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 Dossier. Startup, green economy, innovazione. Lunga intervista a Carlo Abbà, assessore monzese per il turismo e le attività produttive. Expo, università, patrimonio storico e innovazione «Vogliamo innestare elementi nuovi: ambienti di co-working, incubazione start-up e quant’altro. Collegandoci però sempre con rappresentanze economiche»

Buongiorno assessore. Cominciamo da qui. Ogni volta che si entra in Comune si ha la sensazione di perdersi nella burocrazia, nei tempi di attesa: quanto può contare questo in termini di capacità di attrarre le imprese e facilitare i rapporti con le aziende?
Che esista questo aspetto è sicuro ed è come se fosse codificato. E' una difficoltà oggettiva che c’è, anche se i poteri di un assessore sono solo di indirizzo e di controllo: spetta poi alla macchina amministrativa eseguire le direttive.
Le mie due linee di approccio sono, da una parte, portare avanti la sburocratizzazione interna e la semplificazione intelligente. Abbiamo realizzato uno sportello unico per le attività produttive: tutte le pratiche per cui prima serviva la DIA (dichiarazione di inizio attività, ndr) le abbiamo portate sul web, in modo che ognuno le possa compilare quando vuole, anche sabato e domenica se ritiene. C’è tracciabilità, si conosce lo stato di avanzamento della procedura ed, eventualmente, se ci sono dei problemi. Inoltre, abbiamo sgravato gli operatori economici dall’onere di richiedere i certificati, ad esempio quelli ai vigili del fuoco: ci pensiamo noi ad inoltrare la richiesta e raccogliere la risposta.

Avete già verificato una riduzione dei tempi?
Non ancora, perché siamo partiti tra settembre e ottobre. Ad ogni modo è evidente che facendo tutto da casa, il processo si semplifica di molto. Questo porta due effetti, uno di efficienza, l’altro di trasparenza: ambedue non indifferenti.
Direi quindi che sulla normalità cerchiamo di essere mediamente veloci. Sugli atti eccezionali, vedremo: anche in un’azienda i progetti speciali hanno una linea propria rispetto agli altri.

E l’altro tema?
L’attrattività. La linea è stata impostare un lavoro con le rappresentanze degli operatori. Il Comune in questo caso ha un ruolo di stimolo, guida, garanzia di tutti. Agevola i progetti, suggerisce le idee che poi verranno realizzate all’esterno.

Esempi?
Il bando smart city. Sono 22 milioni, ci abbiamo creduto e l’abbiamo vinto. Abbiamo lavorato molto sull’idea di aggregare comuni ed enti locali, Expo e sponsor di vario tipo. Il CNR ha lavorato sulla compagine, io grazie alle mie conoscenze ho trovato qualche grande azienda, perché serve anche quello, e alla fine ce l’abbiamo fatta. Tutto nasce da un ricercatore o da un imprenditore che ha un’idea: l’Amministrazione non può partecipare come investitore, ma ci ha messo il suo peso istituzionale dicendo “noi ci crediamo”. Altro esempio: il protocollo Expo. Expo 2015 ci ha dato pieno appoggio. Tutta questa attività di mediazione è l’esempio del nostro ruolo. E ancora: l’itinerario culturale dei Longobardi, di cui si è parlato nei giorni scorsi.

 

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Oggi il visitatore quando va in un luogo vuole vivere un’emozione. Non gli basta arrivare, guardare il monumento, cenare e partire

Su quello torneremo più avanti. Restiamo sull'attrattività: una parola molto in voga ma di cui non è sempre chiaro il significato. Come la definirebbe anche in base alla sua esperienza?
Difficile definirla. Prima di tutto bisogna presupporre che il luogo abbia gli elementi per essere attrattivo, e Monza li ha. Non è Firenze, non è Venezia ma per un visitatore medio che sa di andare in una località “minore” può essere interessante. Ci sono alcune risorse: il museo del Duomo, quello civico che apriremo, la Villa Reale col Parco, l’Autodromo, e credo che anche il centro storico possa essere una meta: un paio di giorni a Monza e poi girare per il resto d’Italia, perché no?
Oggi il visitatore quando va in un luogo vuole vivere un’emozione. Non gli basta arrivare, guardare il monumento, cenare e partire: non funziona più così. Il visitatore vuole vivere qualche cosa.
Noi pensiamo che qualcosa da vivere a livello emozionale a Monza ci possa essere. Ce lo dicono le analisi della Camera di commercio sul turismo business: il dato confortante è l’incremento della città come destinazione, anche perché siamo una novità. Mi lasci fare un esempio reale: un tour operator ha un cliente che vuole organizzare una convention. Gli propongono Milano. Lui risponde: "Ancora?".  Monza è vicina a Milano senza esserne la periferia, abbiamo anche questo fattore di vantaggio. Alla fine dell'incontro, abbiamo portato queste persone a vedere il museo del Duomo, la Corona Ferrea, e ci hanno lasciato dicendo: “Non immaginavamo aveste un patrimonio di questo genere”.

Parliamo della vicinanza tra Monza e Milano: una realtà di rilevanza mondiale cui se ne affianca una molto più piccola. Si può vedere come uno svantaggio o come un’occasione. In che posizione si pone Monza nei confronti del capoluogo? Subalterna, specializzata in alcuni settori, di buen retiro per chi preferisce una vita tranquilla? Mi dica lei.
Per il buen retiro, è una scelta degli individui. Il rapporto con Milano va visto con sano antagonismo. Vorrei uscire dalle battagliette pseudo leghiste…

Anche perché viste in ottica non locale, sembrano ridicole.
Possiamo offrire qualcosa a Milano, se lo vuole, ma anche sfruttarla. Il capoluodo ha già un proprio flusso di turisti: il problema è far sapere ai visitatori che noi siamo qua. C’è il progetto di entrare nel circuito dei musei meneghini inserendo in una card  speciale anche quelli di Monza. Con Expo, nel 2015 passeranno in Lombardia milioni di visitatori: noi cerchiamo di acchiapparne qualcuno.
Direi che siamo una meta alternativa per chi deve fare una visita a Milano e magari, per distrarsi,  può fare un salto qui, oppure per il turismo business che al sabato e alla domenica vuole una destinazione diversa dalle solite. Il Parco, il golf, la Villa Reale, un giro di pista in Autodromo, e se ne ho voglia, posso fare anche delle passeggiate.

 

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 “Puntiamo a un turismo di qualità”, aveva detto qualche settimana fa.
Si, un turismo di qualità; che non va però confuso con il profilo dell’ “altospendente”.

 Il ciclo di vita di un’area turistica si potrebbe sintetizzare in cinque fasi: esplorazione, coinvolgimento, sviluppo, consolidamento e stasi. A che punto si trova Monza secondo lei?
Nella fase di sviluppo.

Siamo andati da Expo Spa senza intermediari: a loro Monza interessava, ed è come ci avessero detto: finalmente siete venuti.

Ne è sicuro?
Si, perchè siamo costretti a bruciare le tappe. Lego questo discorso ad Expo: quando ci siamo insediati, al riguardo non era stato fatto niente. Semplicemente, non c’erano tracce di vita. Ci siamo dati da subito uno strumento andando da Expo Spa senza intermediari: a loro Monza interessava, ed è come ci avessero detto: finalmente siete venuti. Fatte chiare le regole del gioco, abbiamo fatto un protocollo di intesa impegnativo e pesante, e organizzato un tavolo di lavoro convocando tutti: Provincia, Confindustria, Confcommercio, Confartigianato, Assolombarda, Bicocca. Ne abbiamo ricavato due linee di azione: Expo come occasione di sviluppo per le imprese, quindi fatturato, e come opportunità per il territorio.
A questo siamo arrivati semplicemente mettendo a fattor comune quello che stiamo già facendo: e ci siamo accorti che c’è una bella ricchezza. Esistono delle esplorazioni della Camera di commercio per il turismo legato alle convention: nessuno ci crede, ma sarà un successo.
Entro febbraio con Camcom daremo vita a una società per la gestione e promozione del territorio.

Una società nuova?
In realtà c’era già. Si chiama Monza crea valore, ma era una scatola vuota che serviva per le cartolarizzazioni.
Ci vuole un ente che garantisca tutti sul territorio, e che faccia da tramite tra prodotto e offerta: noi lo stiamo realizzando. Capisco che è un percorso disordinato, ma siamo costretti ad accelerare perché dobbiamo recuperare tempo. Dagli studi che abbiamo visionato, non siamo percepiti come luogo per convention da 2-3 mila persone, che peraltro si organizzano sempre meno. Quelle di oggi sono molto segmentate, il taglio medio va dai 200 ai 400 partecipanti: e su questo abbiamo qualcosa da dire perché vendiamo un’emozione. Se uno vuole usare l’emozione di Monza per i propri clienti, lei può farlo. L’emozione di una convention sulla linea di partenza, in Villa Reale o, esagero: nella sala del museo del Duomo. Oltre alle bellezze, serve naturalmente una struttura di operatori economici efficiente. Dall’Italia gli stranieri vogliono questo: il bello, e le aziende. Di giorno si va in giro, di sera si firmano i contratti.

 

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Expo 2015 è una grande occasione per farci conoscere, portare qui un po’ di gente, per posizionarci sul mercato.

Di Expo si parla spesso in maniera un po’ propagandistica. Si insiste molto sulle ricadute occupazionali ma mi sembra ci si dimentichi di operare un distinguo tra il comparto alberghiero  e della ristorazione - che avrà di sicuro benefici durante l’evento - e ciò che verrà dopo. Cosa resterà dopo i sei mesi dell’esposizione universale? Le ricadute in quel periodo sono scontate, ma per il dopo è questione di gestione, di avere le idee chiare su come creare il valore post-eventum. Condivide questa analisi? Avete già dei dati a disposizione? Cosa resterà a Monza dell’Expo, dato che ne è sede di rappresentanza?
Dati non ne abbiamo, non avendo un passato di attrattività è molto difficile fare raffronti. L'Expo rappresenta per noi l’opportunità di accelerare fortemente un processo che avremmo comunque dovuto fare.
È una grande occasione per farci conoscere, portare qui un po’ di gente, posizionarci sul mercato. Non so cosa rimarrà, ma vogliamo posizionarci come luogo di cultura e di storia. Una volta entrati in questo circuito, si comincia ad “esserci” e a diventare una risorsa della quale si tiene conto. Non c’è più solo Palazzo Reale a Milano, ci siamo anche noi che facciamo parte dell’offerta del territorio attorno a Milano. Per il posizionamento come meta vale anche il passaparola. Oggi non ci conosce nessuno. Si, c’è l’Autodromo, ma anche molto altro. Il sindaco di Indianapolis ha detto: “Il nostro autodromo è sempre pieno, e abbiamo solo quello. Voi avete un sacco di roba, come mai non c’è gente?”. Abbiamo qualche problema da risolvere, è stata la risposta. Quello che resterà dopo l’Expo è entrare nel circuito delle destinazioni. Faccio un esempio un po’ blasfemo. Como la conoscono tutti. Città carina, mi piace, ma ci sono il lago, le ville, e finisce tutto lì. Eppure hanno un gran flusso turistico perché sono posizionati da decenni.

Oltre alle bellezze che sono di livello mondiale, però, Como probabilmente ha strutture per la ricettività diverse da Monza. A Capodanno il centro di Como era illuminato in maniera splendida, tanto per dire. Monza era vuota.
Ha ragione, ma cominciamo il percorso, poi una volta posizionati arriveranno gli investimenti. Stiamo iniziando un processo che richiede tempo, tecnologie, competenze, marketing, come qualunque processo industriale. Non si diventa un marchio in un anno, ma da qualche parte bisogna cominciare. Me la faccia dire male: noi pensiamo di avere già il prodotto grezzo. Se gli operatori economici riterranno di investire, cresceremo tutti: ma dobbiamo creare le condizioni.

È ora che finisca la storia che ogni città deve avere la sua università, è una visione provinciale.

Finora abbiam parlato di attrattività turistica. Parliamo invece di produzione. Lei assomma le deleghe a Commercio, Industria, Artigianato. Cosa state facendo in sintesi estrema? E secondo lei quale di questi settori caratterizza maggiormente Monza, cioè qual è l’anima della città nel 2014?
Monza non si è terziarizzata più di tanto. Sono andate via molte aziende, ma in fondo questo è accaduto anche altrove. Basti pensare a Vimercate, con Ibm o Alcatel, o al resto d’Italia. A Monza ci sono forti competenze storiche nel campo della tecnologia, e una presenza universitaria che non bisogna trascurare. Quindi ci stiamo muovendo da una parte per irrobustire la presenza universitaria con scuole di alta formazione, post universitarie in particolare. È ora che finisca la storia che ogni città deve avere la sua università, è una visione provinciale. Il problema non è quanti studenti ho: se faccio un master noto nel mondo, vale molto di più. Per questo stiamo lavorando con la Bicocca nel ruolo di seminatori, di registi, cercando di mettere assieme idee e farle circolare. Dall’altra parte non sono d’accordo che sia il settore pubblico a fare le cose, perchè deve essere il privato; il pubblico deve fare da garante, stimolatore, usare il proprio peso istituzionale, ma non investire. Su questo nucleo base vogliamo poi innestare elementi nuovi: ambienti di co-working, incubazione start-up e quant’altro. Collegandoci, però, sempre con le rappresentanze economiche del territorio

 

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Diceva che la terziarizzazione a Monza non è ancora a livello alto.
Secondo me non più di tanto, è vero che le banche aumentano ma credo sia così.

Pensate di insistere su questo punto oppure a Monza resterà la vocazione industriale e manifatturiera?
Ci vuole il comparto dei servizi, è ovvio, ci vuole la finanza. Quando Telecom e Fastweb hanno fatto l’investimento per la banda larga a Monza hanno valutato due dimensioni: spesa media superiore a quella nazionale, e non pagato inferiore: partendo da questi dati hanno investito dieci milioni ciascuna per realizzare l’infrastruttura, che è un altro degli elementi portanti per l’attrattività. Voglio dire, i servizi finanziari, per le aziende, sono essenziali. Però oggi quello che noi tentiamo è la strada del digital manufacturing. Da noi non torneranno mai le lavorazioni per fare gli ombrelli da un euro, che si reggono sul fatto che la persona che li produce guadagna un euro al giorno. Tra l'altro, non sono neanche di grande interesse, perché altamente inquinanti. Da noi torna la manifattura che deve trovare competenza e conoscenza. Su questo riteniamo di essere un territorio attraente.

C’è una formazione ad hoc sul territorio? Per sostenere una visione del genere, adeguata nel tessuto professionale, ci sono le scuole giuste?
Stiamo cercando di aprirle ai nuovi mestieri. Ma l’anno scorso abbiamo fatto un convegno interessante centrato su innovazione urbana: le aziende ci raccontavano come l’innovazione urbana per loro sia business.

Mi faccia due esempi di quello che intende.
Innovazione urbana può essere ristrutturare un’area e fare un insediamento legato alla nuova creatività, un insediamento che metta assieme tutti: fab lab, incubatori, co-working. Il punto è mettere assieme i giovani che hanno idee.

Avete già qualcosa in mente?
Ci stiamo ragionando. Proseguendo con gli esempi, direi che è importante fare un utilizzo intelligente delle aree verdi. Aziende come Cisco, Generali, Intesa San Paolo spiegavano che per loro queste cose sono business. Peraltro i fondi europei insistono esattamente su questi aspetti. Il mondo sta andando in questa direzione: il modello digitale come lo conosciamo non funziona più e bisogna inventarsi  cose nuove, modelli nuovi dell’abitare. Oggi il costruttore si indebita per realizzare il classico appartamento da 100-120 mq, che poi l’acquirente si indebita per compare: è un modello che non funziona più, quindi bisogna immaginarne uno nuovo.

Ha un’idea da questo punto di vista?
In parte penso al co-housing, e a tutte quelle forme diverse dall’edilizia popolare classica: quella in cui una persona entra in un alloggio e ci resta una vita. Le idee a cui penso riguardano i giovani che il lavoro ce l’hanno, hanno un reddito ma non un introito stabile, e ciò è dovuto a come è fatto il mondo del lavoro oggi. Penso a chi guadagna bene perché è un professionista bravo, ma non è sicuro che quello sarà il suo stipendio per i prossimi dieci anni. Su questo stiamo lavorando.

 

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Mi consenta un excursus. In Italia la casa di proprietà è notoriamente un obiettivo di tutti, secondo lei si tratta di un modello superato?
No, la casa è un problema di tutti. Il percorso classico lo abbiamo anche noi della generazione prima: prima in affitto, poi si compra una casa piccola, quindi una più grande.

Però la Camera di Commercio cittadina ha pubblicato di recente una statistica per cui 2 giovani su 3 sono costretti a tornare a casa per le difficoltà economiche dopo esserne usciti.
Non voglio invadere ambiti che non sono di mia competenza, ma l’edilizia a cui penso è rivolta a questo tipo di giovani. Se le cose nella vita gli andranno bene, la casa un giorno se la compreranno. Quello a cui pensiamo è cosa fare nel frattempo. Una parte dei costruttori sta capendo che così non funziona: ed è la quota di invenduto a testimoniarlo. I nuovi modelli hanno un ritorno per il costruttore che non è più a cinque-sei anni, ma a dieci, quindici anni.

Il vero supporto di cui c’è bisogno però sono i business angels, persone e investitori che analizzano progetti di aspiranti imprenditori e decidono di investirvi

Siamo quasi alla fine. Si parla molto di start-up, un termine di cui si conosce molto bene il significato teorico: è quell’impresa che nasce da un team di giovani - prevalentemente -  che hanno le idee ma non i mezzi per realizzarle. Facciamo il caso di un giovane monzese che non abbia garanzie da offrire ma cerchi di mettersi in proprio: cosa fa? Viene da lei e bussa alla porta? Va in Camera di Commercio, da Confindustria? Insomma, quale percorso suggerisce?
Oggi ci sono dei programmi di supporto, la Camera di commercio fa giornate formative, mette a disposizione un consulente e forse qualche soldo ma non sono sicuro. Anche Confindustria cerca di incubare le nuove imprese in modo leggero, mettendo in relazione la domanda con l’offerta. Il vero supporto di cui c’è bisogno però sono i business angels, un’associazione di persone e investitori che analizzano i progetti di aspiranti imprenditori e decidono di investirvi, o in gruppo o da soli. Parliamo di cifre non troppo consistenti, fino a 200mila euro per intenderci. La differenza è che non si occupano solo della parte finanziaria: in qualche modo entrano nell’azienda e la supportano nello sviluppo. Il grande supporto di cui c’è bisogno non è solo finanziario: quello, al limite, non è un problema enorme. Il problema è legato al fatto che in questo caso parliamo di giovani alla prima esperienza. Passare dall’idea a un progetto a una società richiede grandi passi. Ad esempio, abbiamo riscontrato che quasi nessuno si pone la domanda essenziale: “Come vendo quello che produco?”.

Dove si trovano i business angels?
È una rete internazionale, ce ne sono anche in Italia, a Milano. Per una start-up servono soldi, ma soprattutto supporto. Poniamo che tu sia bravino e abbia fondato un’azienda da qualche milione di euro: a questo punto devi fare il salto e devi trovare un altro investitore sul mercato duro, e lì bisogna essere accompagnati, perché certe dinamiche bisogna conoscerle bene. Questo è il percorso, e noi stiamo lavorando per fare qualcosa in questo senso anche qui a Monza.

Esattamente, cosa?
Per il momento abbiamo dei contatti con degli investitori privati.

Quindi se un giovane vuole mettersi in proprio può bussare alla porta del Comune?
Se viene in Comune secondo me non farà molta strada perché non ci sono soldi. Se bussa alla mia porta, però, posso dargli un consiglio basato sulla mia esperienza personale.

 

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Si insiste spesso sul fatto che per capire l’innovazione e finanziarla servono persone preparate. Lo sciur Brambilla non capisce niente di start-up.
Beh, ma lo sciur Brambilla ai suoi tempi è stato uno startupper.

Certo, assessore. Ma personalmente fatico a capire quelli di 15 anni, e ne ho 32, immagino chi ha qualche anno in più. Bisogna essere "sul pezzo" per comprendere l’innovazione.
Ha ragione. Però, innanzitutto, l’innovazione va spiegata bene: poi è chiaro che qualcuno la capirà e qualcun altro no. Le faccio un esempio: Facebook dieci anni fa non esisteva. L’idea era banale, ma Zuckerberg non è stato bravo solo all’inizio, è stato bravo anche dopo a continuare a svilupparla e a non dare niente per scontato con un ciclo di innovazione brevissimo, istantaneo. Facebook è diventato uno strumento di cazzeggio, tirando fuori il peggio delle persone, ma anche uno strumento di comunicazione del business. Tutte le grandi aziende lo utilizzano per comunicare ma soprattutto per ricevere feedback: li scremano, li lavorano, fanno un grande lavoro di analisi. Sono nate un sacco di aziende che analizzano i flussi. Zuckerberg quindi è stato bravo ad avere l’idea, ma è stato bravo anche dopo. E poi, qualcuno deve averlo consigliato. È per questo che c’è bisogno di un ambiente di fertilizzazione e di supporto per crescere.

Start-up significa anche lavorare in scantinati, senza orario, non avere certezze sul futuro. E' un mito affascinante se si guarda a chi ce l’ha fatta come Jobs, Gates, Zuckerberg; ma a volte “stay hungry stay foolish” può voler dire veramente fare la fame. Lei non vede una cesura tra i giovani startuppers e i loro dipendenti,  da una parte, e la generazione più vecchia? Siamo in un momento in cui si spinge molto sul mito della frontiera, data la situazione economica: ma quanto c’è di vero?
La domanda è complessa. Uno potrebbe rispondere che in provincia di Monza e Brianza ci sono più di 60mila aziende e ciascuno di loro era all'inizio uno startupper. Il problema è che oggi tutto il processo si è accelerato perché sono caduti i modelli industriali classici. Negli anni ’70 un laureato per definizione sceglieva. Prima che si laureasse, gli arrivavano dieci proposte di colloquio, e se entrava all’IBM, ci restava a vita. Non solo: era  il modello sociale a essere diverso: anche l’operaio se entrava in azienda raramente cambiava. Poteva continuare a fare il suo lavoro, oppure fare un percorso che lo avrebbe portato a diventare caposquadra, mentre il laureato – se non era proprio un imbecille – andava direttamente a fare il dirigente. Questo modello si è frantumato nel tempo. L’altro fattore che ha cambiato le cose sono le tecnologie. Oggi il ciclo di prodotto è velocissimo, soprattutto per ciò che in qualche modo è legato alla Rete: cinquant'anni fa non sarebbe mai successo che un venticinquenne potesse diventare miliardario. Oggi accade da qualche parte, e anche in Italia. In sintesi, i tempi una volta erano più lunghi. Provi a pensare: se in aeroporto il suo volo non partiva, lei per chiamare a casa faceva la coda al telefono pubblico assieme a tutti gli altri passeggeri. Oggi ognuno usa il proprio cellulare. La tecnologia ha impresso un’accelerazione fortissima. Domani ogni cosa sarà collegata con la Rete: e abbiamo fatto l’uno per cento di quello che si può fare. Le possibilità sono lì; e si possono cogliere in breve tempo. Per chi lo fa, si tratta probabilmente anche di una scommessa personale: e se fai una scommessa personale non hai orari. La formula è nota: se fai il lavoro che vuoi fare, non è un lavoro, perché non ti obbliga nessuno.

Ma insomma: lei vede questa cesura tra il presente e il passato?
È vero il fatto che venga stimolato questo modello: ma succede perché non esiste più il modello sicuro del lavoro di una volta. Chi fa lo startupper a 25 anni non sa com’era il mondo prima. Glielo ha raccontato suo padre, al limite suo fratello, ma il giovane vede solo che c’è una precarietà nel lavoro: è quindi più stimolato a giocarsela da solo.

 

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Roberto Scanagatti, sindaco di Monza, e Carlo Abbà

 

Lei è entrato in politica tardi, dopo una vita nel mondo del lavoro. Da persona che non ha mai fatto politica, trovarsi in un ambiente come questo non la fa sentire un po’ un intruso? E in che maniera è riuscito a trasferire il suo know how in questa nuova attività?
Non ho fatto mai politica ma me ne sono sempre interessato. Tenga presente che nel ‘68 avevo 17 anni. Dopo quegli anni ho finito di studiare, mi sono sposato, e mi sono dedicato al lavoro, anche perché era un’epoca brutta. Dal ‘70 al ‘76 il movimento che, pur con tutti i suoi limiti, era creativo è diventato più truce. Non era così difficile fare il passaggio da un certo ambiente alla clandestinità, e tanti l'hanno fatto. Dal punto di vista politico, sono stato consigliere di circoscrizione per cinque anni prima di fare l’assessore, e oggi la vivo come una delle tante scommesse personali della mia vita. Mi sono lanciato in questa sfida, ho certe idee, ne abbiamo parlato col sindaco, e abbiamo deciso di giocarcela. Com’è chiaro, non è una scommessa di basso profilo. Gli obiettivi che mi sono dato sono molto alti, e non so se ce la farò a centrarli tutti.

A che punto è arrivato?
Sull' attrattività, ne ho realizzati una buona parte. Il lavoro va finito, ma è stato impostato. Sulla parte industriale, invece, ci stiamo lavorando, perché è più complicato. Ma il grande risultato è che, come Comune, siamo il punto di riferimento di tutte le associazioni e le  rappresentanze economiche e non solo per autorevolezza, creatività e operatività. È una scommessa personale in cui sto investendo molto. Il mio obiettivo è introdurre forti cambiamenti nella città, valorizzare quello che c’è, e aggregare le forze che ci credono. Se riuscirò a fare una buona parte di quello che ho in mente, un po’ di trasformazione a Monza credo la vedremo.

antoniopiemontese ( chiocciola ) hotmail.it
http://antoniopiemontese.com/

 

Le foto della città sono di Gabriele Basilico e tratte da “Monza paesaggi interiori”, a cura di Roberto Cassanelli, 1999 Silvana Editoriale

 

Gli autori di Vorrei
Antonio Piemontese
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