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L’utopia di Bregman è molto coinvolgente e convincente. Ma solleva nondimeno molti quesiti.

Prevedere è impossibile, ma è naturale e necessario immaginare storie del futuro. È stato un leit motiv della mia attività professionale sugli scenari economici e la gestione strategica di imprese e istituzioni. Per questo mi sono ritrovato subito nell'affermazione di Rutger Bregman, nel suo Utopia per realisti (Feltrinelli, 2017): «Questo libro non è un tentativo di prevedere il futuro. È un tentativo di aprire le porte al futuro».

Altrettanto mi accade per due argomenti a cui ho dedicato diversi articoli su questa rivista: il lavoro e le disuguaglianze.

In uno di questi, dal titolo Lavorare meno, lavorare tutti. Vale ancora? del 3 dicembre  2011, scrivevo: «Se un marziano fosse informato del progresso tecnologico che ha caratterizzato la storia fin dalle origini, ma non vedesse ciò che avviene oggi realmente sulla terra, immaginerebbe una umanità che ormai lavorerebbe poche ore al giorno, e dedicherebbe tutto il resto del tempo ad attività piacevoli… Quello che vediamo noi terrestri è ben diverso: lavoro parossistico da una parte, disoccupazione dall’altra».

Perché milioni di persone vivono ancora in povertà quando siamo ricchi più che a sufficienza per eliminarla una volta per tutte?

Bregman dice cose analoghe, più mirate: «Perché dagli anni Ottanta del Novecento abbiamo lavorato sempre di più essendo ricchi come non mai? Perché milioni di persone vivono ancora in povertà quando siamo ricchi più che a sufficienza per eliminarla una volta per tutte?». E parte da una osservazione molto efficace: «Per circa il 99% della storia del pianeta, il 99% dell’umanità è stato povero, affamato, sporco, terrorizzato, stupido, malato e brutto». Le utopie, o almeno alcune di esse (quelle non ideologiche), hanno immaginato condizioni di benessere e di convivenza civile considerate impossibili ai tempi degli autori ma che oggi sono diventate realtà. E cita Oscar Wilde: «Il progresso altro non è che il farsi storia delle utopie».

Due sono le utopie che secondo Bregman sono oggi considerate impossibili, ma che potrebbero sin d’ora essere realizzate: un reddito universale di base erogato senza condizioni per tutti, e orari di lavoro vicini alla “profezia” che John M. Keynes aveva formulato per i suoi nipoti, cioè più o meno per i nostri figli, già negli anni Venti del secolo scorso: 15 ore settimanali, cioè tre ore al giorno per cinque giorni.

Bregman critica politiche sia di destra, anti-assistenziali, sia di sinistra, iper-assistenziali. Ma non propone un superamento di questa storica distinzione, una “terza via”. Propone piuttosto una strada da battere per una politica di sinistra adeguata alla realtà del terzo millennio, rispetto al welfare statico, triste, protettivo e condizionato ereditato dal secolo scorso. Non a caso ha ricevuto il plauso del compianto Zigmunt Bauman, a cui si deve il concetto della “società liquida”.

La mitizzazione del lavoro separato dai valori della vita umana, con il moltiplicarsi di lavori “burla”

Bregman mette in luce le grandi distorsioni che caratterizzano la società moderna: l’attenzione dedicata più ai dati quantitativi, a partire dal PIL, che a quelli qualitativi; la mitizzazione del lavoro separato dai valori della vita umana, con il moltiplicarsi di lavori “burla”; lamenta il dirottamento dei cervelli migliori da attività produttive ad attività inutili, come gran parte della finanza o del marketing; denuncia i compensi eccessivi per queste attività, e quelli invece insufficienti per attività essenziali, come l’istruzione o la nettezza urbana; ma critica anche la burocratizzazione e lo spreco di risorse per servizi e controlli destinati a sistemi di welfare farraginosi, con stuoli di assistenti sociali, formatori, ispettori, anche nella versione più moderna del workfare.

20171217 utopia coverSostiene che l’eliminazione della povertà avrebbe anche esiti economici positivi, perché elimina “la stupidità da povertà”, che non è altro che la riduzione del pensiero dei poveri alla sopravvivenza immediata. In sostanza, il principio molto predicato secondo cui conviene insegnare a pescare invece di dare un pesce a un povero, funziona solo dopo che il potenziale pescatore ha ricevuto il pesce necessario per sopravvivere e ragionare.

Particolarmente interessante è la sua netta opposizione a qualsiasi ostacolo alla libera circolazione degli umani (che peraltro rimangono per oltre il 95% nella terra natia). L’eliminazione di queste restrizioni, oltre a rivestire un valore di libertà, darebbe un enorme impulso all’economia e al benessere mondiale. Afferma che «i confini sono la maggiore causa singola di discriminazione in tutta la storia mondiale», e che «forse tra un secolo o giù di lì potremo guardare ai muri come oggi guardiamo allo schiavismo e all’apartheid».

A conclusione della sua analisi, Bregman si chiede che cosa impedisca di procedere ulteriormente nell’adozione del reddito universale di base per tutti senza condizioni, e di orari di lavoro ridotti come conseguenza del progresso tecnologico, come vie per la sconfitta della povertà.

A suo parere, la causa primaria sta nella cultura  dominante, caratterizzata dalla mancanza di fiducia nella capacità di autodeterminazione delle persone. È infatti ancora diffusa l’idea secondo cui gli uomini, senza una tutela, non sarebbero capaci di un uso razionale e saggio di soldi ricevuti senza condizioni, e di vivere un tempo libero non ozioso e vizioso. «La destra teme che la gente smetta di lavorare, e la sinistra che non sia in grado di scegliere da sola. Ma per lo più la gente vuole lavorare, ed è in grado di gestirsi da sola».

Bregman fornisce ampie e documentate prove della inconsistenza di queste convinzioni. Dimostra che le risorse economiche minime procurate alle persone meno abbienti vengono di norma e necessariamente destinate ai bisogni primari, come il cibo, la disponibilità di un tetto, l’abbigliamento, la salute, la cura dei figli, l’istruzione. Dimostra che spesso i comportamenti devianti (alcolismo, gioco d’azzardo, tivu-dipendenza, eccetera) si correlano più con gli orari di lavoro eccessivi che con la maggiore disponibilità del tempo libero. E che ci sono prove secondo cui orari di lavoro esecutivo e ripetitivo troppo lunghi sono correlati con un calo di produttività e un aumento di danni fisici e psicologici.

Ci sono prove secondo cui orari di lavoro esecutivo e ripetitivo troppo lunghi sono correlati con un calo di produttività e un aumento di danni fisici e psicologici.

La cultura dominante è frutto per lo più di ignoranza, della scarsa conoscenza o addirittura del rifiuto di accettare evidenze scientificamente supportate. Ma non è solo questione di ignoranza: è provato che le persone istruite sono più radicate degli altri nelle proprie convinzioni. E il grande John M. Keynes diceva: «Gli uomini pratici, che si credono pressoché immuni da influenze intellettuali, sono di solito schiavi di qualche economista defunto».

Occorre quindi lottare contro questo predominio culturale. E qui Bregman fa appello alla Politica, con la P maiuscola. Che non è, a suo parere, la bismarkiana “arte del possibile”, praticata abitualmente dai politici che cercano il consenso seguendo i sondaggi. Ma quella che «non parla di regole ma di rivoluzione… di rendere inevitabile l’impossibile».

Svelando il suo orientamento, Bregman afferma che «la Politica con la P maiuscola storicamente è stata sempre riserva di caccia della sinistra: “siate realisti, chiedete l’impossibile” era il grido di battaglia dei parigini del 1968». «Purtroppo, oggi la sinistra sembra essersi dimenticata l’arte della Politica. Ancor peggio, tanti pensatori e politici di sinistra tentano di mettere a tacere le idee radicali tra le proprie fila per timore di perdere voti. Ho cominciato a definire questo atteggiamento il fenomeno del “socialismo perdente”». E aggiunge: «Ma il più grosso problema del socialismo perdente è che è noioso. Barboso… promette un paradiso triste».

Il più grosso problema del socialismo perdente è che è noioso. Barboso… promette un paradiso triste

L’utopia di Bregman è molto coinvolgente e convincente. Ma solleva nondimeno molti quesiti.

Prima di tutto quello del rapporto tra lavoro e tempo libero. Occorre tener presente che la distinzione riguarda il lavoro dipendente, e non quello autonomo, a cui si dedica, a mio parere, troppo poca attenzione. In Italia, secondo il censimento del 2011, Il rapporto tra lavoro autonomo e lavoro dipendente risultava intorno al 26%, praticamente un lavoratore autonomo su quattro; molto più alto che in paesi come la Germania e la Francia, (circa uno su dieci), e probabilmente ancora più alto se si considera il lavoro nero. È prevedibile che nel lungo termine la proporzione tra lavoratori autonomi e dipendenti aumenterà notevolmente, come conseguenza strutturale del progresso tecnologico.

Vi è poi  una vasta zona grigia, costituita da lavoratori formalmente autonomi ma in realtà in posizione subalterna rispetto ai loro “clienti”. Questo porta a pensare che l’introduzione del reddito minimo debba essere accompagnata da quella di una retribuzione oraria minima, sia per il lavoro dipendente che per quello autonomo.

Alla questione del rapporto tra lavoro e tempo libero è legata anche quella tra lavoro “alienato”, come fatica biblica, e lavoro come auto-realizzazione. Molto diversa è poi la situazione tra chi dispone di un maggior tempo libero come diritto acquisito o scelta personale, e chi, venendo licenziato, si trova a disporre di molto tempo libero forzato, con la conseguente crisi d’identità e d’immagine (ma anche, spesso, di ritrovamento di se stesso). Non vi è dubbio comunque che nella realtà attuale si pone il problema di ridurre la quantità di lavoro alienato, per ampliare e assuefare maggiormente le persone allo stato di libertà.

 

CALL CENTER

 

Qualche perplessità mi suscita la critica ai “lavori burla”, che riecheggia una visione ideologica, imparentata con l’anticonsumismo (ormai in declino come l’avversario, il consumismo) e con la decrescita felice. L’espressione richiama la distinzione tra attività produttive e attività improduttive o addirittura distruttive, che ritengo opinabile e variabile. L’evidente simpatia di Bregman per Oscar Wilde gli dovrebbe ricordare un’altra citazione di questo grande personaggio: «Toglietemi tutto, meno che il superfluo». Considero il mercato una delle espressioni ancestrali dell’umanità, e sono quindi per principio favorevole alla libertà degli umani nel produrre, scambiare e  consumare. Il che non significa affatto credere nella capacità di autoregolazione del mercato, che può e deve essere tutelato contro le sue deviazioni e degenerazioni, senza per questo soggiacere a schematismi ideologici. Per essere specifici, significa contrastare la finanza speculativa, fine a se stessa (quindi non tutta la finanza, “le banche”!). Significa rafforzare la lotta contro i monopoli, che uccidono il libero scambio. Significa gestire il sistema fiscale in modo articolato per favorire o scoraggiare specifiche produzioni e consumi. Significa bloccare la speculazione edilizia e il consumo di suolo, come condizione del recupero delle aree degradate. Significa favorire il passaggio progressivo alle fonti di energia pulite e rinnovabili. Significa utilizzare il potente mezzo dell’informazione per orientare produttori e consumatori verso comportamenti costruttivi e piacevoli.

L’avversario maggiore è la finanza fine a se stessa. Quando lavoravo in azienda, mi capitava di chiedermi perché un imprenditore dovrebbe farsi carico di tutte le difficoltà connesse con la gestione del personale, i rapporti con fornitori e clienti, gli oneri bancari e fiscali, ed esporsi ai rischi di una attività produttiva che può generare grandi guadagni ma anche gravi perdite, quando può ottenere rendite più sicure e consistenti semplicemente pagando degli operatori finanziari di alto livello? Il sistema finanziario attuale caccia gli imprenditori e li sostituisce con rentier. Un discorso analogo si potrebbe fare per il consumo del suolo libero come alternativa al recupero delle aree dismesse. È la vecchia e sempre valida legge di Gresham secondo cui la moneta cattiva caccia la moneta buona.

La vecchia e sempre valida legge di Gresham secondo cui la moneta cattiva caccia la moneta buona.

Anche gli argomenti di Bregman a favore della libera circolazione delle persone a livello globale, e quindi contro qualsiasi politica di ostacolo alle migrazioni induce a qualche riflessione, comunque non negativa. Questi argomenti sembrerebbero in contrasto con quelli che lamentano lo spopolamento di vaste aree del globo, e che propongono massicci aiuti allo sviluppo dei paesi di origine, come ad esempio una sorta di “Piano Marshall” per l’Africa. Ma se ben si guarda, il contrasto è solo apparente: libertà di circolazione e politiche di sviluppo dei paesi poveri si integrano vicendevolmente in una strategia  contro le disuguaglianze, puntando a una struttura  reticolare del mondo assecondata dai progressi nelle tecnologie dell’informazione.

Ma venendo al dunque, i veri, potenti ostacoli alla realizzazione dell’utopia realistica di Bregman hanno due nomi: potere e comunicazione.

 

CATENA DI MONTAGGIO MODERNA

 

In una delle sue più brillanti “Amache” pubblicata su la Repubblica il 5 dicembre scorso, Michele Serra si chiedeva: «Com’è possibile che un ricco, amico dei ricchi, capo di un governo di ricchi, sia riuscito ad arrivare alla Casa Bianca in qualità di vendicatore dei poveri operai disoccupati e delle povere casalinghe disperate?». Semplice: con il potere economico e politico sorretto da una manipolazione sistematica dell’opinione pubblica. Noi italiani ne sappiamo qualcosa: il successo di Donald Trump è per molti versi una replica di quello di Berlusconi: tutti e due affaristi (più che imprenditori) che hanno fatto i soldi con la speculazione edilizia, tutti e due che hanno utilizzato queste rendite per manipolare quote importanti dell’opinione pubblica.

Di fronte a questa realtà, la questione se sia più vincente o perdente una sinistra moderata o una sinistra radicale è forse mal posta. La questione è piuttosto quella del come costruire una sinistra capace di proporre e attuare una Politica (con la P maiuscola) esplicitamente orientata al contrasto alle disuguaglianze e alla povertà, ma nello stesso tempo capace di trasmettere al 90% della popolazione la consapevolezza che quella Politica consentirebbe di realizzare un mondo migliore per tutti. E più divertente.

Per farlo, occorre disporre di adeguato potere e potenza di fuoco mediatico. Che non sono esclusiva dei “nemici del popolo”. Occorre trovare ovunque le alleanze necessarie per battere l’uno o il dieci per cento dominante. Senza esclusioni ideologiche.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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