Trono di Spade non è solo la fine di una serie, è la fine di un tipo di narrazione, un evento legato a grandi zone tematiche, estese tra le modalità di espressione della televisione e la fruizione degli spettatori, la nascita dei servizi streaming a formato liquido e il cambiamento di un tipo di narrativa di prestigio.

In Italia Il Trono di Spade non è un fenomeno mediale indifferente (il primo episodio della settima stagione è stato visto da mezzo milione di persone). L’approccio verso la sua presenza nell’immaginario culturale non deve quindi essere inerte. Comprendere il senso del suo segno narrativo nel panorama vasto e intrecciato della serialità — se si vuole evitare di allinearsi a una prospettiva scollata o distratta dalla realtà dei contenuti — è necessario per acquisire cognizione del peso di un prodotto ormai molto presente nella realtà quotidiana delle persone, nella loro gestualità comportamentale. La fine de Il Trono di Spade non è infatti solo la fine di una serie, è la fine di un tipo di narrazione, un evento legato a grandi zone tematiche, estese tra le modalità di espressione della televisione e la fruizione degli spettatori, la nascita dei servizi streaming a formato liquido e il cambiamento di un tipo di narrativa di prestigio. La celebrazione degli ultimi episodi della serie di HBO (in Italia trasmessa da Sky Atlantic) è infatti funzionale non solo all’attestazione di un momento della storia della serialità ma anche alla possibile apertura di una riflessione sul formato.

Il Trono di Spade non ha inventato un nuovo modo di fare televisione, non rappresenta il primo tassello dell’inizio del futuro della serialità

In primis, per avvicinare il contenuto dell’evento, sembra opportuno specificare che Il Trono di Spade non ha inventato un nuovo modo di fare televisione, non rappresenta il primo tassello dell’inizio del futuro della serialità e non è l’obiettivo a cui tende la nuova creatività seriale. Anche se è facile pensare alla serie di HBO come un prodotto unico o molto raro, la sua confezione cinematica - cioè la cura nella produzione di un comparto formale a livello del grande cinema per soldi e dispiegamento di mezzi - non deve suggerire che sia stata l’acme inarrivabile di questo media, il culmine massiccio e insormontabile, il non plus ultra. Piuttosto, la serie tratta dai romanzi di Martin ha corso in parallelo con il tramonto di un modo di fare televisione, quello cosiddetto della prestige television. Il suo pregio più che quello di essere l’apripista è quello di rappresentare la coda, di segnare la fine di un tempo, di una visione della narrativa.

Con prestige television si classifica un particolare gruppo di show televisivi caratterizzati da una intensa cura nella confezione formale e una calcata attenzione nell’utilizzo di tematiche importanti. Si tratta del risultato ultimo (nel senso di contemporaneo) del proseguimento di una politica editoriale nata negli anni ‘90 grazie ad HBO e pensata per produrre dentro alla tv una tv di qualità più elevata. Serie come Oz, The Wire e I Soprano sono esempi della quality tv di quegli anni: drammi con più stagioni e episodi a lunga durata, incentrati su personaggi complessi, calati in mondi altrettanto stratificati; show definiti da un approccio che all’epoca era molto poco televisivo e che vantava la propria tensione verso il cinema e la letteratura come un motivo di distacco dal resto della concorrenza. Anche se non è questa la sede per ragionare sulle dinamiche relative alla trasformazione di questo tipo di racconti, si può facilmente far notare come nel corso del tempo siano scomparsi dal paesaggio dei contenuti offerti dalle case di distribuzioni e dai servizi streaming.

Serie come Oz, The Wire e I Soprano sono esempi della quality tv di quegli anni: drammi con più stagioni e episodi a lunga durata, incentrati su personaggi complessi, calati in mondi altrettanto stratificati

Le motivazioni della scomparsa sono due: l’incremento dell’offerta produttiva e la maturazione del formato. Sono sempre di più le serie tv prodotte ogni anno (dati del 2016 ne attestavano 455) ed è sempre più difficile guardare anche solo tutte le più meritevoli. In più l’avvento dei servizi streaming ha comportato una modifica importante nella fruizione dei contenuti: la grandissima offerta e la nuova moda di consumare le serie in breve tempo grazie al binge watching hanno introdotto una riflessione sulla necessità (su qualsiasi fronte produttivo) di modificare la lunghezza degli episodi e delle stagioni da parte di reti e autori. Il risultato, oltre alla formazione di una serialità interessata a costruire show di durata contenuta, è stata la spinta ai margini (dell’occasionalità produttiva) delle storie di genere drammatico pensate con la struttura della quality tv, con quella impostazione tesa verso la letteratura e il cinema non più necessaria.

La televisione non ha più bisogno di legittimarsi con i riferimenti che la legano ad altri tipi di narrazione

Il long drama è quindi la cenere da cui rinasce la riflessione sul formato. Nella contemporaneità dei contenuti la televisione non ha più bisogno di legittimarsi con i riferimenti che la legano ad altri tipi di narrazione: il suo passo procede su orizzonti personali che hanno interiorizzato le possibilità e i codici espressivi di quei medium dopo un lungo percorso. Essendo quindi già trascorse le epoche dei grandi drammi narrativi, simili per costituzione e struttura a romanzi spalancati dalla dilatazione delle descrizioni psicologiche e dallo sviluppo ossessivo delle linee orizzontali, Il Trono di Spade – che è una delle ultime, se non proprio l’ultima, narrazione di questo tipo - rappresenta probabilmente la conclusione simbolica, non a caso gigantesca e pomposa, delle serie tv drammatiche trascinate da una narrazione con molti personaggi e da un’atmosfera legata ad un lento e compassato ritmo.

È un’esperienza mediale importante assistere alla fine di un’epoca, ad un evento in grado di centrare e direzionare lo sguardo su un momento di cambio. Partecipare alla visione delle ultime puntate della serie HBO significa sostare sull’angolo acuto del crinale che spezza in due lo spazio, guardare il cambiamento in corso dal punto da cui si può avere la visione di insieme e quindi esserne testimoni: si può così leggere nella struttura magniloquente della serie la filigrana della narrazione del futuro e dissotterrare nella mitologia della sua diegesi l’humus semiotico di una nuova modalità di racconto, che risponde al nostro tempo e non è più “televisione come letteratura o come cinema” ma proprio forma di televisione che è televisione e ragiona su questa identità esistenziale riguadagnata. In un’epoca in cui il medium della televisione è stato assorbito nel tessuto gestuale delle persone, serie tv che ragionano su loro stesse (più o meno esplicitamente) o sui contenuti che racchiudono sono necessarie.

In un’epoca in cui il medium della televisione è stato assorbito nel tessuto gestuale delle persone, serie tv che ragionano su loro stesse (più o meno esplicitamente) o sui contenuti che racchiudono sono necessarie.

Il Trono di Spade è invece una serie evento non più necessaria, un pezzo di storia che alla sua ultima stagione collegherà tutti i puntini sperando di formare una rete abbastanza forte per sostenere il peso della sua chiusura definitiva. La sua spettacolarità, i suoi episodi lunghi ore, l’alta densità della sua narrazione sono elementi che hanno fatto il loro tempo: non perché non ci sia più bisogno di storie, ma perché in questo momento c’è un bisogno di storie raccontate in modo diverso. Il pensiero della serialità si spinge oltre la narrativa di prestigio impegnata nella autolegittimazione di se stessa e nel vanto anacronistico di caratteristiche cinematografiche, e accoglie un futuro che riscrive le regole dei generi sulla spinta di un postmodernismo ancora vivo e sull’onda di una creatività ancora eccitata dalle proprie, inesplorate potenzialità.

Gli autori di Vorrei
Leonardo Strano
Leonardo Strano
Leonardo Strano studia Filosofia, scrive di cinema e serie tv e ogni tanto scappa in un teatro. Ama quando si rompe la quarta parete, il minimalismo musicale degli anni '70 e i colpi di scena. Spera un giorno di diventare meno serio.