Il successo del Biografilm Festival di Bologna invita a una riflessione sugli elementi che legano manifestazioni culturali e territorio.

Dare senso a una manifestazione culturale è una faccenda dannatamente complessa. Specie oggi, e specie in Italia. Ragioni economiche e culturali giocano una partita complessa, che si misura con la coscienza del territorio. Su queste pagine, già in passato ci fermammo a riflettere sulla questione.

Va detto però che già da un paio d'anni il fenomeno – dopo l'esplosione di festival cittadini del decennio 1997-2008 – ha iniziato a segnare una contrazione. Desta quindi interesse lo strano caso del Biografilm Festival di Bologna, concluso il 15 giugno e giunto quest'anno (con successo) alla sua quinta edizione. Proviamo a carpirne qualche insegnamento.

Il Biografilm, come si intuisce, è un festival di film biografici. Il sottotitolo chiarisce il concetto: si tratta di una International Celebration of Lives. Il dettaglio non è ozioso. L'intera proposta della manifestazione si costruisce intorno a un tema portante, ma a sostanziare le giornate sono i percorsi giornalieri di approfondimento, dedicati alle vite di singoli personaggi della cultura.

Quest'anno, per celebrare il quarantennale del celebre raduno musicale, il Biografilm ha scelto come tema Back to Woodstock. I focus giornalieri sono stati invece dedicati ai fratelli Warner, a Galileo Galilei, a Klaus Kinski, a Groucho Marx e Andrea Pazienza.

Per cinque giorni la manifestazione ha occupato i luoghi della Manifattura delle Arti, un quartiere ex-industriale riadattato dal Comune come officina artistica della città. Vi hanno sede il Dipartimento di Scienze della comunicazione, la prestigiosa Cineteca di Bologna, uno studentato e i laboratori del Dams.

La maggior parte degli eventi legati al festival si è svolta negli spazi della Cineteca: le due sale e il raccolto cortile antistante. Questi luoghi sono stati interamente scenografati: un “Woodstock Village” è stato allestito davanti alla Cineteca, con tanto di erba sintetica, istallazioni artistiche, schermi psichedelici e fiori di pannolenci. Può suonare di cattivo gusto, ma l'effetto è stato magnifico. Quasi ogni sera il pubblico ha affollato il manto erboso, cantando e discutendo fino a tarda notte. Gli ospiti del festival – protagonisti dei film e protagonisti della Woodstock originale, radunati dall'organizzazione per una riunione celebrativa – si sono mescolati tra le persone come fossero a casa, in un'atmosfera di integrazione perfetta. Proprio questa capacità di riambientare negli spazi del festival un evento (Woodstock) e i suoi valori ha costituito un formidabile fattore di successo. Ed è meraviglioso come un tappeto d'erba sintetica sia sufficiente a sostanziare la sensazione di coappartenza a un luogo e una cultura che – per lo più – non si hanno mai visto.

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D'altro lato, la validità della proposta si è costruita anche grazie al suo deciso profilo internazionale. La giuria, i registi in concorso, gli ospiti di Woodstock: un calderone di lingue e nazionalità che ha dissipato all'istante ogni sensazione di provincialismo, mentre l'attenzione sulle vite ha evitato che la diversità restasse una colorita facciata. Ognuno dei presenti aveva un senso, e – quel che conta – lo aveva anche per il pubblico che aveva imparato a conoscerlo, attraverso i film e gli incontri. E poi – sia detto per inciso – la nipote di Groucho Marx è una delle donne più belle del continente.

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A questi elementi – ambienti e internazionalità – va aggiunta infine la capacità e la lucidità dell'organizzione. Il direttore Andrea Romeo e la CultureBusiness (che organizza anche il Future Film Festival e il Milano Film Festival) hanno saputo costruire un discorso, prima che una macchina logistica. Alla conferenza stampa finale, Romeo ha sottolineato l'esigenza di un superamento della proposta di Woodstock da parte della nostra generazione. Proprio la chiave dell'incontro generazionale è quella che ha saputo tenere insieme le molteplici facce del festival: dalla retrospettiva dedicata a Julien Temple e alla grande stagione della controcultura musicale britannica fino ai numerosi biopic incentrati sul rapporto padre-figlio (due su tutti: In a Dream di Jeremiah Zagar e Persona non grata di Fabio Wuytack).

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Da segnalare a margine il positivo coinvolgimento degli studenti, conseguito attraverso precise strategie di promozione. E il carattere del pubblico si è sentito tutto nelle notti del festival, quando ospiti e frequentatori si sono ritrovati gli uni accanto all'altro per ore e ore di musica e discorsi. Sabato 13 ha segnato il picco, con oltre tremila presenze – per lo più giovani – al Village. Non c'era servizio di sicurezza, ma – alla faccia della retorica securitaria che imperversa anche qui – non ci sono stati incidenti di nessun tipo. Soltanto Peace, Love and Music.

Le fotografie del Woodstock Village e di Jade Marx sono di Francesca Pontiggia. Si ringrazia l'ufficio stampa del Biografilm Festival per il ritratto di Julien Temple, realizzato da Giancarlo Donatini.

Gli autori di Vorrei
Pasquale Cicchetti