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Tra le diverse proposte avanzate per combattere le disuguaglianze, la tassazione dei grandi patrimoni e delle successioni e donazioni, oltre ad una forte progressività delle imposte sui redditi, sono sempre presenti.

Allora la domanda viene spontanea: perché le forze politiche e i governi che si qualificano come “di sinistra”, che hanno o dovrebbero avere nel loro DNA la lotta contro le disuguaglianze, evitano spesso l’argomento, e tanto meno avanzano proposte normative?

La risposta più o meno latente è quella del timore della fuga dei capitali: queste imposte indurrebbero i loro detentori a trasferirli altrove, privando l’economia del paese di risorse per gli investimenti e per lo sviluppo economico.

Ma vi è anche una risposta che fa riferimento al consenso elettorale. Grazie alla diffusa ignoranza degli argomenti economici, ben coltivata da chi ne trae vantaggio, molti confondono l’imposta sul patrimonio con le tasse sulla casa, e pensano che colpisca tutti, e non soltanto una ristretta cerchia di super ricchi.

Che questo tipo di imposte possa creare fughe di capitali è un dato di fatto. Al punto che alcuni paesi, anche con tradizioni socialdemocratiche, le hanno abolite. Ma il risultato è inaccettabile: per evitare la fuga dei capitali, adottiamo un sistema fiscale iniquo! E’ come essere sotto ricatto.

Gabriel Zucman, allievo di Thomas Piketty, classe 1986, pone il problema nella giusta luce: i paradisi fiscali sono ricettacoli globali dei furti d’imposte ai danni dei contribuenti di ogni parte del mondo. Essi «offrono tutti un servizio molto richiesto: la possibilità di non pagare imposte sui dividendi, sugli interessi, sulle plusvalenze, sul patrimonio e sulle successioni». E anche peggio. Perché oltre a favorire il reato di evasione fiscale e le pratiche della finanza fine a sé stessa, sono luoghi di riciclaggio di denaro sporco, frutto di reati come la corruzione, il traffico della droga, la prostituzione. Quindi vanno eliminati. E secondo Zucman si può, grazie a una attenta analisi dei fallimenti passati e alla rivoluzione digitale.

La sua proposta principale consiste nella creazione di «un catasto mondiale dei patrimoni finanziari che registri tutti i proprietari delle azioni e obbligazioni in circolazione». Queste informazioni esistono già in gran parte, ma registrate in archivi limitati, per lo più di natura privata. Si tratta di unificarli e di renderli pubblici. La sede potrebbe essere il FMI (Fondo Monetario Internazionale). Se il paesi di maggior peso finanziario (USA, UE, G20) decidessero di farlo, il progetto sarebbe realizzato.

L’archivio globale consentirebbe di sapere dove giacciono i patrimoni e in quali paesi i loro frutti (dividendi azionari, interessi da obbligazioni, plusvalenze) vengono realizzati, consentendo così ad ogni paese di sottoporli al proprio sistema di tassazione. L’archivio dovrebbe ovviamente registrare le persone fisiche, e non quelle giuridiche (fondi, trust, fondazioni, società di comodo…) dove le persone fisiche si nascondono.

Quanto alle attività commerciali delle aziende multinazionali, in particolare per quelle operanti nei nuovi settori ICT (Tecnologie della comunicazione e informazione), occorrerebbe riuscire ad «attribuire un peso sostanziale al volume di fatturato realizzato in ogni paese, perché le società non ne hanno il controllo: non possono trasferire i loro clienti alle Bermuda!». Tuttavia la possibilità di manipolare i prezzi di trasferimento tra le filiali possono far figurare alti profitti nei paradisi fiscali, e scarsi profitti nei paesi a più alta tassazione. Quindi si suggerisce di tener conto anche di altri dati, come il numero di dipendenti operanti in ogni paese. Zucman osserva spiritosamente che anche le multinazionali potrebbero risparmiare grazie a un sistema globale di imposte sulle società più equo, considerando il fatto che, ad esempio, una azienda come la General Electric ha un dipartimento fiscale di quasi mille dipendenti!

Come il suo maestro Piketty, Zucman inquadra le sue proposte in un contesto storico di lungo termine. Grazie a questo approccio egli analizza le pratiche che nel passato hanno funzionato e, per lo più, non funzionato nella lotta contro l’evasione.

In base a queste analisi, ritiene che il catasto globale debba essere accompagnato da penali verso i paradisi fiscali che non si adeguino. Siccome questi paesi, contrariamente a quanto si ritiene, sono spesso esportatori netti anche di beni tangibili, l’imposizione di dazi sulle loro esportazioni corrispondenti all’entità dell’evasione fiscale da essi favorita potrebbe indurli ad adeguarsi al catasto globale. E data la loro piccola dimensione, le eventuali ritorsioni da parte loro sarebbero di scarsa efficacia.

Zucman dedica tutto un capitolo del suo libro alla Svizzera, madre storica dei paradisi fiscali. Rileva che, anche se nel corso del tempo questi ultimi si sono moltiplicati, la Svizzera svolge ancora un ruolo predominante, perché molte strutture bancarie presenti nei diversi paradisi fanno capo a banche svizzere.

Un attacco particolare sferra al Granducato del Lussemburgo. Quando questo staterello partecipò alla fondazione di quella che è oggi l’Unione Europea, la sua economia era fondata sull’acciaio. Oggi è fondata sulla finanza, più o meno pulita. Forse occorrerebbe minacciarlo di essere estromessa dall’Unione!

A questo punto diamo un’occhiata ai numeri, alla dimensione delle poste in gioco, che fanno a loro volta riflettere.

Secondo i calcoli di Zucman, il patrimonio finanziario globale ammonta a 87 mila miliardi di euro, di cui il 92% detenuto regolarmente nei paesi dei residenti (onshore), e il residuo 8%, 6900 miliardi di euro, detenuto offshore, cioè nei paradisi fiscali. Di questi, 5500 miliardi di euro non sono dichiarati, e quindi non pagano tasse. Sempre secondo i suoi calcoli, ciò comporta una perdita di gettito fiscale di 170 miliardi di euro, il 3,1% delle somme evase. Zucman contesta altre valutazioni molto superiori, ma riconosce che le sue sono molto probabilmente per difetto.

Cerchiamo di capire cosa questo può comportare per l’Italia.

Nel 2015 i patrimoni offshore depositati in Svizzera erano stimati in 2100 miliardi. Siccome il 6% di questi, cioè 130 miliardi, erano riferibili a residenti in Italia, applicando la stessa percentuale si può indurre che i depositi offshore italiani in tutti i paradisi fiscali siano dell’ordine di 450 miliardi di euro. Applicando come aliquota fiscale il 3% di Zucman, si tratterebbe di 13,5 miliardi di euro di perdita di gettito fiscale per l’Italia: una somma dell’ordine di circa il 3% dei 522 miliardi di gettito fiscale italiano nel 2018 (a meno di immaginare aliquote più pesanti) e al 12% della evasione complessiva, stimata recentemente in 110 miliardi di euro.

Conclusione: la lotta all’evasione, come il contrasto alle attività sommerse e illegali, sono doverose in un contesto civile, indipendentemente dal giudizio sulla loro entità, e costituiscono una componente importante di una strategia di sviluppo equo e compatibile, lungimirante e di vasto respiro. Per farlo, occorre nello stesso tempo realizzare accordi internazionali e far capire alla totalità dei contribuenti che la loro tassazione colpirebbe solo una frazione di benestanti, a vantaggio di tutti.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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