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 «Una pizza non vale il rischio» con questo semplice slogan nei giorni scorsi i fattorini delle principali app di consegna a domicilio hanno “scioperato”. Lavoratori o ciclisti?

«Una pizza non vale il rischio» con questo semplice slogan nei giorni scorsi i fattorini delle principali app di consegna a domicilio dei cibi (Deliveroo, Foodora, JustEat, etc.) a Bologna si sono rifiutati di consegnare le ordinazioni.

A Bologna nevicava che dio la mandava, e mancavano le condizioni minime di sicurezza per lavorare. Ma i datori di lavoro delle rispettive aziende non erano d’accordo, imponendo i turni previsti. Dunque i «riders», così vengono chiamati i fattorini in uno dei tanti inglesismi impiegati nel settore per rendere più cool questi mondi, hanno deciso di scioperare.

Non un vero sciopero, in realtà, perché uno sciopero secondo legge i riders non se lo possono permettere. Hanno compiuto un gesto potente ed antico, come gli operai italiani ad inizio ‘900 quando il diritto di sciopero era considerato un concetto sovversivo ed illegale: hanno detto No, hanno incrociato le braccia.

Hanno scritto un manifesto di denuncia sul gruppo Facebook che hanno creato per confrontarsi ed organizzarsi, «Riders Union Bologna», denunciando la ragione per cui chi ha provato ad usufruire del servizio quella sera si è trovato senza cena a domicilio. Hanno spiegato che si sono rifiutati anche perché i loro contratti, nonostante facciano un lavoro pericoloso, neve o meno, non prevedono assicurazione sugli infortuni o la malattia: se cadi dalla bici e ti rompi un osso sul ghiaccio o sull’asfalto mentre consegni una quattro stagioni a destinazione, il tuo datore di lavoro farà spallucce e si volterà dall’altra parte.

 

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Foto tratta da startupitalia.eu

 

Non è la prima volta che accade che i lavoratori di queste aziende si organizzino e protestino: era già accaduto a Torino contro la scelta di Foodora di passare dalla paga oraria (4 € all’ora) a quella a cottimo (2,7 € a consegna), che abbassava le paghe medie e spingeva i fattorini a massimizzare la velocità degli spostamenti mettendo a rischio la propria incolumità per guadagnare più o uguale a prima (se avete ordinato da una di queste app ed il fattorino appena fatta la consegna è scappato via senza quasi un ciao o una parola, ora sapete perché). La soluzione dell’azienda: espulsione dei lavoratori colpevoli di protestare. Anche a Milano i fattorini si erano mobilitati contro le paghe basse e l’assenza di diritti, mentre l’azienda continuava a chiamarli «collaboratori» e non «lavoratori» proponendo una mediazione sull’aumento da 2,7 a 3,6 € a consegna.

Forme primigenie di una nuova tipologia lavorativa

È evidente come si sia di fronte ad una tipologia di lavoro comunissima per certi versi e mai vista per altri: la sensazione è quella di trovarsi di fronte alle forme primigenie di una nuova tipologia lavorativa.

Il lavoro dei fattorini da un lato è il vecchio caporalato in salsa digitale: paga bassa, isolamento dei singoli lavoratori, assenza di diritti minimi come assicurazioni e malattia, diritto al riposo e tutela dai licenziamenti (notare bene: nell’economia delle app non si viene licenziati bensì «scollegati», ovvero bannati dall’accesso all’applicazione) e dai preavvisi spesso nulli nella comunicazione del turno.

Dall’altra parte siamo di fronte a qualcosa che sfugge alle nostre definizioni esperienze radicate di «lavoro»: i dirigenti di azienda negano ai rider lo status di lavoratori, a partire dalla scelta del nome (rider letteralmente è «ciclista», non fattorino) e dalla descrizione del lavoro; i lavoratori rimangono di fatto esclusi dalla tutela sindacale confederale (primi timidi passi di avvicinamento stanno iniziando ad essere compiuti dalla Nidil CGIL) ed i lavoratori hanno iniziato ad organizzarsi in forme e strutture informali ed autonome, come gruppi Facebook e assemblee e realtà autoconvocate.

I dirigenti di azienda negano ai rider lo status di lavoratori

Sulla pagina globale di Foodora per assumere fattorini, la scelta comunicativa di negare la natura stessa del lavoro prestato è molto chiara: sullo sfondo scorrono foto che ritraggono persone sorridenti in bicicletta, lo slogan in primo piano è «Diventa un ciclista, goditi la libertà». Nella didascalia, i requisiti che vengono posti sono «essere simpatici, disponibili ed amichevoli», e l’appello è «Se condividi le nostre convinzioni e vuoi diventare parte del movimento - non lasciare che qualcosa ti trattenga. Ti stiamo aspettando!». I «benefici» elencati di chi «diventa parte del movimento» sono «1 – Incrementa le tue entrate» «2 – Scegli i tuoi orari» «3 – Rimani in forma fisica».

I lavoratori non sono lavoratori assunti da una azienda ma sono «simpatici, disponibili ed amichevoli ciclisti» che hanno deciso di «fare parte di un movimento». Non si parla di uno stipendio ma di «benefici», fra i quali l’«aumento delle proprie entrate» è solo uno dei punti.

Non un’azienda ma un movimento sociale, non un contratto di lavoro ma diventare parte del movimento, non uno stipendio ma dei benefici. Prendendo a piene mani dal mondo dell’attivismo sociale e del volontariato, si sostituisce all’idea del lavoro a quella dell’attività volontaria piacevole. Anche queste realtà, d’altra parte, si rifanno all’immaginario fortunato della Sharing Economy, ovvero della (teoricamente) economia della condivisione.

Un immaginario che cozza però con la realtà descritta sopra, di lotte per una paga migliore o contro il sistema a cottimo, di sciopero selvaggio contro il lavoro senza misure di sicurezza minime. I fattorini non vogliono essere considerati lavoratori dalle aziende, che intendono considerarli come liberi professionisti che collaborano alla piattaforma (i «Prosumer», figure a metà fra consumatore e produttore di valore). Questa definizione non è solo volontà di risparmio e di sfruttamento da parte dell’applicazione, ma è fredda e logica conseguenza del modello dell’azienda.

Deliveroo, JustEat, Foodora si concepiscono principalmente come piattaforma digitale, che mette in connessione diversi tipi di utenti: ristoranti, consumatori, e appunto ciclisti. I ristoratori possono farsi ospitare su questi siti, beneficiano della visibilità di essere fra coloro che compaiono su queste piattaforme quando un utente cerca quel tipo di cucina, di non dover assumere dei fattorini come dipendenti ed in cambio versano una quota del 30% circa per ordinazione; i consumatori pagano leggermente in più in cambio del beneficio di avere il proprio pasto consegnato direttamente a casa; i ciclisti accettano di consegnare i pasti in cambio di benefici quali un aiuto nelle entrate economiche e una migliore forma fisica.

Provate a farvi consegnare a casa da un rider chiamando direttamente il ristorante al telefono: vi risponderanno che è impossibile. Non è scortesia: è perché quando si effettua un ordine su una di queste piattaforme non si paga il trasporto, si paga l’intermediazione. Voi dite alla piattaforma quello che volete, quando lo volete, e lasciate che sia lei ad occuparsi di tutto. La piattaforma prende i soldi, trasmette l’ordinazione al ristorante pagandogli la sua quota (l’ordinazione meno il 30% per il servizio, appunto), contatta il ciclista più vicino disponibile per effettuare la corsa, gli da la sua quota per il disturbo.

Qui sta la differenza enorme fra un «ciclista» ed un fattorino di una cooperativa o assunto da una pizzeria: questi ultimi sono lavoratori a cui è richiesta una prestazione lavorativa; i primi, nell’ottica aziendale, sono liberi professionisti che la piattaforma mette in contatto con ristoranti per avere dei benefici. I dipendenti, per le piattaforme, sono gli sviluppatori web e gli impiegati che lavorano per coordinare le varie fasi ed assicurarsi che tutto fili liscio.

Lavoratori veri e propri, ingranaggi fondamentali nella produzione di valore economico per l’azienda, che necessitano di stipendi, diritti e tutele, non benefici.

Certo, la prospettiva assunta dall’azienda va in crisi se si esce dal quadro organico, dove ciascun utilizzatore della piattaforma è felice e soddisfatto dei benefici, e si entra nel mondo reale dove appunti i rider si accorgono di non essere ciclisti felici di trasportare cibo in cambio di benefici economici e tonici, ma lavoratori veri e propri, ingranaggi fondamentali nella produzione di valore economico per l’azienda, che necessitano di stipendi, diritti e tutele, non benefici.

Ma i profitti, quindi, l’azienda dove li fa? Con le quote sulle ordinazioni, teoricamente, anche se la teoria si allontana anche qui dalla realtà e ad esempio Deliveroo solamente negli UK, ha avuto perdite nette per 46 milioni di sterline nel 2016, con un aumento di esse del 300%. Niente paura, comunque: il fondatore di Deliveroo nello stesso anno si è aumentato lo stipendio del 22.5% e l’azienda ha distribuito bonus per 4.5 milioni di sterline. Il segreto è che nell’economia delle piattaforme, i veri guadagni si fanno tramite i mercati finanziari, tramite gli ipertrofici investimenti in venture capital (investimenti in capitale di rischio) durante i round finanziari, o dopo le IPO sul mercato dei public. Se non avete capito molto, significa probabilmente che siete ancora persone normali.

I veri guadagni si fanno tramite i mercati finanziari

È il Platform Capitalism, il Capitalismo delle piattaforme appunto, che oggi accomuna pressoché ogni applicazione killer nata sotto l’egida della Sharing Economy. E se il caso dei rider nelle piattaforme di food delivery è per diversi aspetti un caso-limite, in moltissime altre piattaforme che impieghiamo diffusamente i fattorini inconsapevoli sono ciascuno di noi.

Ma questo, è materiale per un prossimo approfondimento.

Gli autori di Vorrei
Alessandro Gerosa
Alessandro Gerosa
Classe 1991, è nato e vive a Monza da sempre, dove è attivista prestato a tante cause. Attualmente svolge un dottorato di ricerca in Sociologia e Metodologia della Ricerca Sociale presso la Statale di Milano, occupandosi principalmente di economia creativa e sfera digitale.