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Pietre e stelle, memoria e sogno. Il legame con la Lucania. L'incontro con lo scrittore e il suo nuovo romanzo L’albero di stanze per la rassegna Mirabello Cultura 2016

 

Ancora un intenso appuntamento della Rassegna Mirabello Cultura 2016, il 18 febbraio,  in una bellissima cornice: quella del Belvedere della Villa Reale, con le vetrate affacciate sul cielo del parco all’imbrunire a far da sfondo ad un affascinante racconto di stanze che si arrampicano l’una sull’altra fino a sfiorare le stelle, di pareti che parlano a chi sa ascoltare, di uomini e donne che sanno ricordare e sognare oltre i limiti angusti della propria vita e dei suoi spazi.

Una serata in cui Giuseppe Lupo, invitato dalla Casa della Poesia di Monza, ha presentato il suo nuovo romanzo, L’albero di stanze, in cui  ripercorre con la memoria e l’immaginazione il mondo ancora incantato della sua terra d’origine, la Lucania,  lungo tutto il secolo scorso, attraverso le vicende favolose di una famiglia, dal suo capostipite all’ultimo discendente che se ne fa narratore nel momento del passaggio al nuovo millennio. Legata alla Lucania, come ricorda Antonetta Carrabs, la Casa della Poesia è da tempo anche attraverso il Premio di Poesia intitolato alla poetessa lucana Isabella Morra, e la sua vicepresidente, Elisabetta Motta, che ha condotto la presentazione, conosce e segue lo scrittore dai tempi dei suoi studi accademici.  

20160222 casa della poesia giuseppe lupoLupo, infatti,  poco più che cinquantenne, è professore di Storia della Letteratura Contemporanea a Milano e a Brescia presso l’Università Cattolica, oltre che autore di numerosi romanzi, fra i quali vengono ricordati i più recenti, L’ultima sposa di Palmira e Il Viaggiatore di nuvole, insieme al saggio L’Atlante immaginario, che raccoglie alcuni degli articoli pubblicati da Lupo sull’Avvenire. Anche il Sole 24 Ore ospita i suoi articoli, cosicchè è naturale chiedergli per prima cosa come faccia a conciliare questi diversi ruoli e le diverse forme di scrittura che essi comportano. La risposta di Lupo dà già l’idea di quanto di immaginoso e fuori dal comune vi sia in questo scrittore, che racconta il suo lavoro come quello di una persona che per calarsi in un ruolo sveste metaforicamente i panni dell’altro: per sé ha predisposto due scrivanie e due computer, due postazioni che gli permettono volta per volta di immergersi nella nuova parte.

“Faccio una vita dissociata: dal lunedì al giovedì lavoro per l’Università, faccio il professore, il venerdì scrivo per i giornali; il sabato è festa e finalmente posso scrivere in totale libertà. Di solito i romanzi dei professori pesano, sono di marmo; io voglio scrivere con leggerezza, scrivere da narratore.”

La felicità del raccontare,  Lupo dice averla imparata da bambino, quando faceva compagnia al nonno nel suo negozio di generi alimentari, dove, mentre serviva i clienti, li intratteneva riempiendo i vuoti dell’attesa con le sue storie.

Io voglio scrivere con leggerezza, scrivere da narratore.

“Ho ascoltato in quei miei primi anni migliaia di storie, una infinita catena di racconti. Mio nonno era più bravo di Omero: affabulatore nato, rendeva meraviglioso anche il fatto più banale”

Così, con grande trasporto,  lo scrittore racconta anche la lunga gestazione di questo suo romanzo; che, dice, si  portava dentro fin da ragazzino, ma che ha dovuto attendere quarant’anni per  mettere davvero nero su bianco: attendere che finisse il Novecento, perché si tratta di un romanzo che racconta di cinque generazioni, tra le quali anche la sua  avrebbe dovuto trovare il suo spazio, la possibilità di avere memoria di sé.

“Sto scrivendo le Mille e una notte, dicevo all’editore impaziente. Questo non è romanzo che avrei potuto scrivere a venti o a trent’anni: dovevo poter raccontare anche la mia parte nella storia della mia famiglia. È un libro col quale ho detto addio all’infanzia, e, insieme, al Novecento; il secolo che amo di più, il secolo in cui ho le mie radici”.

Il suo stile, riconoscibilissimo, il suo modo di rendere meravigliosa la materia del racconto è stato accostato dalla critica al realismo magico, ed è perciò che Elisabetta Motta chiede all’autore se si riconosca in Marquez e non invece, come ha già accennato, ad un altro genere di “meraviglioso”, quello delle Mille e una notte, o anche quello della Bibbia, come anche i soli nomi dei personaggi suggeriscono: dal bisnonno Redentore al protagonista Babele, dalle nonne e prozie Adamantina, Cristallina, Albania, ai nomi di luoghi favolosi, come Caldbanae.

Mi piace pensare che noi, i popoli, la storia dell’umanità siamo dentro un romanzo.

“Io amo Garcia Marquez, il paragone con lui è allettante, ma il mio mondo è molto diverso dal suo: è un mondo mediterraneo, epico e favoloso certamente, ma più vicino all’Oriente che a quel  Sud America  che è un mondo triste, di solitudine. Io credo di essere invece una persona gioiosa, e i miei riferimenti sono Le Mille e una notte, Cervantes, la Bibbia, le storie che si moltiplicano dentro le storie. Mi piace pensare che noi, i popoli, la storia dell’umanità siamo dentro un romanzo.”

L’albero di stanze è la storia di Babele, un medico che lascia la sua vita a Parigi per ritornare temporaneamente, durante gli ultimi quattro giorni del Novecento, alla casa in cui è nato e che è stata costruita cento anni prima dal patriarca della famiglia Bensalem, il bisnonno Redentore: la casa è un albero di stanze, perché non si è sviluppata in maniera lineare, ma è cresciuta un poco alla volta ramificandosi verso l’alto, seguendo i matrimoni e le nascite dei vari membri della famiglia; ma è una casa ormai vuota, abitata solo dall’antico custode Crocifossi, testimone di tutte le vicende della famiglia. Non è però lui a raccontarle a Babele, che è sordo, ma ha la virtù di saper ascoltare le ossa dei pazienti e le voci dei muri: e poiché questi  hanno trattenuto in sé nel tempo le grida, le risate, i bisbigli, le mille lingue non solo degli abitanti, ma anche  dei viaggiatori o degli avventori di quella casa che da mulino è divenuta abitazione e poi anche albergo e trattoria,  saranno i muri a raccontargli le mille storie di cui sono stati ascoltatori fino ad allora muti.

“Questo è in realtà un libro sul silenzio: i muri in realtà non parlano, ma, se ci pensate, i muri davvero  sanno tutto di noi: nascite e morti, feste e lacrime. Spesso pensiamo a cosa accadrebbe “se i muri potessero parlare”, e  io ho voluto immaginare che potessero farlo ad un sordo, a chi sa ascoltare il silenzio. Io trovo impossibile cedere ad estranei la casa di famiglia, quella che è stata testimone della nostra nascita e della nostra vita una generazione dopo l’altra: bisogna almeno salvarne la memoria. Così i muri del romanzo, siccome hanno capito che la casa sarà venduta, hanno deciso di liberarsi della memoria riversandola nell’ascolto dell’ultimo erede. I romanzi, infatti, sono il luogo del possibile, il luogo dell’immaginario, non sono il luogo della realtà quotidiana”.

I romanzi sono il luogo del possibile, il luogo dell’immaginario, non sono il luogo della realtà quotidiana

È in questo modo che il protagonista riesce ad ascoltare il suo primo vagito: le onde gravitazionali dell’immaginazione sono sempre state familiari ai grandi narratori! In questo mondo magico, che è anche un mondo legato all’antico e al sacro, ogni cosa ha un senso anche simbolico, a cominciare dalle pietre: le pietre sono parole, commenta Elisabetta Motta, rovesciando il motto di Carlo Levi, così che L’albero di stanze diventa un romanzo; le pietre sono sacre: il bisnonno Redentore che sapeva ascoltare le pietre diventa mugnaio, perché tra la pietra  della macina e il chicco del grano c’è un legame antico e sacro; quante discussioni ha sentito lui stesso, ci dice Lupo, tra suo padre, mugnaio, e i suoi parenti, a proposito delle affinità tra certe pietre e certi tipi di grano! Ma la pietra più carica di significato è, nel romanzo, la Pietra Nera che Redentore sente la necessità di andare a vedere attraversando il mare in un lungo viaggio, prima di poter fondare la propria discendenza:

“In questo mio libro, e non solo in questo, ho voluto sottolineare la necessità di guardare alle grandi religioni monoteistiche in maniera unitaria, e nella vicenda del protagonista intendo suggerire che non si può fondare un popolo senza conoscere e comprendere altre religioni oltre alla propria.”

Del resto, il capostipite dei Bensalem è convinto a sua volta di discendere dal Re Magio Balthasar, ed è perciò che vuole far crescere la sua casa fino ad avvicinarsi alle comete, perché un poco della loro polvere  si depositi sul più fortunato dei suoi discendenti, benedicendone la sorte, come la farina impastata ai muri ha benedetto la casa. È così che tutti i Bensalem passano le notti a scrutare il cielo in attesa della “loro” cometa. Personaggi decisamente sui generis, questi Bensalem: specialmente le donne. Che abbiano in sé doti e attitudini positive o negative, sono soprattutto loro ad appartenere a questo mondo magico e favoloso, in cui qualcuna di loro vede gli angeli e parla con loro, anche se  in parte li teme.

 

20160222 casa della poesia monza

 

“Mi dicono che in questo romanzo i personaggi femminili siano migliori di quelli maschili, e io penso che sia naturale: una famiglia così grande può crescere solo grazie alle donne. Nella mia famiglia, come nel romanzo,  c’erano tante prozie, le zie di mio padre, e mia nonna dimostrava anche lei di temere forse gli angeli, con la sua abitudine di lasciare sempre nel piatto un boccone “per l’angelo”. Del resto, “Il boccone dell’Angelo” è anche un titolo di Laura Pariani, che è lombarda e ha perciò un  immaginario certo ben lontano dal mio: forse si tratta di un rito pagano, in ogni caso un rito, sacrale. E sono le donne a custodirlo, come è grazie alle donne che si muove il mondo.”

È in questo rapporto tra passato e futuro, tra nuovo e antico che si gioca il nostro destino

Il protagonista oscilla tra l’attaccamento alla casa antica e il desiderio di lasciarla, di tornare alla sua vita parigina, osserva Elisabetta Motta, e un po’ in tutti i personaggi vive l’alternativa tra il rimanere e l’andare altrove. È in questo rapporto tra passato e futuro, tra nuovo e antico che si gioca il nostro destino, dice  Lupo, ricordando la sua esperienza di giovane meridionale trapiantato al Nord e qui rimasto per seguire i suoi studi. Felice trapianto, che esclude ogni nostalgia di ritorni, afferma: quando rientra dalle sue visite in Lucania, pensa, guardando al paesaggio che dall’amato ma tortuoso Appenino infine si distende nella tranquillità della pianura, che quest’ultima guarisca “le ferite dell’Appennino”. Perciò, quanto all’oscillazione tra andare e restare sostiene che nella nostra civiltà, in questo tardo Novecento in cui la vita è accelerata, il destino degli uomini è quello di andar via, di abbandonare la casa: non come Ulisse, ma come Enea, è il destino di lasciare un mondo in rovina per fondare una nuova casa.

“Ma quella casa che ho abbandonato a diciott’anni sapendo che non sarei tornato, quella casa  io l’ho perduta definitivamente nel momento in cui ho finito di scrivere questo libro.  Per quarant’anni me l’ero portata dietro, dentro, come un albero a cui appoggiarmi, come mio padre, e perciò, finito  il libro, mi sono sentito in una solitudine terribile. Raccontarlo, andare a presentarlo dovunque è una maniera di guarire da questa solitudine.”

La difesa di una ormai perduta dimensione sacrale della vita, che non ha nulla a che vedere con la religione confessionale

C’è dunque molto di personale e autobiografico in questo libro, ammette Lupo rispondendo alle domande del pubblico, a differenza che nei cinque romanzi precedenti, ma rimescolato e reso spesso irriconoscibile dell’immaginazione che è la dote che accomuna l’autore al suo protagonista, “un uomo che vive nell’incanto”. C’è la difesa di una ormai perduta dimensione sacrale della vita, che non ha nulla a che vedere con la religione confessionale, ma è propria sia della memoria che dell’utopia, è quel sentimento profondo del sacro che appartiene da sempre alla vita concreta e quotidiana nel  mondo mediterraneo e orientale.

“Se guardo dall’Appennino, sono consapevole che da una parte c’è la Grecia, c’è Gerusalemme, la Cina, dall’altra c’è New York, il Nuovo Mondo:  io sento profondamente di essere sullo spartiacque tra due mondi, sento che siamo l’ultima retroguardia dell’Oriente e  la prima avanguardia dell’Occidente, sento di appartenere a un mondo che da una parte guarda al sole che nasce, dall’altra al sole che tramonta. La sofferenza del protagonista è nella consapevolezza di dover abbandonare un mondo che vive ormai solo nei suoi ricordi, ma il raccontarli alle sue figlie è il suo modo di trasformarli in sogni, là dove memoria e immaginazione, storia e utopia si incontrano per costruire il futuro.”

 

Gli autori di Vorrei
Carmela Tandurella
Carmela Tandurella

Se scrivere è “scegliere quanto di più caro c'è nel nostro animo”, ecco perchè scrivo prevalentemente di letteratura. Storia, filosofia, psicologia, antropologia, tutte le discipline che dovrebbero farci comprendere qualcosa in più della nostra umanità, mi sono altrettanto care, ma gli studi classici, la laurea in filosofia, anni di insegnamento e una vita di letture appassionate mi hanno convinto che è nelle pagine degli scrittori che essa si riflette meglio. Il bisogno di condividere quello che ho letto e appreso, che prima riversavo nell'insegnamento, mi ha spinto ad impegnarmi prima con ArciLettore, poi, dal 2013, con Vorrei, del cui direttivo faccio parte. Da qualche anno sono impegnata anche nella collaborazione alle pubblicazioni e alle iniziative del Comitato Antifascista di Seregno e del Circolo Culturale Seregn de la memoria, di cui sono attualmente vicepresidente.Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.