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Nel 2022 la spesa pubblica italiana ha superato la stratosferica cifra di 1000 miliardi di euro.

Colgo l’occasione per una sintesi dei fondamentali economici italiani, spesso dimenticati nel dibattito quotidiano che si concentra su particolari aspetti della spesa pubblica, senza inquadrarli nei dati complessivi. Qualcuno addirittura confonde i miliardi con i milioni, dimenticando che di milioni ce ne vogliono mille per fare un miliardo.
Mille miliardi di euro di spesa pubblica significano il 53% del prodotto del nostro Paese (PIL), stimato per il 2022 in poco meno di 1.900 miliardi di euro. A fronte di questa somma, sta un debito di 2.700 miliardi di euro, pari al 143% del prodotto.
Alcune considerazioni sono relativamente ovvie: la quota di spesa pubblica sul PIL non può essere aumentata, se vogliamo che il nostro Paese rimanga un’economia di mercato. Anche il debito non può essere aumentato, anzi va ridotto per poter conservare il credito internazionale e alleggerirne il peso sulle future generazioni.

 
Ma il Paese ha un grande bisogno di risorse per ridurre le disuguaglianze e la povertà e per il risanamento ambientale. Che significano ricerca e istruzione, sanità, strutture e infrastrutture. Che fare?
Prima di tutto viene la lotta all’evasione fiscale. Dato che lavoratori dipendenti e pensionati sono già oberati da tasse che non possono evadere, occorre agire sui lavoratori autonomi e sulle rendite, dove l'evasione è facile e ampiamente praticata. Ma non è ammissibile tartassare imprese e lavoratori autonomi, come si è fatto con gli algoritmi astrusi degli studi di settore. Si tratta semplicemente di individuare e perseguire i singoli elusori ed evasori, e di trattarli, una volta acquisite prove certe e non sparando nel mucchio, come ladri di risorse publiche. Secondo il NADEF (Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza) del 2022, le tasse evase nel 2019 sono stimabili in circa 100 miliardi di euro, il 10% delle pubbliche entrate. La somma complessiva dell’evasione è in diminuzione, grazie all’azione pregevole della Guardia di Finanza (4 miliardi recuperati nel 2019 rispetto all’anno precedente), ma evidentemente va continuata e rafforzata, senza marce indietro (condoni).

 

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Occorre poi tornare alla progressività delle tasse di una volta, con metodi e tecniche nuove, consentite dalla rivoluzione digitale, superando il sistema degli scaglioni. E’ provato che quando la progressività delle tasse era alta lo sviluppo economico era superiore a quello degli ultimi 40 anni, caratterizzati da un appiattimento della progressività e dalla riduzione della pressione fiscale sui ceti più ricchi.
Occorre inoltre portare le tasse su successioni e donazioni ai livelli europei. Il gettito potrebbe essere di almeno 5 miliardi di euro (invece degli attuali 800 milioni).


E si dovrebbe “sdoganare” nell’opinione pubblica, ampiamente disinformata e spaventata ad arte, la possibilità ed equità di una imposta patrimoniale sulle ricchezze detenute dal 5-10 % dei contribuenti più ricchi, escludendo quindi il restante 90%. In fondo, si tratterebbe di applicare anche alle ricchezze delle persone fisiche i criteri usati nelle norme anti-monopolio, che colpiscono l'abuso di posizioni dominanti. E si tratta di far capire che una imposta patrimoniale non è una “tassa sulla casa”, in un Paese in cui il 75% della popolazione è proprietaria della propria abitazione. Un catasto veritiero, consentito dalle tecnologie digitali, consentirebbe di tassare solo “i paperoni” proprietari di ville e grandi patrimoni immobiliari, lasciando indenne o alleviando gli oneri sulla maggioranza delle famiglie.
Secondo calcoli di Oxfam, basati su metodologie del Credit Swisse, nel 2019 la ricchezza nazionale italiana ammontava a oltre 9 mila miliardi di euro, cioè oltre 4 volte e mezzo il PIL annuale. Di questa somma, il 20% più ricco della popolazione detiene il 70%, cioè oltre 6000 miliardi di euro. Se tutta questa ricchezza fosse fiscalmente accertata , un’imposta di solo il 2% frutterebbe ogni anno oltre 100 miliardi. Circa il 10% delle entrate dello Stato, come stimato per l’evasione fiscale.


Ma nell’attuale situazione delle dichiarazioni dei redditi, secondo calcoli basati sull’ISEE, una tassa progressiva dallo 0,5% al 2% sui patrimoni superiori a un milione di euro, posseduti dallo 0,5% dei contribuenti, potrebbe avere un gettito di circa 30 miliardi di euro. Al di là della somma, una tassa di questa misura sarebbe significativa per diffondere una nuova cultura sulla proprietà privata, un diritto intrinseco ai sistemi democratici, ma che tuttavia non può essere assoluto, in contrasto con i diritti di libertà, eguaglianza e fratellanza. Anche il diritto di proprietà deve svolgere una “funzione sociale”, come afferma il lungimirante articolo 42 della nostra Costituzione.
Nel suo insieme  e sui ceti medi la pressione fiscale dovrebbe restare invariata, mentre i meno abbienti dovrebbero essere alleggeriti o esentati.
Data l’estrema concentrazione delle ricchezze verificatasi negli ultimi decenni, il gettito potrebbe infatti essere consistente senza dover gravare sui ceti medi e sulle fasce più basse di reddito.


Occorrerebbe in sostanza e semplicemente applicare il principio espresso nella famosa frase “Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”. resa celebre da Marx, ma ripresa dagli Atti degli apostoli (At 4, 35). Del resto, a che serve uno “stato” se non soprattutto a questo?
Tutto ciò non significa abbandonare la cultura del merito, di per sé irrinunciabile per il bene di tutti in un sistema democratico efficiente ed efficace. Significa rifiutare una cultura che implichi il considerare solo e tutti i ricchi "meritevoli" delle loro fortune e i meno abbienti colpevoli per le loro condizioni. E abbandonare la cultura del “thrikle down”, secondo cui solo chi più possiede è un produttore  che elargisce benessere per  tutti, e in quanto tale va agevolato fiscalmente.


In realtà tutta la politica fiscale interna dovrebbe essere inquadrata in un protagonismo a livello internazionale, soprattutto per imporre regole alle attività finanziarie, eliminando i paradisi fiscali, colpendo la finanza speculativa fine a se stessa, frenando la competizione fiscale al ribasso tra i paesi finalizzata ad attrarre le attività produttive. Razionalizzando e riducendo le spese militari (promuovendo il disarmo internazionale, a parte le esigenze contingenti come nel caso della resistenza ucraina).
E infine, come traduzione nei fatti del cambio culturale, l’operazione più difficile: una drastica “spending revue”, cioè la riduzione/cancellazione di bonus, incentivi, sussidi e agevolazioni varie a singole categorie e attività non prioritarie o addirittura inutili o dannose,
Procedendo con costanza in questa direzione sarebbe possibile ottenere le risorse mancanti per garantire a tutti i cittadini gli investimenti e i servizi essenziali (cultura, ricerca e istruzione, sanità, abitazione, giustizia, una politica attiva dell’occupazione, una convivenza non rapace e salutare con l’ambiente, uno sviluppo economico meno attento all’aumento del PIL e più agli indicatori delle condizioni ambientali, delle disuguaglianze e della coesione sociale. Tutto ciò assicurerebbe maggiore sicurezza, riducendo il fabbisogno per polizia e carceri.

 

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Carlo Cottarelli


Purtroppo, come ha scritto Eugenio Occorsio su Affari & Finanza del 21 novembre scorso,  “Nonostante la spending review sia stata affidata a persone del calibro di Tanzi, Padoa Schioppa, Cottarelli… non si è riusciti ad arrivare al cuore del problema…Troppo forte è risultato il potere d’interdizione delle lobby e dei gruppi precostituiti di potere”. Ma è chiaro: non bastano le migliori expertise scientifiche per risolvere il problema. Occorre la cultura e il potere di una diversa opinione pubblica e di un diverso e prevalente potere politico.

La Commissione UE che indaga sulla giungla delle “tax expenditures” stima intorno ai 160 miliardi di euro le somme recuperabili e destinabili a fini socialmente ed economicamente più efficaci ed efficienti. Sarebbe proprio questo il compito di una sinistra riformista veramente tale: diffondere nell’opinione pubblica la consapevolezza della necessità, possibilità e convenienza di una politica economica dirompente (la comunicazione è fondamentale, come ben sanno i populisti) e perseguirla con le necessarie convergenze di potere e il consenso della maggioranza dei cittadini.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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