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Nel discorso di insediamento di Sergio Mattarella del 3 febbraio 2022 c’è una frase che sintetizza perfettamente una nuova concezione dell’economia contrapposta al neo-liberismo dominante:

«Le disuguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita. Sono piuttosto il freno per ogni prospettiva reale di crescita».

Ricerche economiche sui dati storici del secolo scorso e di quello attuale hanno dimostrato che una più equa distribuzione del reddito e della ricchezza non è un freno allo sviluppo, ma al contrario lo favorisce e lo rende più stabile. Questa tesi è confermata dal fatto che l’esplosione delle disuguaglianze verificatasi a partire dal 1980 ad oggi si è accompagnata a una bassa crescita.

Una delle cause della bassa crescita è la concentrazione dei redditi e delle ricchezze in poche mani a scapito dei ceti medi e meno abbienti, che agisce negativamente sulla domanda di beni e servizi.

I fatti smentiscono i sostenitori del neo-liberismo, secondo i quali un mercato senza vincoli è la via per produrre livelli superiori di reddito per tutti. Dietro a questa vulgata c’è l’idea che favorendo i ceti più ricchi, spacciati per produttori, il sistema economico consentirà automaticamente il trasferimento di quote di reddito ai meno abbienti, per “thrickle down” (gocciolamento). L’aumento delle disuguaglianze negli ultimi 40 anni ha smentito questa tesi. Ha smentito inoltre l’idea che se si vuole redistribuire il reddito con interventi fiscali, occorre prima produrlo. Non solo: ha dimostrato che gli interventi redistributivi, per quanto necessari, non sono sufficienti a compensare le disuguaglianze prodotte da un sistema economico liberista. Produzione ed equa distribuzione del reddito vanno insieme.

Questa presa d’atto ha stimolato la ricerca su quali potessero essere gl’interventi “pre-redistributivi” da realizzare per non affidarsi solo a quelli redistributivi. Molte sono state le proposte, che ho commentato in diversi articoli precedenti. Vorrei soffermarmi ora su quelle di Robert B. Reich, che configurano una radicale e organica riforma del sistema vigente.

Poche parole per definire il personaggio: consigliere dei presidenti democratici da Gerard Ford a Jimmy Carter a Barack Obama, Segretario di Stato per il Lavoro nel governo Clinton dal 1993 al 1996, in quest’ultimo anno sorprese molti con la decisione di abbandonare la politica attiva per dedicare più tempo alla cura dei figli. Ha comunque proseguito la sua attività scientifica e politica, come docente tra l’altro della Berkeley University, culla dei movimenti giovanili americani, e come ispiratore di esponenti riformatori del Partito Democratico americano come Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Alexandra Ocasio-Cortez.

Una sua tesi fondamentale, espressa nei due ultimi libri (“Come salvare il capitalismo”, Fazi Editore, 2015; “Il Sistema. Perché non funziona e come possiamo aggiustarlo”, Fazi Editore, 2021), è che si debbano abbandonare le dicotomie del passato, quella tra destra e sinistra e quella tra stato e mercato. A suo giudizio queste contrapposizioni nascondono quella reale, che vede il predominio di pochi ricchi e potenti sulla generalità della gente comune. La vera dicotomia è tra oligarchia e democrazia.

Ritiene inoltre che si debba abbandonare l’idea che redditi e ricchezze esorbitanti siano il risultato del merito, così come l’insuccesso e la povertà siano da attribuire a un demerito.

In sintesi, con le sue parole: «Occorre liberarsi dall’idea che esista un “libero mercato” separato dal governo e che un individuo guadagna in base a ciò che vale per la società».

Il mercato non è una realtà contrapposta allo stato. E’ una creazione politica, che assume caratteristiche diverse a seconda di come viene configurata dalle élite al potere, nel privato e nel pubblico. Le attuali distorsioni del mercato, che provocano crescenti disuguaglianze, non sono intrinseche al mercato in quanto tale. Dipendono da come il mercato è configurato da chi ha potere e ricchezza.

Sl banco degli imputati egli pone non solo i Trump, la cui tendenza all’autoritarismo e al populismo è scontata. Egli mette sotto accusa tutto l’establishment americano, compresi i sostenitori del Partito Democratico.

 

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Robert Reich

 

Il mercato si basa su cinque pilastri, e varia a seconda di come vengono adottate le scelte relative:

La proprietà
La concorrenza
I contratti
I fallimenti
L’applicazione effettiva (“enforcement”) delle regole.

Secondo Reich «la proprietà, pilastro fondamentale dell’economia di mercato, dipende da decisioni politiche su che cosa si possa possedere e a quali condizioni». Un problema fondamentale consiste nei limiti che l’interesse pubblico deve imporre alla proprietà privata. Il problema si è posto da sempre (si pensi al diritto di costruire rilasciato da un’amministrazione locale al proprietario di un terreno, e alla rendita immeritata che l’atto genera). Ma è divenuto molto più complesso con lo sviluppo della proprietà intangibile (brevetti, copyright, loghi) il cui valore è molto opinabile. «Questa “proprietà intellettuale” è il mattone chiave della nuova economia, e senza le decisioni governative su chi possa possederne un aspetto o un altro, e a quali condizioni, tale economia non potrebbe esistere». In sostanza, sono le norme che creano il diritto di proprietà.

Dopo la corsa ad ampliare la proprietà privata a danno della proprietà collettiva, praticata negli ultimi tre-quattro secoli, si sta affermando, almeno in via di principio, l’esigenza che la proprietà privata venga condizionata da una sua compatibilità o addirittura una sua funzione sociale. Lo stesso eccessivo accumulo della ricchezza da parte di un singolo individuo o persona giuridica dovrebbe essere considerato come sanzionabile per i suoi effetti negativi sui rapporti di potere e quindi sulla convivenza democratica.

Questo “aggiornamento” del diritto di proprietà sarebbe del resto coerente con l’accettazione di provvedimenti in difesa della libera concorrenza e contro i monopoli, da combattere in quanto lesivi del libero mercato come sistema competitivo.

L’inizio del contrasto ai monopoli si fa risalire allo Sherman Act del 1880. Questo fu usato in modo eclatante con lo smembramento della Standard Oil di Rockefeller nel 2011 e della AT&T Bell nel 1984. Ma negli ultimi anni la lotta ai monopoli si è fatta sempre più difficile, perché «a differenza dei vecchi monopolisti che controllavano la produzione, i nuovi controllano le reti». Inoltre Il neo-liberismo ha consentito che poche enormi imprese possano abusare della loro posizione dominate nei diversi settori: Monsanto nella produzione di semi, Boeing nell’aeronautica, American, Delta, Southwest e United nelle linee aeree, Eli Lilly, Pfizer, Johnson & Johnson, Bristol Myers, Squibb e Merck nei medicinali, le nuove “cinque sorelle” - Microsoft, Amazon, Apple, Google, Facebook - nell’informatica, Comcast, AT&T e Verizon nelle reti, e soprattutto le cinque grandi banche di Wall Street: JPMorgan, Bank of America, Citigroup, Wells Fargo e Goldman Sachs, che controllano quasi la metà delle attività bancarie degli USA. Queste grandi imprese, “troppo grandi per poter fallire”, dispongono di un potere tale da poter pagare i migliori professionisti per curare i propri interessi, finanziare la politica e definire la legislazione. E comprare i concorrenti innovativi che potrebbero insidiare il loro predominio. La soluzione non è facile, ma di fondamentale importanza. «Si tratta di valutare il rapporto tra le efficienze che derivano dall’avere aziende di grandi dimensioni e il potere di queste aziende di alzare i prezzi; trovare un equilibrio tra le innovazioni permesse da piattaforme e standard comuni e la loro capacità di soffocare innovazioni altrui; determinare una ripartizione adeguata del potere economico tra i vari gruppi».

Per quanto riguarda i contratti, Reich mette in luce le asimmetrie causate dalle differenze nei rapporti di forza, che consentono ai contraenti ricchi e potenti, dotati di conoscenze esclusive e professionalità superiori, di imporre clausole penalizzanti e poco trasparenti a carico dei contraenti più deboli. Include tra queste asimmetrie l’insider trading basato su informazioni esclusive e riservate, o «comunicazioni ultraveloci cui la maggioranza degli investitori non ha accesso». Sottolinea inoltre la complessità dei contratti con le grandi aziende, che impedisce ai comuni mortali di capire a fondo cosa firmano.

Quanto alla legislazione sui fallimenti, essa consente agevolazioni nella ristrutturazione dei debiti che molto spesso sacrificano gli interessi dei creditori più deboli, come i lavoratori e le piccole imprese fornitrici.

Un ultimo pilastro del mercato è l’applicazione effettiva delle norme (enforcement) che dovrebbero penalizzare adeguatamente le violazioni delle regole. Purtroppo molto spesso le penalizzazioni sono insufficienti, perché le lobby riescono a far approvare leggi o clausole/scappatoia. Molte grandi aziende danno addirittura per scontate le penali conseguenti alle violazioni delle norme, includendole tra i costi generali. Reich mette in evidenza gli ostacoli imposti alle class action di piccole imprese o comuni cittadini contro le grandi imprese, e l’obbligo inserito nei contratti di lavoro di ricorrere ad arbitrati favorevoli alle imprese in caso di contenzioso.

Il fatto che i pilastri del mercato, (proprietà, concorrenza, contratti, fallimenti, efficacia delle penali) siano stati indeboliti negli ultimi decenni, sostanzialmente dagli anni ottanta, non è intrinseco alla natura del mercato: è stato il frutto di comportamenti precisi da parte dei grandi operatori economici (banche, monopoli, trader finanziari, gestori di patrimoni) e di pubbliche istituzioni, deliberati o subiti.

VALORE E LAVORO.

E’ duro a morire negli USA il mito meritocratico, secondo cui chi ha potere e ricchezza li possiede perché li ha meritati, perché li ha conquistati con il duro lavoro e le proprie capacità. Chi al contrario è povero e non ha successo, lo è per mancanza di impegno e carattere. Ma non è vero. L’aumento spropositato delle retribuzioni dei capi azienda (da un rapporto di 20 a uno rispetto alla retribuzione media di un dipendente nel 1965, a un rapporto di 296 a uno nel 2013) e la caduta delle retribuzioni rispetto alla produttività non possono essere frutto del merito e del demerito.
Ci sono molti ricchi che non lavorano e molti poveri che lo sono non per loro colpa. C’è chi guadagna somme di gran lunga superiori al merito o senza merito (sei su dieci americani più ricchi sono eredi di immensi patrimoni), e chi guadagna molto meno del valore del suo lavoro.

I capi azienda si sono arricchiti grazie a manipolazioni speculative sul valore delle azioni della propria impresa, all’appropriazione di risorse che l’impresa avrebbe dovuto destinare ad investimenti e ricerche, alla compressione delle retribuzioni, a manipolazioni delle norme di mercato e della politica con attività lobbistiche e finanziamenti di campagne elettorali, alla pratica delle “porte girevoli” tra aziende e amministrazioni pubbliche. In sintesi, allo asservimento della politica al potere finanziario.

A fronte di questo prepotere di pochi ricchi e potenti, il potere contrattuale della maggioranza dei cittadini, dei poveri, dei meno abbienti, del ceto medio, hanno subito una drastica diminuzione.

Un segnale di questo declino è stato il distacco delle retribuzioni dalla produttività. Rispetto al 1948, mentre la produttività è aumentata del 240%, le retribuzioni orarie sono salite poco più del 100%. Ma se fino al 1970 la crescita è stata parallela, successivamente quella delle retribuzioni ha cessato di salire (. Contemporaneamente, la sindacalizzazione dei lavoratori USA è passata da oltre un terzo nel 1965 al 7% nel 2015!

 

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Fonte: Robet B. Reich: “Come salvare il capitalismo”, Fazi Editore, 2015, p. 160

 

Anche la fiscalità e la spesa pubblica hanno subito una sistematica re-distribuzione verso l’alto.

Dal 1978 l’imposta sui dividendi azionari è scesa al 15% mentre l’aliquota massima sui redditi da lavoro è al 35%; l’imposta sugli immobili è stata abolita e sono state concesse ampie esenzioni sulle successioni e donazioni. L’imposta sui redditi da capitale è passata dal 33% di fine anni 80 al 23,8% nel 2014. Sono state esentate da imposte le “donazioni filantropiche” di cui solo un terzo sono veramente umanitarie.

Contemporaneamente sono stati sacrificati investimenti e spese per i servizi pubblici essenziali, favorendo le attività private, soprattutto nell’istruzione.
Le sovvenzioni alle università pubbliche sono molto inferiori a quelle versate alle università private. Nel 2013 il contributo pubblico per studente di una università pubblica era dell’ordine di 6 mila dollari, un decimo di quello ricevuto dall’università di Princeton, privata!

Particolarmente grave è il diffondersi della pratica delle “sliding doors”, del passaggio senza vincoli di personaggi dalle istituzioni pubbliche ad attività economiche private e viceversa. Una carriera politica può così divenire allettante non per una vocazione al perseguimento dell’interesse pubblico, ma come trampolino di lancio per la propria carriera personale.

Tutto ciò è sostenuto da una comunicazione sistematica, diretta a presentare ogni provvedimento a favore delle grandi concentrazioni economiche come positivo per l’economia nazionale, e ogni spesa pubblica per i servizi sociali fondamentali come assistenziale e insostenibile. E confluisce a trasformare la democrazia in un’oligarchia.

Reich sottolinea che questa involuzione non è attribuibile solo alla destra (Partito Repubblicano), ma anche alle sinistra (Partito Democratico). E per dimostrarlo centra il mirino del suo ultimo libro su una personalità molto rappresentativa: Jamie Dimon. Si tratta del numero uno della JPMorgan, una delle cinque banche maggiori degli USA. Non solo: Dimon dal 2017 è diventato anche presidente della Business Roundtable, un’associazione che riunisce quasi 200 capi delle principali aziende americane. Di un recente “Manifesto” di questa associazione ho parlato con favore in un mio articolo.

Dimon è un sostenitore del Partito Democratico, e Reich elenca le sue numerose dichiarazioni di orientamento liberal, di critica al sistema economico vigente e a favore di una riduzione delle disuguaglianze. Ma secondo Reich i suoi comportamenti non coincidono affatto con le dichiarazioni, e sono tutti orientati a rafforzare il potere dei ricchi e potenti.

In particolare, punta la sua critica proprio sulla recente dichiarazione della Roundtable secondo cui il fine di un’impresa non è soltanto l’interesse degli azionisti (gli shareholder), ma anche quello di tutti coloro che sono coinvolti nell’attività dell’azienda (gli stakeholder, cioè i dipendenti, clienti, fornitori, comunità locali). Egli qualifica queste enunciazioni come pure relazioni pubbliche, così come molti impegni verbali sulla responsabilità sociale dell’impresa.

 

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Riconosce l’esistenza crescente di casi virtuosi, come le “benefit corporation”, le “imprese condivise” come la Patagonia, che praticano uno “stakeholder capitalism”, un capitalismo dei partecipanti al posto di un capitalismo degli azionisti. Ma non ritiene che si possa contare solo o soprattutto su di esse per un rovesciamento del sistema.

Secondo Reich, l’orientamento a favore degli stakeholder, di cui si parla da qualche anno ma che tarda a tradursi in comportamenti, era effettivamente praticato prima degli anni ottanta come regola dell’etica aziendale. Ne sono testimonianza le minori disuguaglianze nelle retribuzioni vigenti prima del 1980, la maggiore progressività delle imposte sul reddito e sulla ricchezza, così come l’andamento parallelo di retribuzioni e produttività.

CONTRAPPESI

Ma cosa propone Reich per contrastare la degenerazione della democrazia in oligarchia? Propone una politica che ricostituisca quei contrappesi che si sono perduti negli ultimi decenni, quel “potere compensativo” (espressione ripresa dal grande economista John K. Galbraith) di cui disponevano la maggioranza dei cittadini e dei lavoratori. «Per sconfiggere l’oligarchia è necessario che il resto di noi si unisca e si riprenda l’America». «La riforma della nostra vita comune non sarà guidata da imprese socialmente responsabili, né da capi azienda illuminati. Sarà guidata da cittadini impegnati e attivi».

Sono i «consumatori, i lavoratori, le piccole imprese, i piccoli investitori» che possono rovesciare il sistema di regole di mercato imposto «dai top manager delle aziende e della finanza, dai trader di Wall Street, dai gestori di portafogli e da grandi detentori di capitale fisso, che opera una «pre-redistribuzione verso l’alto di redditi e ricchezze».

Non è chiaro se Reich proponga la fondazione di un nuovo partito, o una scissione del Partito Democratico. Ma la sua titubanza dimostra la debolezza della tesi secondo cui la contrapposizione tra destra e sinistra è superata. Ed è evidente che il suo cuore è localizzato a sinistra!

Ma la rivitalizzazione dei movimenti di base e dei corpi intermedi come i sindacati richiedono orientamenti, comunicazione, norme di legge, risorse economiche e professionali che sono proprio le risorse delle forze dominanti. Il problema è come rompere il circolo perverso che fa sì che i ricchi e potenti orientino il sistema politico-istituzionale a loro favore.

Con tutta la consapevolezza del fatto che Reich, grazie alla sua lunga militanza, “conosca i suoi polli”, non credo che sia una buona politica associare i Dimon, sostenitori del Partito Democratico, ai Trump che fanno consapevolmente e deliberatamente il proprio interesse contro quello generale. A mio modesto parere è una posizione che risente di vecchie concezioni classiste. Occorre invece sfidare Dimon e i suoi simili sul dare corpo alle loro affermazioni, come la seguente: «Desidero che tutti abbiano accesso all’assistenza sanitaria? Sì. Desidero che i ragazzi dei quartieri disagiati si diplomino? Sì. Personalmente non mi dispiacerebbe pagare più tasse».

Sostenere la diffusione dell’associazionismo plurale, indebolito negli ultimi anni. Rilanciare la sindacalizzazione. Porre vincoli alla finanza fine a se stessa. Porre vincoli alle “porte girevoli” tra attività private e cariche pubbliche. Vietare i contributi ai partiti e alle campagne elettorali da parte di persone giuridiche (aziende, fondazioni) e consentirli con limiti drastici a persone fisiche ben individuabili («Cacciare il denaro dalla politica»). Ripristinare la separazione tra banche commerciali e banche d’affari. Fine dei bonus lobbistici. Restrizioni sui brevetti. Ridare potere agli organi antitrust, dallo «smantellare i monopoli delle reti via cavo», al vietare «di brevettare i tratti genetici chiave della catena alimentare», Ridurre le dimensioni delle grandi banche perché nessun detenga più del 5% della attività bancarie del paese. Vietare le manipolazioni di borsa a favore dei manager (insider trading, buyback societari, stock option e premi di risultato), configurandoli come vere e proprie truffe, ripristinando regole abolite. Salario minimo a livello di metà del salario medio. Finanziamenti pro-capite della spesa scolastica uguali in tutte le scuole.

Occorre mettere alla prova i sedicenti sostenitori dell’interesse pubblico con il sostegno a norme di legge che creino le condizioni necessarie al conseguimento di questi obiettivi. Ma soprattutto fargli acquisire la visione di una economia come quella riassunta da Mattarella con la citazione all’inizio di questo articolo, visione che nel lungo termine sarebbe nell’interesse non solo della maggioranza della gente comune, , ma anche loro e delle loro imprese:

«Le disuguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita. Sono piuttosto il freno per ogni prospettiva reale di crescita».

Ovviamente la “lezione americana” di cui parlo in questo articolo parla anche, e molto, a noi. De te fabula narratur.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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