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Raworth: «Occorre passare da un’economia degenerativa a una rigenerativa, da un’economia divisiva a una redistributiva, da una assenteista ad una interventista. L’economia deve perseguire il benessere, non la crescita». Duflo: «Occorre resistere alle seduzioni delle teorie non provate e dell’opinione comune disinformata».

 

L’interesse per i due grandi problemi dell’umanità, quello delle disuguaglianze e quello della distruzione dell’ambiente, mi ha portato alla lettura dei contributi alla scienza economica di Kate Raworth ed Esther Duflo. Contributi che tendono a riportare questa scienza alla realtà e alle esigenze dei comuni mortali, cambiandone i paradigmi divenuti troppo astratti. E che mi hanno fatto addirittura immaginare una rivoluzione al femminile dell’economia del XXI secolo.

Si parla molto di economia circolare, nell’ottica di rendere compatibili le attività economiche e i consumi con la conservazione delle risorse naturali. Kate Raworth, nel suo Doughnut Economics (Random House 2017) inserisce l’economia circolare in un disegno più ampio, proponendo un cambiamento radicale dei presupposti su cui si regge l’economia tradizionale.

La sua visione, frutto di una straordinaria erudizione e lucidità di analisi della storia economica, si può riassumere così: occorre passare da un’economia degenerativa a una rigenerativa, da un’economia divisiva a una redistributiva, da una assenteista ad una interventista.

 

«Esiste un fossato tra gli argomenti della teoria economica prevalente e le crisi mondiali come quelle delle disuguaglianze globali e del cambiamento climatico… Dobbiamo fuggire da mondi immaginari!».

Raworth prende le mosse dall’incontestabile fallimento della scienza economica tradizionale, sia “di sinistra”, d’ispirazione keynesiana, sia “di destra”, il cui maggiore riferimento è Von Ayek. «Esiste un fossato tra gli argomenti della teoria economica prevalente e le crisi mondiali come quelle delle disuguaglianze globali e del cambiamento climatico… Dobbiamo fuggire da mondi immaginari!».

L’immaginario è il riferimento al prodotto interno lordo (il PIL) come unico indicatore del benessere degli esseri umani. Esso implica l’esistenza di una figura inesistente: l’homo oeconomicus, guidato solo dall’utilità, secondo le filosofie positiviste (a cui l’Italia ha dato un triste contributo con Vilfredo Pareto). In realtà l’essere umano, e quindi i suoi bisogni, aspirazioni, condizioni di benessere sono molto più complesse di quella figura fittizia. «L’essere umano reale è molto più “ricco”: sociale, interdipendente, approssimativo, fluido nei valori, dipendente dal mondo vivente».

L’essere umano si definisce nei rapporti con i suoi simili e con l’ambiente di cui fa parte. Di qui la rappresentazione dell’economia da parte di Raworth come una ciambella (doughnut): «All’interno uno stato sociale fondamentale di benessere, al di sotto del quale nessuno dovrebbe cadere (povertà). All’esterno il tetto della condizione ecologica planetaria che non dovremmo oltrepassare (degrado ambientale). Nell’equilibrio tra i due aspetti sta lo spazio di sicurezza e giustizia per tutti». Si tratta di «ridisegnare l’economia, inserendola nella società e nella natura, alimentata dal sole».

LA DISCUSSA CURVA DI KUZNETS

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Secondo Raworth «una sana economia dovrebbe essere progettata per prosperare, non per crescere»

                          

Secondo Raworth «una sana economia dovrebbe essere progettata per prosperare, non per crescere». Ma tuttavia non stabilisce alcun rapporto con i seguaci della decrescita felice, à la Latouche. Anzi, saggiamente, tra i percorsi fondamentali nei quali articola la sua visione, propone di essere agnostici rispetto alla crescita. Saggiamente, a mio parere, perché la crescita quantitativa infinita implicata dall’aumento del PIL è in buona parte un’illusione monetaria. Per certi versi è come un tapis roulant, che consente di rinforzare i muscoli senza fare chilometri all’infinito.

Si tratta comunque di dover passare da un’economia della crescita a un’economia di equilibrio dinamico. Del resto le previsioni demografiche registrano un rallentamento dell’aumento della popolazione globale, e un suo stabilizzarsi intorno ai 10 miliardi. Le premesse per l’equilibrio ci sono.

In questa prospettiva, tra i sette cambiamenti che Raworth propone come “vie di pensiero” per l’economia del terzo millennio, fondamentale è il passaggio dal pensiero lineare al pensiero sistemico. Pensiamo al lavoro. Tutti parlano di “creare lavoro”, ma non è come accendere un fiammifero. L’idea di creare lavoro assumendo migliaia di “navigator” è un caso esemplare di mancanza di pensiero sistemico. Un esempio storico del fallimento del pensiero lineare è stata la Cassa del Mezzogiorno, che con l’industrializzazione forzata del Sud, condotta secondo le teorie dominanti del tempo e non secondo lo studio specifico della realtà, ha disperso ingenti risorse e non ha risolto il problema del divario Nord-Sud in Italia. Il pensiero sistemico richiede e consente di tener conto degli effetti immediati degli interventi ma anche di quelli nel tempo lungo, delle ricadute collaterali, dei circoli virtuosi e viziosi conseguenti, dei ritardi fisiologici, degli aspetti umani e sociali non quantitativi, dei ““punti leva” agendo sui quali un piccolo cambiamento specifico può generare il cambiamento di tutto un sistema (è questo un principio della gestione strategica, che personalmente ho seguito nella mia attività professionale).

Altrettanto importante è il concetto di equilibrio dinamico. Questo è ben rappresentato dalla temperatura del nostro corpo: se fossimo degli automi, avremmo stabilmente una sola temperatura, diciamo 36 e mezzo, o magari più temperature ben programmate. Ma essendo umani, abbiamo una temperatura sempre variabile tra 36 e 37, secondo cause difficili da individuare. E comunque, se usciamo da questo ambito, vuol dire che qualcosa non funziona. Il fatto è che l’equilibrio dinamico, detto anche omeostatico, o di steady state, caratterizza gran parte dell’universo. «La vita su questo pianeta è una rete di equilibri», dice Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale. E noi facciamo parte di questi equilibri, che dobbiamo rispettare.

Raworth usa una bella similitudine per sottrarci al fascino della crescita infinita ed evitare l'idea di noia  legata a un equilibrio malinteso: l’equilibrio dinamico è come il surfing: cavalchiamo avventurosamente le onde, sempre uguali e sempre diverse, in una sfida permanente.

«La direzione prevalente dello sviluppo economico globale è stata catturata dalla duplice dinamica della crescente disuguaglianza sociale e dell’approfondirsi del degrado ecologico»

Importante è infine la presa di posizione contro le teorie tradizionali che si basano sulla “curva di Kuznets”, secondo cui la crescita crea inizialmente squilibri che verranno poi compensati in termini d eguaglianza e di benessere per tutti. E' la stessa logica del “thrickle down”, secondo cui favorendo i ceti più abbienti si ottiene “per sgocciolamento” il benessere di tutti, o secondo cui, innalzando il livello del mare, espresso dal PIL complessivo, tutte le barche si sollevano. La storia economica degli ultimi 40 anni ha dimostrato il contrario. «La direzione prevalente dello sviluppo economico globale è stata catturata dalla duplice dinamica della crescente disuguaglianza sociale e dell’approfondirsi del degrado ecologico».

Una economia in equilibrio dinamico potrebbe consentire un aumento del benessere senza dover perseguire continuamente un aumento quantitativo. Ma allora occorre affiancare al PIL, la cui rilevanza verrebbe ridimensionata, diversi altri indicatori, già peraltro esistenti anche se più complessi. Indicatori del benessere come la disponibilità di beni essenziali per la sussistenza, la possibilità di partecipazione sociale, di espressione dei propri talenti, di riconoscimento della propria identità e appartenenza. Per il nostro Paese sarebbe interessante indagare come mai, pur essendo in posizioni poco entusiasmanti per quanto riguarda indicatori come il livello d’istruzione o il progresso tecnologico, ci battiamo per i primi posti (almeno per ora!) per quanto riguarda il sistema sanitario e la speranza di vita.

Raworth cita Mariana Mazuccato, altra economista sulla cresta dell’onda, condividendo la proposta di un maggiore intervento dello stato. Ma mentre Mazuccato spinge per una maggiore presenza diretta dello stato nel mercato delle innovazioni frutto della ricerca pubblica, Raworth vede lo stato come programmatore e promotore, e come co-protagonista del benessere insieme al mercato, alle famiglie e alle comunità (commons). In via di principio, per Raworth «l’economia non è una questione di scoperta di leggi: è essenzialmente una questione di progettazione».

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Esther Duflo ha ricevuto il Premio Nobel dell’economia insieme al marito Abhijit Banerjee nel 2019, per le ricerche condotte nel Poverty Action Lab (PAL), una rete internazionale finalizzata a combattere la povertà.
Duflo ci dà una lezione che, mentre riporta le teorie economiche al metodo sperimentale, ci è utile in un senso più ampio per il nostro modo di ragionare sui problemi di ogni giorno.

Come ogni scienza, quella economica cerca di definire teorie e modelli capaci di descrivere le relazioni e le dinamiche degli eventi. Duflo non contesta questi metodi, ma mette in guardia rispetto a teorizzazioni che tendono a schematizzare la realtà. Perché la realtà è molto più articolata di qualsiasi schema, e in molte situazioni contraddice le teorie dominanti.

Ma mentre da una parte siamo soggetti a questo “eccesso di teorie” a cui ci affidiamo senza adeguate verifiche, dall’altra siamo sedotti inconsapevolmente da un'opinione pubblica a sua volta soggetta a luoghi comuni e a percezioni che non corrispondono alla realtà dei fatti. La citazione, da parte di Duflo, di una famosa frase di Keynes, è d’obbligo: «Gli uomini pratici che credono di essere esenti da qualsiasi influsso intellettuale, sono di solito schiavi di qualche economista defunto». Eccesso di teorie e opinioni correnti sono i due opposti da cui occorre guardarsi.

«Resistere alla seduzione dell’”ovvio”, essere scettici sui miracoli promessi, vagliare l’evidenza, essere pazienti con la complessità e onesti su ciò che sappiamo e su ciò che possiamo sapere»

Nel loro libro dal titolo “Good Economics for Hard Times”, Random House, 2019, Duflo e Banerjee sviluppano il loro obiettivo: rivalutare la ricerca empirica, lo studio dei casi particolari, per verificare continuamente la validità delle teorie e l’attendibilità delle opinioni dominanti. «Resistere alla seduzione dell’”ovvio”, essere scettici sui miracoli promessi, vagliare l’evidenza, essere pazienti con la complessità e onesti su ciò che sappiamo e su ciò che possiamo sapere».

Tra il mare magnum di argomenti e di fact checking che gli autori espongono per dimostrare le loro tesi, di particolare importanza e attualità mi sembrano due, strettamente collegati: i fenomeni migratori e l’allargarsi delle disuguaglianze territoriali, sia tra paesi diversi che nei singoli paesi, con lo sviluppo di grandi città a il declino di altre e in generale di vaste aree svuotate e impoverite. 

L’afflusso degli immigrati è oggi uno degli argomenti preferiti dai demagoghi per diffondere la paura e l’odio su cui costruiscono il loro successo. La frase “aiutiamoli a casa loro” non è altro che il corollario di un ragionamento superficiale il cui obiettivo è ancora la chiusura verso il diverso.

Ma gli autori si chiedono: «Why the panic?», che senso ha il panico? La percentuale dei migranti sulla popolazione del mondo, nel 2017, come nel 1960 e nel 1990, è stata dell’ordine del 3%. In Europa i migranti provenienti ogni anno dal resto del mondo si aggirano sull’1% della popolazione residente. Il fatto è che anche nei paesi più poveri, la quota di persone che scelgono di migrare è sempre una piccola frazione rispetto a quelli che preferiscono non abbandonare il proprio paese, a cui sono legati da stretti legami umani, famigliari e sociali. «Nessuno lascia la propria casa a meno che questa sia come la bocca di uno squalo», recita un poeta somalo citato dagli autori.

Il fatto è che i cambiamenti umani e sociali sono soggetti a una “stickness”, una vischiosità, che viene regolarmente sottovalutata sia dall’accademia che dall’opinione pubblica, e che è invece determinante nelle decisioni e nei comportamenti. Torniamo così alla carenza di pensiero sistemico. 

Alla prova dei fatti, le teorie sulla domanda e offerta di lavoro, secondo cui i migranti toglierebbero lavoro ai residenti e farebbero abbassare i livelli salariali, non reggono alle indagini. Al contrario i migranti, con la loro offerta di lavoro dipendente o autonomo («molti di essi hanno abilità, ambizione, pazienza, determinazione non comuni»), tendono ad arricchire sia sé stessi che i residenti, perché allargano la torta del prodotto. E con le rimesse alle proprie famiglie di origine, la cui entità supera ampiamente gli aiuti da parte dei paesi ricchi, migliorano anche il benessere nei propri paesi di origine. Occorrerebbe abituarsi a concepire i migranti come una risorsa e non come un problema e un costo, su cui investire. Per l’Italia, la cui popolazione registra un continuo, tragico declino, sarebbe un elemento obbligato di una strategia economica: il contrario di ciò che si pensa e si fa.

Un’altro aspetto, strettamente collegato al precedente, su cui sia la scienza che l’opinione pubblica lascano a desiderare, riguarda il commercio internazionale. Da indagini statistiche condotte in USA, la grande maggioranza degli economisti, indipendentemente dai loro orientamenti politici, si esprime contro l’imposizione di dazi sulle importazioni. Ben diverso è l’orientamento dell’opinione pubblica: oltre la metà è favorevole ai dazi.

Il fatto è che non in tutti i casi la liberalizzazione degli scambi ha effetti positivi, anche se per lo più le restrizioni hanno effetti negativi. E’ interessante notare che le restrizioni non recano danni rilevanti a paesi grandi come gli USA o la Cina, la cui dimensione consente di produrre qualsiasi cosa, mentre possono essere disastrose per gli stati di piccole dimensioni.

In complesso, tuttavia, gli autori riconoscono che «lo scambio di beni, persone, idee, culture ha reso il mondo più ricco», che conviene evitare le guerre commerciali e soprattutto che gli scambi internazionali, «insieme alle migrazioni, definiscono il nostro discorso politico». Riassumono la loro proposta nella frase, apparentemente contraddittoria: «Agevolare la mobilità, accettare l’immobilità». Puntando su due “libertà”: di movimento e d’istruzione. Citano a tal proposito Enrico Moretti, economista che ha condotto approfondite analisi sulla crescita e il declino di stati e città. Nel caso dell’Italia, anche queste indicazioni dovrebbero portare all’apertura verso gl’immigrati, alla loro accoglienza come risorse e non come problema, e a una stretta collaborazione con i paesi d’origine per la gestione congiunta delle migrazioni e delle condizioni di vita e di lavoro nei paesi d’origine, promuovendo gli scambi di beni e servizi basati sulle vocazioni e su una visione reale e dinamica dei vantaggi comparati internazionali.

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Tra gli altri argomenti affrontati nel libro, su cui è impossibile diffondersi in questa sede, due mi sembrano di grande importanza: la possibilità degli stati di svolgere una funzione di datori di lavoro di ultima istanza, e le condizioni per l’istituzione di un reddito di base universale.

Senza sopravvalutare le possibilità di cambiare la realtà, gli autori fanno rilevare che buona parte di essa e dei relativi problemi è frutto di scelte di politica, economica, spesso sbagliate. Così è indubbiamente il caso del degrado ambientale (lo è meno per eventi come il Covid 19).

Tornando all’economia “al femminile”, conviene notare che sia Raworth che Duflo non sono senza anticipatrici: oltre a Donella Meadow, coautrice de “I Limiti dello Sviluppo”, la fondamentale ricerca promossa dal Club di Roma nel 1974 sul consumo delle risorse naturali, rilevante è la figura di Elinor Ostrom, premio Nobel dell’economia nel 2009, scomparsa nel 2012, per i suoi studi staminali sui beni comuni e sulle istituzioni. E come “affiancatrice” non trascurerei Carolyn Steel, che con un magistrale excursus sul rapporto millenario tra gli uomini e il cibo (Sitopia: How Food Can Save the World, Penguin Random House, 2020) in cui tratta tra l’altro della storia della proprietà del suolo, pubblico e privato, e dei rapporti tra città e campagna, sposa la visione di un equilibrio dinamico tra gli esseri umani e tra questi e la natura.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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