20150522 potere

 La personalizzazione in politica. Da Berlusconi a Grillo e Renzi. Il linguaggio, il superamento dei corpi intemedi, delle ideologie. Della politica?

Tratto da Humanities, Anno IV, Numero 7, Gennaio 2015

 

Se Grillo può cogliere il sentimento antipartitico dalla posizione del comico che proviene dall’esterno, la costruzione del consenso per Matteo Renzi è invece vincolata dall’essere parte di un partito radicato. Il che implica una sorta di equilibrismo tra l’essere dentro il partito e contro il partito, che sembra la sua cifra distintiva da quando si propose come «rottamatore» della vecchia classe dirigente a quando, dopo aver vinto le primarie diventando segretario del Pd, contrasta il governo di Enrico Letta e ne prende il posto.

La comunicazione politica degli esponenti del centro-sinistra ha difficilmente intercettato le trasformazioni di un’arena politica fortemente riarticolata e mediatizzata in cui le regole del gioco sono state dominate da Berlusconi. Molte le dimensioni che hanno reso problematico l’adeguatamente delle strategie: dal tipo di organizzazione partitica alla coesistenza di componenti con visioni differenti, dalla difficoltà di un soggetto plurale ad interpretare l’esigenza di individuare una leadership forte e riconoscibile a quella di trovare i codici più adatti a rivolgersi contemporaneamente al suo elettorato tradizionale (ideologico e di opinione), ma anche potenziale (che potrebbero essere attratto con altri registri). Le caratteristiche di un partito fondato su forti basi ideologiche e radicamento sul territorio, si prestano con difficoltà a cogliere le esigenze poste dai processi di mediatizzazione e personalizzazione della politica (Bordignon, 2013).

Il metodo delle primarie ha introdotto sia elementi di maggiore autonomia dei leader sia un più stretto legame con la base. Tuttavia, prima di Renzi, la sinistra ha dimostrato di trovarsi a disagio, per ragioni ideali e culturali, ad esprimere, sul piano nazionale, una leadership personale forte, che si appelli al sentimento identitario cercando di conquistare anche quella parte di elettorato poco incline ad adattarsi agli schemi della rappresentanza ideologica (Calise, 2010). Durante la campagna elettorale del 2013, Bersani è l’unico leader che sceglie di non personalizzare la competizione, puntando sul partito come soggetto plurale e rifiutando di usare il proprio nome nel simbolo elettorale. Una strategia che, nota Calise, (2013) si è rivelata un rigore sbagliato a porta vuota, un errore impossibile fatto fuori delle regole del gioco, che impongono, da tempo, competizioni elettorali centrate su leader forti chiaramente riconoscibili.

Renzi modifica profondamente sia le modalità di relazione con i pubblici-elettori sia quelle con il partito di cui fa parte. Interpreta il ruolo del politico all’interno del Pd sbarazzandosi del «tabù della personalizzazione» (Calise, 2013: 8) e anzi ostentando i tratti di un «leader forte e determinato, e che non si vergogni di esserlo» (ibidem). Sfida, in questo modo, i principi identitari su cui il Pd si fonda e, allo stesso tempo, la diffidenza della cultura politica della sinistra verso la guida verticistica, che viene comunemente collegata alle derive autoritarie e plebiscitarie della destra. Un aspetto che, insieme al ricorso alla popolarizzazione della comunicazione, gli fa conquistare la critica di «Berlusconi della sinistra».

Nei confronti dell’elettorato, Renzi si pone con modalità post-ideologiche, cercando di coinvolgere segmenti di pubblico anche al di fuori della cultura politica del centro-sinistra. Prendere le distanze, con fare deciso, dalla «vecchia» dirigenza gli consente, allo stesso tempo, di disintermediare il rapporto con i cittadini e perseguire obiettivi di conquista del consenso con un’offerta pigliatutti. Il «rottamatore» punta su proposte che intercettino la sfiducia verso i corpi intermedi della democrazia − non solo i partiti ma anche i sindacati o le organizzazioni di rappresentanza – ed esibisce la volontà di sfidare gli interessi consolidati delle categorie tradizionali per accelerare il cambiamento. Come sintetizza con il tema- slogan,Cambiare verso, della campagna per le primarie a segretario del Pd.

La narrazione che propone, riprende molti elementi già usati da Veltroni (Bordignon, 2013), dalla proiezione verso il futuro alla semplificazione dei temi più complessi tramite il racconto della quotidiana di persone comuni. Soprattutto, Renzi inserisce contenuti e prospettive difformi da quelli della visione consolidata della sinistra ad esempio recuperando idee come merito e ambizione, e dichiarando apertamente l’esigenza di un modo diverso di concettualizzare destra e sinistra (Indicativo quanto scrive in Lo spazio della sinistra, il tempo dell’innovazione, postfazione alla ristampa del volume di N. Bobbio, 2014. Destra e Sinistra. Donzelli).

Una riproposizione della strategia della triangolazione utilizzata da Blair e Clinton che, destrutturando la contrapposizione destra/sinistra, consente di recuperare quei temi e proposte degli avversari suscettibili di riscuotere consenso presso l’opinione pubblica, declinandoli però in relazione al progetto del leader e contando sulla sua capacità di farsene garante.

Questo tipo d’impostazione si associa al ricorso, con estrema disinvoltura,delle grammatiche della cultura e dei generi popolari. Renzi, calca le scene mediali e quelle istituzionali (ma mediaticamente rappresentate) mescolando con naturalezza diversi piani del discorso, con modalità che sembrano più centrate sulla gestione della propria immagine che sulle peculiarità delle diverse situazioni. Impegni istituzionali, conferenze stampa, partecipazioni a trasmissioni televisive d’intrattenimento o a talk show sembrano tutte occasioni per rivolgersi direttamente ai pubblici proponendo con linguaggi ibridi una narrazione utile a costruire un rapporto emotivamente coinvolgete e suscitare adesione empatica.

Renzi costruisce la sua leadership e il rapporto fiduciario con gli elettori a partire dalla leva del dato generazionale: è il trentenne che da elettore ha espresso il suo primo voto già in epoca berlusconiana, che diventato uomo politico è più a suo agio sul palco delle convention all’americana (o alla Berlusconi) della Leopolda, senza simboli di partito, invece che nelle segreterie del Pd o nelle piazze della sinistra. Che trasforma il banco del governo, durante la discussione per la fiducia alla Camera, in una tipica scrivania in cui si sovrappongono carte, notebook, tablet, smartphone − come prontamente rappresentato da tutti i media − che si muove con disinvoltura tra twitter e giornali, che si presenta in conferenza stampa ad illustrare il piano del governo con le slide.Lo stile informale, ostentato dalla camicia bianca con maniche arrotolate, lo contrappone a quello ingessato dei vecchi politici.

Il partito democratico è tradizionalmente riluttante ad apparire sui canali di comunicazione politica non convenzionale, Renzi, invece, si fa fotografare per Chi col giubbotto alla Fonzie e per Vanity Fair con pose alla Justin Bieber; partecipa alle trasmissioni Mediaset da Amici a Domenica Live, dando del tu a Barbara D’Urso e pubblicando in Twitter un selfie che li ritrae assieme. Durante la campagna elettorale per le politiche del 2013, Renzi è l’attore politico che conquista il maggior numero di pagine nel settimanale Chi (Ciaglia et al., 2014). Si tratta principalmente di un coverage concordato, con cuicerca quella visibilità in grado di legittimarlo agli occhi degli italiani lontani dalla politica ma attratti dalle sue performance, dal suo essere giovane e una novità nel panorama politico italiano;ma anche per puntare alla leadership del Pd nonostante abbia perso le primarie contro Bersani (ibidem).

A giudicare dal responso elettorale, la svolta che Renzi ha dato al partito − ribattezzato Pd(R) da Diamanti sulle pagine di la Republica − è risultata efficace. Il 40,8% alle elezioni del 2014, benché quelle europee siano considerate di secondo ordine, è un dato che il Pd non aveva mai conosciuto. Ma la prova del passaggio dal comunicare al governare, pone un altro ordine di difficoltà. Considerando i primi mesi di legislatura, il presidente del Consiglio sa usare perfettamente, come Berlusconi, le «politiche simboliche», nella variante «effetti annuncio», promettendo riforme per il rinnovamento istituzionale e l’uscita dalla crisi. Tuttavia, i tempi delle attività istituzionali, inevitabilmente lunghi, e la necessità del confronto con le forze politiche espresse in parlamento mal si conciliano con la promessa implicita nel racconto del capo di trovare soluzioni veloci ed efficaci ai problemi di tutti. Bisognerà verificare se Renzi, come Berlusconi, riuscirà a mantenere la fiducia dei segmenti di pubblici-elettori che è riuscito a coinvolgere.

 

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Mariaeugenia Parito

Il leader (non) politico è il messaggio

La personalizzazione da Berlusconi a Grillo e Renzi

Le forzate dimissioni di Silvio Berlusconi da presidente del Consiglio,nel novembre del 2011, seguite dalla formazione del governo guidato da Mario Monti, hanno fatto immaginare un netto cambiamento nelle modalità della comunicazione e dell’azione politica. Le caratteristiche degli attori del nuovo esecutivo hanno marcato una tale discontinuità da quelle del precedente da far ipotizzare la fine di uno scenario dominato dall’uso esasperato della personalizzazione e della spettacolarizzazione, che scinde le promesse della comunicazione dalle azioni del governare. Lo stile del tecnico, chiamato a capo del Governo pergestire la grave situazione italiana nel pieno della crisi economico-finanziaria che ha coinvolto l’Unione Europea mettendo in discussione la moneta unica, sembrava segnalare la rivincita dei fatti sulle promesse, della realtà sul reality, della competenza sullo spettacolo.

L’ostentato ottimismo del presidente del Consiglio Berlusconi, che durante il G20 del 4 novembre 2011 continuava a dichiarare che «l’Italia è un Paese benestante, la crisi non si avverte, i ristoranti sono pieni, è difficile prenotare aerei e vacanze, i consumi non si sono ridotti», è stato smentito dai dati economici. E le obbligate dimissioni, la settimana seguente, hanno inequivocabilmente segnalato l’incapacità di affrontare la crisi. Tra i commenti a caldo sui giornali c’era chi preannunciava «il tramonto della saga del corpo del capo» (Ceccarelli, 2011) o sottolineava che «i nuovi ministri sono funzioni e non carriere politiche, sono capacità e competenze tecniche e non casacche» ed « è sicuro che il professor Mario Monti non andrà a cucinare il risotto da Bruno Vespa» (Merlo, 2011).

Tuttavia, il quadro che successivamente si è andato delineando ha smentito le aspettative di quella parte di opinione pubblica che sperava in una “normalizzazione” dopo l’epoca considerata anomala del berlusconismo. Le modalità di azione e comunicazione politica che si sono consolidate, anche quando dichiarano di voler marcare una discontinuità col passato, lo fanno seguendo le stesse coordinate. Le elezioni amministrative del 2012 vedono emergere in maniera prorompente la figura di Beppe Grillo, che apre la campagna elettorale in Sicilia attraversando a nuoto lo stretto di Messina. La campagna per le elezioni politiche del 2013 è dominata ancora una volta da Berlusconi insieme al nuovo attore (comico) politico Grillo; anche Monti «sale in politica», a capo di una formazione che si riconosce nella «agenda Monti», e cede alle lusinghe delle logiche della tv spettacolo. Dopo il rigore collettivo sbagliato a porta vuota (Calise, 2013: 8) del vincitore designato Pierluigi Bersani nelle elezioni del 2013, Matteo Renzi, con uno stile che molti hanno considerato più vicino a Berlusconi che alla tradizione della sinistra, vince le primarie del Pd, conquista un risultato (40,8 %) nelle elezioni europee del 2014 che un partito di centro-sinistra non aveva mai raggiunto e diventa, giovanissimo, presidente del Consiglio.

Dopo Berlusconi, gli attori che hanno intercettato il favore dei cittadini, conquistandone il cuore più che la mente,sono quelli che, con maggior decisione, hanno destrutturato l’asse ideologico-partitico, hanno declinato il rapporto con gli elettori in chiave personalistica e si sono mossi con disinvoltura nello spazio mediale interpretando i linguaggi dello spettacolo. Anche il tentativo di recuperare consensi da parte del segretario della Lega Nord Matteo Salvini, mentre Grillo e Renzi, alla prova delle dinamiche istituzionali, sembrano perdere parte della loro attrattiva,si gioca sul piano della ri-costruzione dell’immagine personale mediaticamente rappresentata attraverso i registri della popolarizzazione.

Al centro delle strategie di costruzione del consenso si collocano attori che interpretano la relazione con il pubblico di elettori puntando sugli aspetti personali più che sulle proposte prettamente politiche. L’articolo propone un’interpretazione del successo politico di Beppe Grillo e Matteo Renzi, dopo quello di Silvio Berlusconi,considerando determinante la focalizzazione sulla personalità del leader, che diventa dispositivo di semplificazione in relazione al quale si costruisce la fiducia con i pubblici-elettori. Il contenuto principale della comunicazione politica è il leader stesso,centro di una narrazione che costruisce un mondo possibile (Eco, 1979; Semprini, 1993) in cui assume la funzione di eroee con un corpo packaging(Codeluppi, 2012:100)mediaticamente costruito(Boni, 2008)come strumento di trasmissione dell’identità. Ciò in un contesto caratterizzato dalle trasformazioni della democrazia rappresentativa, dalla mediatizzazione della società e della politica, dalla crisi di fiducia che caratterizza il rapporto tra cittadini e sistema politico-istituzionale.

1. Il contesto: trasformazioni della democrazie e delegittimazione della politica

Silvio Berlusconi, prima, Beppe Grillo e Matteo Renzi, poi, emergono nell’arena politica riuscendo a costruire consenso in situazioni contestuali nazionali particolarmente problematiche, che sono il precipitato di più ampie trasformazioni sociali e di un cambiamento della democrazia rappresentativa in cui le relazioni tra sistema politico e cittadini diventa critica. Uno scenario post (politico, ideologico, democratico) se definito in relazione al cambiamento-degenerazione rispetto al passato, ma che bisognerebbe oramai analizzare in quanto stato di fatto che qualifica la contemporaneità. Un quadro in cui «la politica mediatica e la politica scandalistica contribuiscono alla crisi mondiale di legittimazione della politica, ma il declino nella fiducia pubblica non equivale al declino della partecipazione politica». (Castells, 2009: 374).

La questione della crisi della democrazia, variamente concettualizzata, si lega alla crisi di legittimazione delle istituzioni politiche. Come nota Urbinati (2013: 30), «la distanza tra legittimità e fiducia diventa un indizio sullo stato di salute della democrazia». La crisi si manifesta sui piani della perdita di credibilità dei partiti politici e della insofferenza verso le istituzioni ritenute non adeguate a rappresentare gli interessi dei cittadini, del declino della fiducia verso il sistema politico e la sua capacità di affrontare i problemi economici e sociali delle persone. Le istituzioni della democrazia rappresentativa, pensate nell’era dello stato- nazione, perdono di efficienza e di legittimazione di fronte all’incapacità sia di adattarsi sia di gestire le dinamiche contradditorie della globalizzazione.

Nell’era post-democratica (Crouch, 2003)le modalità di ricerca del consenso scavalcano le connotazioni ideologiche. Il rapporto tra sistema politico e cittadini è caratterizzato dalla trasformazione dei politici in «qualcosa di più simile a bottegai che a legislatori, ansiosi di scoprire cosa vogliono i loro “clienti” per restare a galla» (Crouch, 2003:27 ed. 2009). La politica professionalizzata, sempre più intrisa delle tecniche usuali nella comunicazione commerciale, ricorre alle strategie mutuate dal marketing per monitorare le opinioni e ai linguaggi dello spettacolo per proporre messaggi accattivanti all’esame pubblico. Tuttavia, la ricerca del consenso e l’attenzione al clima d’opinione non si traducono in risposte alle istanze dei cittadini e neanche nell’implementazione di dinamiche discorsive che sostengano la formazione di opinioni sugli interessi pubblici. Prevalgono le strategie orientate al controllo e le derive populiste. L’agire politico guidato dal continuo tentativo di allinearsi con gli umori dei pubblici non implica avvicinamento ai cittadini ed espansione della partecipazione quale risultato di un processo di formazione di opinioni attraverso lo scambio d’informazioni e argomentazioni pertinenti,al contrario, prevalgono giudizi contrapposti da parte dei pubblici-elettori differenti ed il mero gradimento sull’operato dei leader.

La ventennale esperienza berlusconiana è stata interpretata (Diamanti, 2010; Mancini 2011, 2011)attraverso le caratteristiche della «democrazia del pubblico» individuate da Manin (1997): l’importanza della personalità del leader a discapito dei programmi, partiti che tendono a diventare strumenti al suo servizio, una relazione con gli elettori che avviene attraverso i media, cittadini che effettuano scelte di voto fluttuanti in base non a caratteristiche socio-demografiche ma reagendo alle proposte politiche definite dai politici. Dimensioni che non spariscono con le dimissioni del Cavaliere da capo dal Governo né con la condanna per frode fiscale.

Berlusconi si è proposto e velocemente affermato nella scena politica in una fase caratterizzata da una crisi di sistema profonda. Le inchieste giudiziarie avevano svelato meccanismi radicati e diffusi di corruzione e posto all’ordine del giorno dell’interesse pubblico la questione della (assenza di) moralità dei politici. I media, in particolare la televisione attraverso una serie di rituali di degradazione, hanno favorito e sostenuto il clima di opinione che ha contribuito alla delegittimazione di un’intera classe dirigente. Mentre gli eventi che la costruzione giornalistica ha tematizzato sotto le etichette Mani Pulite e Tangentopoli hanno portato alla dissoluzione dei partiti storici del dopoguerra, si è aperto un vuoto di rappresentanza. Berlusconi si è inserito presentandosi come l’uomo nuovo e diverso, che incarna il fare dell’imprenditore contrapposto a quello del promettere dei politici, con una organizzazione che già negando di nominarsi partito ha voluto marcare la differenza con il passato.

Beppe Grillo e Matteo Renzi costruiscono la loro offerta politica in una situazione che presenta aspetti che ricordano quella fase. Ancora una crisi profonda, con l’emergenza economica che esaspera le contraddizioni ed alimenta la delegittimazione di un’intera classe politica che appare vecchia anagraficamente e nei linguaggi, incapace di rispondere alle richieste di cambiamento ma perseverante nel difendere i propri privilegi. Si presenta un’altra questione morale, che esplode a livello centrale e locale con scandali che investono le burocrazie dei partiti di governo e di opposizione cosi come le amministrazioni regionali e locali. I partiti nati sulle ceneri del discredito di quelli della Prima repubblica rivelano di essere affetti dalle stesse patologie corruttive che avevano denunciato al momento della loro nascita.

Gli scandali che denunciano la corruzione politica non riguardano solo l’Italia ma sono aumentati in tutti i Paesi democratici e piuttosto che indicare un’estensione degli episodi d’illegalità, notava Giddens nel 1999, segnalano il cambiamento dei confini entro cui sono considerati tali. In una società in cui con l’aumento dell’informazione cresce la visibilità, la corruzione non necessariamente è più frequenta ma senza dubbio è più esposta al giudizio del tribunale diffuso allestito dai media. È necessario un approfondimento della democrazia, una «democratizzazione della democrazia» (Giddens, 1999) perché i vecchi meccanismi di governo non funzionano più in una società dove i cittadini dispongono delle stesse informazioni di coloro i quali sono al potere.

Sostenuto dai dati evidenziati da numerose ricerche, Castells (2009: 362) rileva la generalizzata scomparsa della fiducia pubblica negli ultimi 30 anni, soprattutto nei Paesi più sviluppati:«la maggioranza dei cittadini del mondo non si fida dei propri governi o dei propri parlamentari, e un gruppo ancora più folto di cittadini disprezza i politici e i partiti politici, e pensa che il proprio governo non rappresenti la volontà del popolo». Si tratta, anche in questa analisi di una condizione legata alla percezione della corruzione, all’impatto dovuto alla sua aumentata pubblicizzazione. L’esposizione alla corruzione, agevolata dai media e dalla loro predilezione per gli scandali come strumento per cercare l’attenzione del pubblico, diventa un fattore che incide sullo scetticismo e la valutazione di affidabilità dei politici.

La metamorfosi della democrazia rappresentativa coinvolge il rapporto tra gli attori politici ed istituzionali ed i cittadini, con il tentativo, da parte dei primi, di conquistare un difficile consenso e, dei secondi, di sperimentare forme di partecipazione per far sentire le proprie esigenze.

L’insofferenza verso i partiti è stata la cifra distintiva del largo consenso fatto registrare da Mario Monti e dal suo governo nei primi mesi del mandato, nonostante non sia stato legittimato dal voto popolare ma proposto dal capo dello Stato sulla base di ragioni esterne – la credibilità internazionale e le competenze – giustificate sulle scorta dall’emergenza economica, configurando una sorta di «aristocrazia democratica» (Diamanti, 2012). Il suo essere percepito come un esperto non-politico, distante dai partiti, lo ha fatto apparire strumento adeguato per scalzare il sistema politico precedente ed esprimere l’esigenza di cambiamento.

Nella crisi della rappresentanza e nella spaccatura tra cittadini dai governanti, anche Grillo e Renzi interpretano e canalizzano, con modalità differenti, la mancanza di fiducia nella capacità della “vecchia” politica di fornire risposte convincenti. Impresa che invece non riesce al Pd guidato da Pierluigi Bersani e allo stesso Mario Monti, quando«sale in politica» con il capitale del vastissimo consenso misurato dai sondaggi nella prima fase del suo governo ma che non riesce a reggere al passaggio da tecnico a politico e alla prova mediatica della compagna elettorale.

L’insoddisfazione caratterizzata da un forte atteggiamento antipartitico e il desiderio di cambiamento, nell’analisi di Franca Roncarolo (2013), sono emersi con decisione nelle elezioni politiche del 2013, ma si sono sviluppati nei cinque anni precedenti. Di fronte alla devastante crisi economica si è realizzata progressivamente una disarticolazione e riconfigurazione del complessivo assetto della politica italiana e un mutamento del rapporto tra cittadini e politica. Importante il ruolo dei media, che ha contribuito a formare la domanda di cambiamento fornendo una rappresentazione della politica in gran parte negativa.

In definitiva, si realizza una «sostanziale convergenza fra attori politici e comunicativi nella creazione di un clima critico nei confronti della tradizionale politica messa in atto dei partiti» (Roncarolo, 2014: 26).

2. Lo spettacolo della politica

Berlusconi rappresenta la declinazione della «democrazia del pubblico» in un contesto plasmato dalle sue televisioni commerciali mentre Renzi e Grillo agiscono in un’arena pubblica riarticolata profondamente dall’azione dei media digitali.All’epoca della «discesa in campo» di Berlusconi, era la televisione, con le sue caratteristiche e i suoi linguaggi, il medium principale che guidava l’accesso della politica ad un pubblico vasto, andando oltre i «millecinquecento lettori» dei giornali ipotizzati da Forcella. Con la diffusione dei media digitali, interattivi, personali – benché la televisione rimanga un’arena privilegiata − si è aperto un nuovo spazio di comunicazione, che si aggiunge a quelli precedenti, riarticolando le pratiche e le possibilità a disposizione degli attori politici ma anche le logiche della partecipazione da parte dei cittadini.

L’estesa diffusione di nuovi strumenti e nuovi pratiche, non crea, tuttavia due ambienti mediali separati, anche se le preferenze di fruizioni dei pubblici possono essere differenziate. In ogni caso, prende forma un Hybrid Media System, (Chadwick, 2013), che esige un approccio olistico per individuare il modo in cui i media tradizionali e digitali agiscono e come la politica adotta e integra le logiche dei media newer e older. Un’esigenza che Castells (2009) aveva già posto evidenziando come, quella che lui definisce «autocomunicazione di massa», s’intrecci ed interagisca con la comunicazioni di massa e la comunicazione interpersonale.

Che non vi sia una contrapposizione tra old media e new media, sembra emergere, concretamente, nella campagna in vista delle elezioni politiche del 2013. Una ricognizione delle relazioni tra fruizione dei media e atteggiamenti verso i leader realizzata da Barisione et al. (2014) svela che non via sia una differenza sistematica tra consumatori di vecchi e nuovi media. Gli autori rilevano che, durante la campagna elettorale si sia, piuttosto, verificata una diversificazione interna tra canali e piattaforme specifiche e i loro pubblici/utenti di riferimento, in un ambiente mediale complessivo in cui gli stimoli comunicativi non sono necessariamente differenziati. Tanto che la visibilità e l’efficacia percepita dei leader nel corso della campagna non risultano modificatati in modo significativo fra i tipi specifici di audience (spettatori di telegiornali, lettori di quotidiani, attivisti on-line, utenti di Facebook, fruitori di intrattenimento televisivo). Gli autori ipotizzano che il grado di efficacia comunicativa dei candidati sia filtrata in modo simile attraverso le varie piattaforme mediali e i diversi canali di informazione.

Come argomenta Castells (2009, 241), stirando il concetto di mediatizzazione (Mazzoleni e Schulz, 1999; Strömbäck, 2008,), «nel nostro contesto storico, la politica è in primo luogo politica mediatica». Il che significa oltrepassare l’idea di media come quarto potere: essi «sono molto più importanti; sono lo spazio dove si costruisce il potere (…) lo spazio in cui le relazioni di potere vengono decise tra attori politici e sociali in competizione» (Castells, 2009, 242). I leader politici per perseguire i loro scopi devono conquistare visibilità nello spazio mediale e quindi devono assumere le logiche di produzione che mirano a raggiungere o espandere i pubblici. Questi ultimi sono valutati come target prima ancora che cittadini, o target di cittadini-consumatori di mondi politici possibili segmentati sulla base di costellazioni di valori ed opinioni difficilmente riconducibili alle lealtà ideologiche e partitiche del passato.

La mediatizzazione, è un meta-processo che insieme alla globalizzazione e all’individualizzazione traccia le coordinate del cambiamento sociale che il nostro mondo sta attraversando, aiutando a comprendere il ruolo dei media nelle trasformazioni delle democrazie consolidate(Esser, Strömbäck, 2014). Non un rapporto deterministico e lineare ma un processo insieme agli atri che definisce un’influenza crescente su diverse dimensioni della sfera politica e sociale, parallelamente alla rilevazione, da parte di molti studiosi di diversa impostazione disciplinare, del paradosso di una democrazia che si diffonde nel mondo ma che nei Paesi in cui è consolidata appare soggetta a trasformazioni e ricorrenti crisi.

La penetrazione massiccia dei media digitali tra le abitudini di consumo delle persone, la diffusione dei social media e dei dispositivi mobili, personali, sempre connessi, contribuiscono a dare forma ad un’arena della discussione pubblica, che è diventata più composita ed articolata. Il web costituisce un altro spazio del confronto e della visibilità pubblica, in cui l’insofferenza dei cittadini verso i partiti e i politici di professione trova modo di esprimersi, moltiplicando e amplificando la percezione della sfiducia. Ed anche un canale di diffusione di messaggi, realizzati intrecciando linguaggi e materiali eterogenei, prodotti dal basso e discorsi politici, confezionati nei formati dell’entertainment, che alimentano il processo di popolarizzazione della politica.

Lo scenario mediale definisce un quadro di vincoli ed opportunità dal quale è difficile prescindere. In Italia la commercializzazione dei media ha avuto come protagonista Berlusconi-imprenditore e la mediatizzazione della politica Berlusconi- politico, ma questo non significa che con l’uscita di scena di Berlusconi si possa uscire dall’iper-reality show che ha agevolato. La commercializzazione è una potente forza di omogeneizzazione, che ha trasformato sia la stampa che i media elettronici infrangendo la tradizionale differenziazione dei sistemi informativi radicati nei sistemi politici nazionali e legati alla cultura dei singoli Stati, ha incoraggiato la formazione di un insieme comune di pratiche comunicative (Hallin e Mancini, 2004: p. 249). La funzione dell’intrattenimento è divenuta dominante, parallelamente alla preoccupazione di raggiungere segmenti di pubblico mirati ai quale “vendere” i prodotti informativi e le inserzioni pubblicitarie (Hallin e Mancini, 2004; Mazzoleni e Sfardini, 2009; Sorrentino, 2002). Ne risulta compromessa e ridefinita la funzione cognitiva, quella della diffusione di idee e fatti utili all’esercizio della cittadinanza o alla costruzione del consenso, le finalità legate alla comprensione del mondo sociale e all’attribuzione di senso all’esperienza. La concezione di democrazia deliberativa, fondata sulla discussione informata,viene svuotata dei suoi presupposti poiché difficilmente riesce a reggere alle tendenze culturali più diffuse.

La semplificazione della rappresentazione della realtà è diventata obiettivo da perseguire per suscitare l’attenzionee l’interesse dei destinatari. Nella fase di selezione, hanno maggiore probabilità di attraversare i cancelli della notiziabilità gli eventi più facilmente comprensibili e immediatamente dotati di significatività; nella fase di framing, quelli con attitudine ad essere collocati in schemi narrativi consolidati e agevolmente riconoscibili; nella messa in forma, ciò che può essere raccontato con linguaggi sensazionalistici. È facile aspettarsi che gli attori politici che riescono più facilmente a dominare la scena siano quelli che ricorrono agevolmente ai linguaggi più tipici dell’infotainment, puntando sulla suggestione e non sulla spiegazione, sulla semplificazione che sconfina nella banalizzazione e non sull’analisi, sulla funzione patemica invece che cognitiva.

L’agire politico-comunicativo-mediatico interpretato da Berlusconi indica delle direttrici che vanno oltre la sua avventura istituzionale. La politica pop (Mazzoleni, Sfardinni, 2009) che intreccia i linguaggi della cultura popolare configurandosi in pratiche di infotainment e politainmentnon è più una novità: è il quadro in cui operano gli attori mediali e i protagonisti della politica, definendo le condizioni in cui prendono forma le dinamiche di opinione e la costruzione del consenso. Le scelte degli attori politici che riproducono schemi precedentio, ancorameglio, politici che non sonoattori qualificati da caratteristiche congruenti con la scena della rappresentazione, difficilmente appaiono efficaci e proponibili, soprattutto nel «momento della falsità» (Castells, 2009, 286) delle campagne elettorali.

La sorta d’innamoramento che ha accolto Mario Monti, il tecnico dai toni pacati e dal linguaggio da “professore” chiamato a “salvare l’Italia” in piena crisi dell’euro,che a giudicare dal gradimento registrato dai sondaggi nei primi mesi del suo governo sembrava fosse destinato a raccogliere l’esigenza di cambiamento, ha lasciato presto il posto alla disillusione. Soprattutto,la possibilità di una comunicazione politica incentrata sui fatti e sulle argomentazioni invece che sullo spettacolo si è infranta, durante la campagna elettorale degli inizi del 2013, di fronte all’immagine di Super Mario (come la stampa lo aveva ribattezzato) col cagnolino in grembo nel salotto di Daria Bignardi. Un cortocircuito tra l’esigenza della giornalista di rendere emotivamente più coinvolgente l’intervista all’algido professore e quella del candidato di ammorbidire la sua immagine adeguandosi alla logica televisiva, che ha spento la possibilità di un “ritorno alla normalità” di una dialettica politica dopo la parentesi berlusconiana, D’altra parte, il segretario del Partito democratico Pierluigi Bersani,uscito vincitore dalle primarie, ha fallito nell’intercettare il clima che sembrava promettere un cambio di direzione politica del Paese a fronte delle difficoltà del centro-destra indebolito dalla nascita del governo Monti come soluzione per affrontare la crisi economica che il presidente del Consiglio Berlusconi non aveva saputo gestire. Bersani non è riuscito ad incidere nel dibattito influenzando l’agenda con temi convincenti, né tantomeno a gestire le logiche mediali con strategie efficaci: invece di giocare quel ruolo da protagonista che ci si aspettava ha mantenuto una debole visibilità, mentre l’attenzione si è focalizzata sulle dichiarazioni di Berlusconi (ancora una volta) e sulle piazze riempiete dallo Tsunami Tour di Beppe Grillo (Rocarolo, 2013). Le elezioni 2013 mostrano il deficit di competenza comunicativa che accomuna Bersani e Monti e, al contrario, confermano le capacità di Berlusconi e Grillo (Barisioneet. al., 2014).

3. Una storia televisiva e il suo protagonista

Quando, tra il 1993/94, Silvio Berlusconi − proprietario dell’ormai affermato polo televisivo commerciale, ma anche di una considerevole quota del mercato editoriale a stampa − ha predisposto il suo coinvolgimento nella politica attiva, fondando Forza Italia, ha inaugurato forme di comunicazione politica differenti da quelle consuete del passato italiano. Ma se alcune dimensioni sono riconducibili alla sua controversa personalità, il tipo di metamorfosi che egli ha incarnato e sostenuto non si limita a delineare un fenomeno transitorio. Berlusconiinterpreta una specifica versione della politica in uno scenario «postdemocratico» (Crouch, 2013) − se valutato in quanto crisi − o della «democrazia del pubblico» (Manin, 1997) –se valutato in quanto trasformazione della democrazia rappresentativa – comunque permeato dall’azione dei media.

La politica aveva indirettamente o direttamente favorito la formazione del polo televisivo commerciale di proprietà di Berlusconi e quando egli, nel vuoto di legittimità dei partiti e di rappresentanza aperto da Tangentopoli, si propone come leader di una nuova formazione, forza il cambiamento delle regole della comunicazione politica adeguandole a quei linguaggi che le sue televisioni avevano diffuso in Italia. Il video con il quale presenta la sua “discesa in campo”, a capo di una formazione che nel nome rimanda al lessico sportivo e nella struttura ad un azienda, è paradigmatico del cortocircuito tra le grammatiche dei formati televisivi commerciali e gli obiettivi di consenso politico, dell’uso del marketing per intercettare umori ed aspirazioni e offrire il sogno di un «un nuovo miracolo italiano». Un esordio nell’arena della politica attiva filtrato dalla calza nell’obiettivo della telecamera usuale nelle soap opera, costruito con una sapiente regia che organizza la scena e la rappresentazione dell’attore, saltando (e spiazzando) la mediazione giornalistica e sgretolando definitivamente le barriere tra lo spettacolo e la politica.

Berlusconi ha continua ad essere protagonista indiscusso della scena politica e a raccogliere consensi nonostante la più volte annunciata morte politica. Tra le domande che più ossessionano la critica di sinistra al berlusconismo, nota Marletti (2010:113), una spicca su tutte «come mai così tanti italiani continuano ad aver fiducia nel Cavaliere?». Promesse mirabolanti chiaramente non mantenute, dichiarazioni provocatorie smentite poco dopo averle rilasciate, inchieste giudiziarie e sentenze di colpevolezza, vicende personali tra l’ambiguo e lo scabroso, gaffe in vertici internazionali non gli hanno impedito di mantenere un ruolo centrale e di catturare un consenso sostenuto.

Addirittura dopo le elezioni politiche del 24-25 febbraio 2013, che nelle previsioni avrebbero dovuto sancire l’uscita di scena del Cavaliere di Arcore, Diamanti, commenta i risultati e la difficile situazione istituzionale che ne è seguita chiedendosi dalla pagine di la Repubblica(29.04.2013):«Diventeremo tutti Berlusconiani?». Il governo guidato da Enrico Letta dopo il fallito tentativo del segretario del Pd Pierluigi Bersani, è nato col sostegno determinate del Pdl, realizzando quelle larghe intese che Berlusconi aveva subito auspicato al momento del responso delle urne. Al contempo, i sondaggi indicano che un ritorno al voto comporterebbe una vittoria del centro-destra di fronte ad un Pd in caduta libera. Si è trattato della più recente delle tante resurrezioni dell’uomo politico che sfoggia sette vite come i gatti o rinasce dalle proprie ceneri come l’araba fenice, che è stato paragonato all’Omino di burro, a Ercolino sempre in piedi, al Pifferaio magico, all’Incantatore di serpenti (Marletti, 2010).

Quella che i giornali avevano salutato come la fine di un’epoca non ha impedito al Pdl e alla coalizione guidata da Berlusconi di ottenere, durante le elezioni del febbraio 2013, un risultato che un anno e mezzo prima sembrava impensabile. Berlusconi, nella lettura di Diamanti,nell’articolo più sopra ricordato, sopravvive al Berlusconismo, inteso come modello politico e culturale che interpreta il mito dell’imprenditore di successo fatto da sé, il “sogno italiano”, tipico degli anni ’80 - ’90, ben narrato dalle sue televisioni. Sopravvive all’evidenza dei fatti, addirittura ad un crisi economica dall’impatto indiscutibile sulla vita quotidiana delle persone che infrange quel sogno. L’oramai ex Cavaliere ed ex Presidente del Consiglio, in seguito alla condanna definitiva a quattro anni per frode fiscale che ha comportato l’interdizione dai pubblici uffici e l’incandidabilità, continua ad essere influente nell’arena politico-mediatica. Mentre i sondaggi d’opinione diffusi dalla stampa, che provano a monitorare a caldo il clima d’opinione, segnalano un gradimento che resta comunque consistente e la percezione che la carriera politica del leader di Forza Italia non sia finita. I voti persi nelle consultazioni europee del 25 maggio 2014 potrebbero segnalare, non tanto un ridimensionamento di Berlusconi, quanto una limitata attrattiva di Forza Italia in assenza del suo indiscusso leader.

Interpretare il successo di Berlusconi come immediatamente e deterministicamente legato al possesso della televisione commerciale, al quale si aggiunge poi il controllo di quella pubblica, è comunque insufficiente o parziale. (Diamanti, 2010; Mancini, 2012; Marletti, 2010). Va anche considerato che in uno scenario postideologico,in cui le culture politiche tradizionali si affievoliscono, il rapporto tra gli attori politici e i cittadini e le modalità della partecipazione cambiano natura, con la conseguente trasformazione delle strategia di ricerca del consenso.

Ilvo Diamanti (2010), nella prefazione all’edizione italiana del volume di Bernard Manin (1997) nota come il modello interpretativo proposto dall’autore, elaborato già agli inizi degli anni ’90, individui una serie di trasformazioni della democrazia rappresentativa che, risulta utile per analizzare il caso di Berlusconi, rivelando che egli non costituisca una anomalia italiana ma piuttosto un idealtipo. I caratteri che l’imprenditore divenuto politico imprime alla politica, più che essere imputabili alle peculiarità della sua persona e al contesto nazionale, identificano delle generali tendenze delle democrazie europee. Non un caso isolato, dunque, ma una versione caricaturale della «democrazia del pubblico», una sua declinazione «all’italiana». In cui una forma di anomalia può comunque essere rintracciata nella violazione dell’equilibrio dei poteri, risultato dell’intreccio tra proprietà del maggior gruppo mediatico ed esercizio della funzione esecutiva.

Anche secondo Paolo Mancini (2011, 2012), Berlusconi interpreta dinamiche di mutamento più generali che, non solo, non sono riconducibili in via esclusiva all’ambito della popolarizzazione, ma neanche possono essere circoscritte al contesto italiano: per quanto vadano riconosciute delle peculiarità nazionali, Berlusconi identifica il «prototipo di una nuova politica». Il passaggio alla «democrazia de pubblico» che, nell’interpretazione di Manin (1997) sostituisce la democrazia del parlamento e la democrazia dei partiti, intercetta alcune delle trasformazioni in cui si inserisce il caso del più volte presidente del Consiglio italiano: i media come principali agenti di socializzazione politica, la personalizzazione e la costruzione di un rapporto fiduciario tra leader ed elettori, un elettorato che si configura come pubblico che risponde a ciò che viene presentato sulla scena politica.

Berlusconi interpreta sia le trasformazioni profonde che investono le democrazie occidentali sia le peculiarità del caso italiano legate al fitto intreccio tra sistema politico e sistema mediale. L’imprenditore dei media che si trasforma in icona pop della politica è il risultato di quelle anomalie italiane, da tempo analizzate,che vedono il sistema mediale fortemente condizionato dalla politica; allo stesso tempo s’inserisce nel più generale processo di mediatizzazione della società, stimolando la sua declinazione in chiave politica nel panorama italiano.

Berlusconi ha calcato la scena che le sue televisioni avevano allestito e ne ha usato le grammatiche, diventando attore e regista di quella trama narrativa intrisa dell’«iper-ideologia» dell’intrattenimento (Castells, 2001, 2009), tipica della televisione, che aveva contribuito a diffondere. Il ricorso alle logiche di mercato ha ridefinito le procedure di costruzione dell’informazione e la rappresentazione della politica, anch’essa guidata dalla tendenza a massimizzare gli effetti d’intrattenimento, a risultare attraente per il pubblico più che utile per i cittadini.

L’abilità comunicativa di Berlusconi non può essere ridotta al controllo esercitato sulle testate di cui è proprietario e su quelle su cui ha avuto influenza in quanto capo dell’esecutivo. Va anche considerata la sua capacità di muoversi all’interno delle logiche mediali con grande disinvoltura, di usarle e sfruttarle a sua vantaggio. Ne è un esempio recente ed eclatante la performance nella trasmissione “nemica” Servizio Pubblico in piena campagna elettorale per le ultime elezioni politiche: Michele Santoro e Marco Travaglio hanno allestito uno spettacolo che il leader del Pdl ha saputo ben interpretare, volgendolo in direzione a lui favorevole. Tanto che all’indomani della trasmissione, i commenti nei giornali sono stati unanimi nel considerare quel momento come una tappa cruciale della campagna, con il Cavaliere, che si pensava ormai fuori gioco, che invece recupera consensi su quello che sembrava il vincitore designato Pierluigi Bersani. Di fronte alle esigenze dell’auditel, i conduttori hanno costruito una trasmissione utilizzando i collaudati canoni dei talk politici, ma in questo modo hanno inevitabilmente armato un’arena congeniale a Berlusconi − nonostante sulla carta fosse dichiaratamene ostile − che ha potuto facilmente interpretare il suo copione. Difficile dire se sia trattato dell’incapacità di Santoro e Travaglio di costruire e gestire la trasmissione oppure dell’inevitabile conseguenza del formato che segue le logiche dell’infotainment. In ogni caso, se il giornalismo che racconta i fatti, che li vaglia e li interpreta, cede allo spettacolo lascia spazio alle strategie di conquista del consenso che con in fatti giocano liberamente e creativamente. L’uso di quelle che Edelman (1967) ha definito «politiche simboliche», che, Berlusconi ha usato servendosi della variante italiana degli «effetti annuncio», (Marletti, 2010: 116)è possibile in un panorama mediatico-politico in cui gli attori in gioco, invece che svelare i fatti occultati, trasfigurati, modellati dentro una narrativa verosimile e popolare che costruisce un mondo più simile all’immaginario della pubblicità che a quello in cui gli elettori vivono, si limitano ad allestire la scena secondo i canoni funzionali alla conquista dell’audience (i news media) o rimangono ancorati a regole del gioco della comunicazione politica adatte ad un mondo che non c’è più o provano a seguire l'antagonista su un piano che però non sanno volgere a proprio vantaggio (i politici del centro-sinistra).

4. Leader in fabula

La personalizzazione è una tendenza che si è progressivamente estesa in molti Paesi parallelamente alla mediatizzazione della politica.
In Italia, la personalizzazione inizialmente ha riguardato, in maniera eclatante il Cavaliere e la sua creatura Forza Italia, ma il modello aveva coinvolto, come nota Calise (2010) anche altre formazioni che hanno avuto nel corso degli anni alterne vicende: il partito dei sindaci, il partito dei notabili e quello centrato sulle leve istituzionali di Palazzo Chigi. I primi sindaci eletti direttamente dai cittadini, in modo particolare, hanno fatto ampio ricorso alle politiche simboliche, intervenendo in quegli ambiti in cui era più agevole ottenere attenzione da parte dei media e il sostegno dei cittadini. L’uso di pratiche comunicative mirate alla costruzione d’immagine è servito ha strutturare storie di successi che hanno fatto breccia nell’immaginario collettivo e a stabilire un rapporto diretto con la cittadinanza.

Mentre le grandi narrazioni ideologiche e totalizzanti del passato si dissolvono,le logiche mediali,agevolate dalla televisione, favoriscono la costruzione di storie in cui in cui i personaggi politici assumono una funzione centrale: «i media fanno conoscere i potenziali leader, si soffermano sulle loro battaglie, vittorie e sconfitte, perché le narrazioni hanno bisogno di eroi (il candidato), di cattivi (l’avversario), e di vittime da soccorrere (i cittadini)» (Castells, 2009: 253). D’altra parte, se per ampi segmenti di pubblico potrebbe risultare faticoso, prima, prestare attenzione e, poi, comprendere, questioni politiche complesse «quasi tutti si fidano della propria capacità di giudicare il carattere; capacità che è una risposta emozionale al comportamento di personaggi inseriti in narrazioni politiche» (Castells, 2009: 252).

Le strategie di costruzione del consenso puntano, sempre di più, a suscitare una relazione empatica con l’eroe-politico,centro di una storia in cui le policy e le proposte politiche hanno una funzione marginale rispetto al mondo simbolico che prende forma intorno alla sua persona.

Emblematico, nella campagna elettorale che ha preceduto le consultazioni politiche del 2001,il racconto prodotto da Berlusconi con Una storia italiana. Le famiglie hanno ricevuto a casa la biografia del candidato del centro-destra, con un titolo indicativo delle intenzioni. Nelle 125 pagine costruite come una rivista popolare, viene illustrata, con l’abbondante uso di foto, la vita del leader cominciando da “Il carattere e le passioni: la vita di Silvio Berlusconi, l'infanzia, l'adolescenza, i compagni di scuola” proseguendo con “I piccoli segreti di Silvio”, “Lo stile di vita: come si veste e cosa ama il leader di Forza Italia” e altri capitoli sulla persona e la vita, per arrivare solo alla fine a qualcosa che assomiglia ad un programma, presentando una visione dell’Italia da realizzare “Un’Italia, più giusta, più moderna, più competitiva”.Ma già la discesa in campo di Berlusconi era stata caratterizzata da una narrazione, focalizzata sull’uomo d’affari di successo che salva l’Italia dai comunisti, che può cambiare le cose e come politico può creare un milione di posti di lavoro cosi come imprenditore aveva assunto miglia di lavoratori nelle sue aziende (Caciotto, 2011).

Comunicazione politica centrata sulla persona del leader e strutturazione del messaggio attraverso la forma narrativa sono questioni intrecciate. Si tratta di dinamiche che coinvolgono due dimensioni: la narrazione costruita dei media sul leader e la narrazione organizzata e gestita dal leader. Se la televisione ha favorito la diffusione della funzione narrativa dei media, la comunicazione politica professionalizzata trova nello storytelling una strategia per la ricerca del consenso di pubblici differenziati, fluttuanti e sempre più lontani da fedi ideologiche. La narrazione come dispositivo usato nel marketing politico può diventare un meccanismo a disposizione del leader particolarmente efficace. Soprattutto in situazioni di crisi, offre uno strumento per mettere ordine tra gli eventi, connetterli e fornire loro un senso.

La costruzione di un racconto che diventa condiviso, fornisce strumenti semplificati di interpretazione della realtà, allo stesso tempo mobilita le emozioni e coinvolge i cittadini superando il piano freddo della discorsività astratta. Come nota Westen(2007: 125), la politica è soprattutto una questione di racconto:«i dati offerti dalla scienza politica sono cristallini: la gente vota per il candidato che suscita i sentimenti giusti, non il candidato che presenta gli argomenti migliori»;gli individui non eleggono gli attori politici sulla base della valutazione razionale dei programmi ma sulle base delle impressioni sulle qualità personali e dei sentimenti che provano verso le loro posizioni. La pubblica argomentazione razionale cede alla narrazione condivisa emotivamente coinvolgente.

D’altra parte, il paradigma del voto razionale difficilmente riesce a spiegare il comportamento elettorale di cittadini non sempre ben informati e che decidono, soprattutto quelli più disinteressati alla vita politica, a ridosso dell’apertura delle urne. I circuiti attraverso i quali gli elettori scelgono come votare non sono solo quelli legati all’appartenenza, alle opinioni, allo scambio. Si aggiunge il voto al leader, che ha scompaginato gli assetti dei partiti a livello nazionale e locale (Calise, 2010). Si tratta di un voto populistico, in cui entra un gioco un «sentimento identitario, un richiamo capace di innestare e sedimentare un rapporto anche di tipo autoritario col leader. È ciò che ne spiega la durata e, al tempo stesso, la tenuta anche sul piano valoriale» (Ivi, 144).

La politica post-ideologica organizza percorsi di senso e spazi di condivisione attraverso l’elaborazione di storie focalizzate sulla persona del leader. Si dissolvono le grandi narrazioni (Lyotard, 1979) e si diffondono le piccole narrazioni (Ventura, 2012), che fungono da dispositivi di riduzione della complessità in uno scenario in trasformazione in cui la gran parte degli elettori vive lo smarrimento dell’assenza di strumenti interpretativi. Di fronte ad un contesto che sembra aver tradito la promessa delle magnifiche sorte e progressive, alla delusione per le risposte mancate alle attese, la narrazione focalizzata su un leaderche s’incarica di rappresentare bisogni ed interessi utilizzando i codici più familiari ai segmenti di pubblici-elettori diventa un meccanismo potente di costruzione della fiducia.

5. Leader politici non-politici

Dopo l’imprenditore, che «scende in campo» con il suo patrimonio economico e di conoscenze del mondo dei media commerciali dominando la scena per quasi vent’anni, gli attori politici che riescono a catalizzare attenzione e conquistare consenso sono quelli che più riescono ad intercettare il clima culturale e mediatico oltre che politico consolidato durante l’epoca del “presidente” Berlusconi, insieme alle domande ed ai bisogni di cittadini che mentre si definiscono delusi dalla politica, chiedono comunque alla politica strumenti per affrontare crisi e incertezze, utilizzando forme di azione che per quanto vengano definite in opposizione alla politica configurano comunque forme di agire politico.

Leader dal profilo differente: Silvio Berlusconi, un imprenditore dei media che decide di impegnarsi in politica; Beppe Grillo, un uomo di spettacolo che dalla satira si sposta gradatamente verso l’informazione alternativa e poi declina il suo patrimonio di visibilità virando verso l’impegno politico diretto; Matteo Renzi un politico giovane che brucia le tappe della carriera nell’apparato del partito diventando, non ancora quarantenne, presidente del Consiglio. Attori che esprimono quadri (post)ideologici e culturali eterogenei, a capo di soggetti politici dalla differente architettura organizzativa: il partito «azienda», «leggero», «di plastica», «personale» (Calise, 2010) Forza Italia, traghettato nel Popolo delle Libertà e poi ancora ristrutturato nel nuovo Forza Italia; l’autodefinito «non- partito» Movimento 5 Stelle, una sorta di partito franchising che coniuga la centralizzazione con la struttura flessibile propria delle Rete; il più tradizionale Partito democratico che prova, a fatica, a reinterpretare la burocratica organizzazione dei partiti classici. In ogni caso, protagonisti che interpretano il contesto sociale, economico, culturale, politico trasformando le esigenze e i bisogni, le incertezze e lo disorientamento, che le persone sperimentano di fronte ad un mondo in rapido mutamento, in proposte che sembrano fornire qualche forma di risposta.

Le dinamiche che ruotano attorno alla personalizzazione costituiscono un aspetto particolarmente rilevante tra i cambiamenti che Berlusconi ha interpretato e che si estendono oltre la sua avventura politica segnando le motivazioni del  successo di Matteo Renzi e Beppe Grillo. Le figure dei tre leader incarnano e semplificano le rispettive proposte politiche, marcano le differenze con gli avversari, costituiscono il perno del legame fiduciario con gli elettori. La costruzione del politico come persona piuttosto che come espressione di un partito o di una coerente proposta ideologia svolge contestualmente più funzioni: supera la crescente sfiducia dei cittadini verso i corpi intermedi della democrazia (Manin, 1997), suscita adesione emotiva (Castells, 2009), diventa il cardine delle strategie mediatiche di ricerca del consenso, funge da scorciatoia cognitiva per orientare le decisioni di voto. I leader sono il fulcro della proposta politica: risultato dei discorsi, ma prima ancora dei corpi, dei comportamenti pubblici e di quelli privati esibiti in pubblico, delle peculiari personalità e delle loro storie singolari. Rappresentano, non ideologie secondo il modello classico del XIX e XX secolo, ma stili di vita e modelli di consumo, costellazioni valoriali e culturali, storie che propongono un modo di vivere più che un modello di società. La personalità prevale sulle proposte politiche, o meglio personalità e proposte politiche sono inscindibili, i politici «adattano la loro strategia a ciò che sono, piuttosto che viceversa» (Castells, 2009:257)

Mazzoleni e Sfardini (2009) attribuiscono il carisma berlusconiano alla sua singolare persona piuttosto che alle abilità politiche, alla sua capacità di «grande comunicatore» sviluppata nel mondo dei media commerciali che ha fondato, alla disinvolta attitudine ad agire dentro lo scenario della cultura popolare. Mancini (2011, 2012) spiega l’esperienza di Berlusconi facendo ricorso ai concetti di commodification of politics e lifestylepolitics, sottolineando che il suo modello di vita quotidiana sia il valore politico che spiega l’adesione diffusa alla sua proposta, nutrito dall’immaginario del successo individuale, dalla scarsa attenzione al rispetto delle regole, dall’arrivismo e fortuna ostentata.

Renzi e Grillo riescono ad intercettare la crescente centralità della politica mediatica e della politica della personalità, che caratterizza il processo politico in tutto il mondo (Castells, 2009: 253), adattandolo allo scenario italiano del dopo Berlusconi. Di fatto confermando quelle interpretazioni che vedevano l’esperienza berlusconiana non con un’anomalia ma come un prototipo.

Renzi e Grillo, dopo Berlusconi, sono leader mediali, non semplicemente in quanto vengono rappresentati dai media o usano i media per far conoscere al pubblico vasto di cittadini le proprie proposte: il loro essere in-politica è inscindibile dall’essere in un ambiente mediale. Il che significa saper agire in uno «spazio intermedio» (Meyrowitz, 1985) in cui la pubblica esibizione del privato diventa risorsa per avvicinarsi ai cittadini, per veicolare attraverso informazioni, non soltanto legate agli aspetti funzionali del loro ruolo, ma soprattutto attraverso quelle«espressive» (Goffman, 1959), significati utili a costruire un’immagine meritevole di fiducia.

Come nota Edelman, (1976) il leader svolge una funzione vitale, quella cioè di reificare e personalizzare i processi sociali; per questo motivo, ogni suo gesto è simbolico, anche se non è inserito in un preciso rituale istituzionale o in un evento ufficiale e, invece, appartiene alla sua sfera personale o alla modalità idiosincratica di interpretare il ruolo pubblico. È il leader, in quanto individuo, ad essere investito di responsabilità e ad essere oggetto di apprezzamenti o critiche, come tale è «simbolo di qualsiasi aspirazione o malcontento», (Edelman, 1976: 144).

Berlusconi, Grillo e Renzi interpretano attori in politica, che agiscono nella sfera politica ed istituzionale, ma non politici secondo il modo più tradizionale di interpretare il ruolo. Ostentano comportamenti e linguaggi che sanciscono una cesura con la classe politica tradizionale, esibiscono critica ed insofferenza verso lo stile delle vecchie élite. I primi due sottolineano la propria provenienza da contesti diversi dagli apparati di partito, mentre Renzi, che non può vantare una carriera fuori dalla politica, costruisce la sua cifra distintiva entrando in conflitto aperto con la dirigenza del partito di cui fa parte e aprendo una frattura generazionale che gli permette di presentarsi come “rottamatore” della vecchia dirigenza. In questo modo, anche Renzi, come Grillo e Berlusconi, scavalca l’assimilazione con l’immagine dell’uomo politico connotata negativamente I tre leader, con modalità peculiari, superano la diffidenza che, soprattutto nei momenti di crisi, i cittadini avvertano verso la politica e i politici di professione, spostando l’attenzione verso la propria persona. La costruzione mediale del corpo (Boni, 2008) e l’esposizione pubblica del privato (Stanyer, 2012) non fungono da rituali di desacralizzazione ma di avvicinamento ai segmenti di pubblico-elettori che si desidera coinvolgere.

Le telecamere – e adesso in maniera anche più penetrante smartphone e media personali −che «invadono la sfere individuale dei politici come spie che penetrano nel retroscena. Li osservano sudare, li vedono fare delle smorfie dopo una frase mal riuscita, li registrano freddamente quando soccombono alle emozioni e quasi annullano la distanza tra pubblico e attore» (Meyrowitz, 1985, 462), se è vero che mettono in risalto la caducità dei politici mostrandone le debolezze, allo stesso tempo«riducono la retorica astratta e concettuale» (Meyrowitz, 1985, 463), aspetto, quest’ultimo, che per i leader postmoderni si traduce in vantaggio piuttosto che in limite. Berlusconi acquisisce consensi non nonostante le «berlusconate» Mancini (2012), ma attraverso di esse. Mario Monti, per quanto possa avere o non avere realizzato il mandato di governo che gli era stato affidato, «sale in politica» gestendo perfettamente la «retorica astratta e concettuale», ma molto meno la relazione empatica con gli elettori (e l’incontro televisivo col cagnolino Empy).

Nel rapporto tra Berlusconi, Grillo, Renzi e i rispettivi elettori, le forme di costruzione del consenso si basano sulla capacità di suscitare emozione ed identificazione piuttosto che sulla proposta di programmi ideologicamente coerenti e strumenti cognitivi di interpretazione della situazione di crisi in cui si trovano ad operare. La fondazione del legame fiduciario viene posta, non tanto, sul fare/amministrare dell’agire pubblico orientato alla scopo, quanto sull’essere/apparire che suscita identificazione.

D’altra parte, nota Manin (1997: 245), «nella democrazia del pubblico» il ruolo sempre più importante della personalità a discapito dei programmi risponde all’estensione degli ambiti in cui i governanti esercitano le loro funzioni e alla crescente imprevedibilità dei problemi che si trovano ad affrontare. Situazione che diventa sempre più problematica con il rafforzarsi dei processi di cosmopolitizzazione (Beck, 2003) che collocano gli Stati all’interno di una fitta rete d’interdipendenze; come la crisi dell’euro ha mostrato drammaticamente, facendo entrare la globalizzazione nella quotidianità delle persone insieme all’insicurezza economica e sociale.

Si tratta, tuttavia, di una dinamica delicata, che può contribuire ad alimentate la sfiducia nelle istituzioni rendendo evidente una delle contraddizione della democrazia. Nei momenti di crisi, accelera la velocità richiesta per assumere decisioni mentre si riducono i tempi della discussione finalizzati alla comprensione e all’elaborazione delle strategie di risoluzione; ma l’accorciamento dei tempi della decisione necessita di competenza tecnica, che la “politica”, nota Nadia Urbinati (2013, 70-71), non sembra in grado di offrire, poiché i meccanismi democratici di selezione e di decisione, basati sulla maggioranza, non danno alcuna certezza che le persone scelte e le decisioni assunte siano le migliori. Le procedure democratiche del voto e della maggioranza si fondano sul principio dell’eguaglianza politica e non sulla competenza. In situazioni di crisi, in cui devono essere coniugate velocità e competenza, la risposta del sistema politico può apparire inadeguata, generando un cortocircuito: la sfiducia nei politici di professione spinge a selezionare attori che appaiono lontani dalla politica e più vicini alle preoccupazioni e al sentire delle persone ma se poi non riescono a rispondere all’esigenza di velocità e competenza, si finisce per alimentare il ciclo della sfiducia insieme ai problemi irrisolti.

La riduzione progressiva del livello di fiducia verso i corpi intermedi della democrazia emerge da tutte le rilevazioni. Sembra delinearsi, invece uno slittamento verso alcuni attori, realizzando una sorta di trasformazione del concetto di fiducia proposto da Giddens. Il teorico della modernità radicale sostiene che «la natura delle istituzioni moderne è profondamente legata ai meccanismi della fiducia nei sistemi astratti, in particolare nei sistemi esperti» (Giddens, 1990: 89). I sistemi astratti, meccanismi di disaggregazione dei sistemi sociali nel tempo e nello spazio,disconnettendo le relazioni sociali dalle immediatezze del contesto situato, forniscono garanzie di aspettative e promettono che gli artefatti che utilizziamo o i sistemi di competenze ai quali ci avviciniamo, lavorino nel modo in cui presumiamo  che facciano. La fiducia si regge sull’assunto pragmatico basato sull’esperienza che i sistemi astratti operino come dovrebbero, in una condizione comunque caratterizzata da una inevitabile parzialità delle informazioni riguardanti le condizioni del loro funzionamento.

La fiducia delle persone verso i sistemi esperti, collocati oltre l’orizzonte delle conoscenze gestibili dai «profani», è un meccanismo per affrontare la mancanza di informazioni complete e la lontananza dai contesti di produzione del sapere tecnico o professionale, continuando comunque ad utilizzare quel sapere astratto nelle pratiche quotidiane. La fiducia presuppone l’ammissione dell’ignoranza di certi ambiti di conoscenza e il rispetto verso le competenze specialistiche, anche al di là degli errori che possono verificarsi nei «nodi di accesso» e della parzialità o insufficienza delle risposte che possono essere fornite in alcune concrete circostanze.

I meccanismi sui quali si basa la fiducia sono quindi legati alla debole visibilità del contesto di produzione del sapere − comunque caratterizzato da riflessività, orientamenti eterogenei, contraddizioni e possibilità di errori − e alla pragmatica constatazione della tendenziale continuità della vita quotidiana secondo le aspettative. Dimensioni che, se scalfite, possono alterare le regole della fiducia. Quando l'esperienza manifesta attesenon rispettate, negate o incoerenti con i bisogni e le promesse, le istituzioni rivelano una persistente inadeguatezza nel gestire le trasformazioni e i problemi e più interessate, invece, all’autoconservazione e al mantenimento dei privilegi, gli individui che fungono da nodi d’accesso mostrano incompetenza o disonestà, allora viene meno quel patto pragmatico sul quale si fonda il rispetto nel sapere esperto e prevale lo scetticismo. D’altra parte, l’aumento esponenziale delle informazioni reso possibile dai media(older e newer) illude sul possibile riavvicinamento, rendendo trasparente le dinamiche di formazione della conoscenza ne palesa l'aspetto costruttivo e ne manifesta le possibili incongruenze.

La fiducia in Berlusconi, Renzi, Grillo, sembra configurarsi (con modalità differenziate)come una sorta di fede. La fiducia si trasferisce dalle capacità astratte contenute nei partiti (in quanto sistemi esperti) alle persone, o perlomeno ad alcune persone che riescono ad intercettare bisogni, esigenze, sentire diffuso, ponendosi in una condizione di vicinanza soprattutto empatica con i target ai quali si rivolgono. La fede non riposa sul sapere ma sul sentire, non è sostenuta dal riconoscimento delle competenze ma dall’adesione affettiva, sembra andare oltre i fatti ed i comportamenti degli attori che ne sono investiti sfidando anche le palesi contraddizioni.

6. Il leader del popolo (arrabbiato) della Rete: proprietario o megafono?

Sono molte le analisi dedicate al Movimento 5 Stelle e al suo promotore (e proprietario unico del marchio) stimolate, in particolare, dal consenso elettorale ottenuto durante le elezioni regionali del 2010 e del 2012, che hanno anticipato un successo andato oltre le aspettative nelle elezioni politiche del 24-25 febbraio 2013. Un attore comico a capo di un movimento di profani, né politici né tecnici, che ottiene un inaspettato successo elettorale, è uno scenario nettamente differente dalla “normalizzazione” post berlusconiana prefigurata da parte dell’opinione pubblica. Il ridimensionamento nelle elezioni europee del 2014, con la perdita di un terzo dei voti, consacra, comunque, Il M5S secondo partito in Italia.

Il Movimento che si forma intorno al comico-attivista Beppe Grillo offre spunti d’interesse sui piani dell’azione e della comunicazione politica, delle forme della rappresentanza e della partecipazione, della mobilitazione e della pratica politica organizzata. Aspetti che sono stati interpretati marcando gli elementi d’innovazione o quelli di continuità col contesto politico e mediatico, nell’ambito della crisi della democrazia rappresentativa (Corbetta e Gualmini, 2013).

Di fronte al declino della fiducia e alla delegittimazione dei politici, il M5S può essere considerato un caso di insurgentpolitcs, cioè un attore che punta al cambiamento politico e al mutamento delle forme istituzionali marcando discontinuità con le logiche consolidate (Castells, 2009: 380). Si tratta di un tipo di soggetto che raccoglie il consenso di cittadini diffidenti verso le istituzionima decisi ad affermare le proprie esigenze cercando modi alternativi per mobilitarsi, all’esterno delle forme tradizionali.

Il movimento che nasce, prima,con il blog di Beppe Grillo e si sviluppa, poi, con i Meetup tenta di riformulare il rapporto tra nuove tecnologia, forme di attivismo e modalità organizzative (Lanfrey, 2011). La considerazione di internet non semplicemente come strumento di mobilitazione ma, anche, come spazio per realizzare forme di democrazia diretta definisce la peculiarità di un attore politico che, contrappone una concezione di cittadino attivo e monitorante (Ronsanvallon, 2008, Lanfrey, 2011) a quella di pubblico passivo e introduce un tentativo di azione politica che mira a superare la democrazia del pubblico in favore della partecipazione dal basso e della democrazia deliberativa (Gualmini, 2013).

Tuttavia, il trasferimento dell’esperienza nell’arena elettorale, con l’esigenza di costruire strategie per intercettare il voto, ne segna l’istituzionalizzazione con, da una parte, il passaggio da movimento a partito (Gualmini, 2013), dall’altra, l’ingresso nello spazio pubblico ricorrendo anche ai media tradizionali. Il M5S, marchio e simbolo dalle campagne elettorali dal 2009 in poi, si autodefinisce non- partito, ma riproduce le funzioni dei partiti ricorrendo alla forma organizzativa  reticolare consentita da Internet. Ed il rapporto con il suo animatore-promotore- portavoce, non solo, ricalca quello tipico dei partiti personali o del partito azienda ma ne esaspera la guida verticistica. Come spesso succede nella insurgent politics, il mutamento è guidato da un leader populista che rompe con il passato cercando una nuova legittimazione popolare (Castells, 2009; Corbetta, 2013)

Grillo stabilisce le regole del gioco, esercita un rigido controllo sulle scelte strategiche del M5S, sul programma e i valori che lo ispirino. Egli gestisce l’uso del simbolico-marca con la possibilità di filtrare la partecipazione dei gruppi locali e la selezione o l’esclusione di militanti ed eletti. Riproduce l’archetipo berlusconiano «nella forma di un inedito centralismo cybercratico, che, nel nuovo ambiente del web, riafferma gli elementi fondanti del successo del Cavaliere: controllo totale della comunicazione e dell’organizzazione» (Calise, 2013: 27). Si determina, dunque, una forte contraddizione tra il sistema simbolico-valoriale che qualifica la proposta politica del Movimento e le caratteristiche della leadership: da una parte, un leader onnipotente, dall’altra l’accento sul cittadino come motore del decisionmaking, il mito di «ognuno vale uno», della partecipazione dal basso, l’esaltazione mitica della democrazia diretta.

Con la istituzionalizzazione del Movimento e il suo ingresso nella competizione elettorale, anche l’idea delle nuove tecnologie come strumento di implementazione delle procedure democratiche si trasforma in uno degli elementi di costruzione dell’identità collettiva dell’attore politico. Internet e le sue potenzialità vengono ideologizzate. (Bordignon e Ceccarini, 2013). La Rete diventa luogo simbolico che qualifica un modo “nuovo” di partecipazione e azione politica, consentendo di prendere le distanze non solo dai “vecchi” partiti (il Pdl e il Pd-meno-l) ma, in generale, dal partito come forma di organizzazione della rappresentanza. La Rete, in quanto strumento che permette al cittadino di essere coinvolto nella formazione delle decisioni politiche e di controllare il corretto svolgimento delle attività istituzionali, costituisce il perno della costruzione del mito dell’autogoverno del popolo onesto contro i politici corrotti. Anche se, di fatto, il Movimento ricorre solo marginalmente a strumenti che favoriscono una reale partecipazione del basso, mentre sono Grillo e Casaleggio a filtrare e selezionare i contenuti che vengono rilanciati a livello nazionale acquisendo ampia visibilità (Mosca e Vaccari, 2013: 377).

L’idea del M5S di sostituzione delle procedure della democrazia rappresentativa con quelle della democrazia diretta attraverso le possibilità offerte dalla rete si traduce non tanto, nella partecipazione dei cittadini ai processi decisionali, quanto nell’osservazione giudicante da parte del «popolo della rete» sulle azioni e sulle opinioni degli avversari politici o sulle decisioni assunte dal suo leader Beppe Grillo. Si tratta di un’interpretazione dell’uso dei media interattivi non marcando discontinuità con le vecchie modalità broadcast ma ponendosi sulla stessa scia. Di fatto le funzioni dei media digitali più frequentemente usate sono quelle che riproducono un modello da uno a molti, con soggetti che parlano o scrivono e altri che osservano. L’uso della diretta streaming delle consultazioni di Bersani, prima, e di Letta, dopo, con i capi gruppo grillini del parlamento formato con le elezioni del 2013 e di Renzi con Grillo a febbraio 2014, è un esempio interessante. Nel solco del rispetto del principio della trasparenza, lo streaming è stato richiesto per aprire una «scena» su un passaggio istituzionale tradizionalmente «retroscena». Ma la ristrutturazione della situazione ha influito sui comportamenti (Meyrowitz, 1985) creando, invece che una negoziazione politica pubblicamente visibile, non più che un momento di consueto spettacolo pop-politico con gli attori che hanno recitato a soggetto cercando il consenso dei rispettivi pubblici. Come nota Nadia Urbinati, (2013, 85):«la democrazia della rete segue piuttosto che negare la democrazia televisiva»

Difficile pensare al M5S senza Grillo, impossibile immaginare la proposta politico/comunicativa del M5S senza il corpo, la personalità, i gesti, la mimica del comico-politico. Sostenuto dagli indirizzi di marketing del professionista Casaleggio. D’altra parte, secondo un’elaborazione dei dati delle elezioni amministrative ed europee del 2014, realizzata dall’Istituto Cattaneo (Cfr. documento disponibile nel sito www.cattaneo.org), Grillo ha effettivamente trainato il voto al M5S, in maniera decisamente più sostenuta di quanto abbiano fatto Berlusconi e Renzi con i rispettivi partiti. Anche se in confronto alle elezioni politiche dell’anno precedente il M5S perde un terzo dei voti.

Grillo è un comico, abituato a gestire le logiche dello spettacolo, che nello slittamento dalla satira politica alla politica attiva trascina le caratteristiche di questo genere: l’atteggiamento di attacco derisorio verso il bersaglio; il linguaggio dissacrante compreso il turpiloquio; la definizione di due destinatari del messaggio, quello complice che lo condivide (simpatizzanti ed attivisti) e quello attaccato che lo subisce (tutti gli altri) (Parito, 2008). Le caratteristiche di questa forma comunicativa forniscono una struttura in cui agevolmente incanalare la rabbia anti- partitica e anti-sistema esprimendola con codici che ne marcano la differenza e, allo stesso tempo, iper-semplificano i contenuti. La critica espressa tramite le espressioni derisorie tipiche del genere comico assume una potente valenza di delegittimazione degli avversari, mentre l’uso di formule dicotomiche − noi/loro, nuovo/vecchio, cittadini per bene/ politici corrotti – riduce la complessità fornendo categorie d’interpretazione della realtà che promettono sempre efficacia agli ultimi imprenditori della protesta.

La spettacolarizzazione della politica e della comunicazione politica viene esasperata. Ma alcune delle strategie utilizzate sembrano, la riproposizione in chiave 2.0 di quelle usate dalla Lega di Umberto Bossi (Biorcio, 2013) e da Berlusconi con Forza Italia nelle fasi iniziali. Grillo, come Bossi, da voce e corpo alla protesta; come Berlusconi, ha una grande capacità di usare i media, conosce bene le logiche di produzione e le sa usare a suo vantaggio. Riesce nella contestuale operazione di negare il valore dei media mainstream, accusarli di scarsa professionalità ed essere sempre presente comunque nella loro copertura. Ogni azione è organizzata da Grillo come un evento o uno spettacolo, che, inevitabilmente, viene ripreso, raccontato, rilanciato sui diversi canali delle testate mainstream, televisione e giornali tradizionali, ma anche le loro versioni digitali; senza contare la mole di messaggi prodotti e distribuiti da attivisti e simpatizzanti tramite social media.

Grillo non fa comizi ma tour, che nella campagna elettorale 2013 diventa uno Tsunami Tour, in cui la piazza reale e la piazza mediale si fondono in un unico ambiente. Le elezioni politiche del 2013 sono state caratterizzate da una campagna elettorale soprattutto televisiva (Bentivegna e Ceccarini, 2013). Ciò è valso anche per Grillo che ha utilizzato in larga misura e con successo crescente un linguaggio televisivo e un codice congruente con quello cui è abituato il pubblico della tv di intrattenimento (Barisione et al., 2014). Una strategia che i risultati emersi dalle urne rivelano vincente; tanto più alla luce del dato che vede più della metà degli elettori del M5S dichiarare di aver maturato la scelta di voto nel corso della campagna elettorale (Ceccarini, 2013).

La provenienza da un ambiente diverso dalla politica ma comunque l’impegno civico dimostrato con i temi di denuncia in spettacoli e blog, rende Grillo un attore che ben interpreta il diffuso malcontento e si presta ad intercettare l’onda lunga della protesta e l’esigenza di cambiamento che sfocia nei risultati delle elezioni del 2013 (Roncarolo, 2014). La sovrapposizione dei ruoli di Grillo attore comico e attore politico diventa un potente meccanismo per dare corpo alla rabbia ed all’irritazione contro gli “zombi” della politica “putrefatta”. Mentre con l’aggressività verbale esagerata (dall’insulto all’invettiva) porta il tono delle conversazioni informali nell’arena del dibattito politico, il suo corpo incarna la rabbia in forma drammatizzata. E costruisce un registro di relazione con i simpatizzanti che, come nota Cosenza (2013) non si limita a dire “sono uno di voi” ma crea identificazione, come se volesse dar voce a ciò che l’altro direbbe ed esprimesse “io sono te”. Grillo diventa il «megafono» della rabbia contro l’intera classe dirigente.

7. Il leader post-ideologico del centro-sininstra

Se Grillo può cogliere il sentimento antipartitico dalla posizione del comico che proviene dall’esterno, la costruzione del consenso per Matteo Renzi è invece vincolata dall’essere parte di un partito radicato. Il che implica una sorta di equilibrismo tra l’essere dentro il partito e contro il partito, che sembra la sua cifra distintiva da quando si propose come «rottamatore» della vecchia classe dirigente a quando, dopo aver vinto le primarie diventando segretario del Pd, contrasta il governo di Enrico Letta e ne prende il posto.

La comunicazione politica degli esponenti del centro-sinistra ha difficilmente intercettato le trasformazioni di un’arena politica fortemente riarticolata e mediatizzata in cui le regole del gioco sono state dominate da Berlusconi. Molte le dimensioni che hanno reso problematico l’adeguatamente delle strategie: dal tipo di organizzazione partitica alla coesistenza di componenti con visioni differenti, dalla difficoltà di un soggetto plurale ad interpretare l’esigenza di individuare una leadership forte e riconoscibile a quella di trovare i codici più adatti a rivolgersi contemporaneamente al suo elettorato tradizionale (ideologico e di opinione), ma anche potenziale (che potrebbero essere attratto con altri registri). Le caratteristiche di un partito fondato su forti basi ideologiche e radicamento sul territorio, si prestano con difficoltà a cogliere le esigenze poste dai processi di mediatizzazione e personalizzazione della politica (Bordignon, 2013).

Il metodo delle primarie ha introdotto sia elementi di maggiore autonomia dei leader sia un più stretto legame con la base. Tuttavia, prima di Renzi, la sinistra ha dimostrato di trovarsi a disagio, per ragioni ideali e culturali, ad esprimere, sul piano nazionale, una leadership personale forte, che si appelli al sentimento identitario cercando di conquistare anche quella parte di elettorato poco incline ad adattarsi agli schemi della rappresentanza ideologica (Calise, 2010). Durante la campagna elettorale del 2013, Bersani è l’unico leader che sceglie di non personalizzare la competizione, puntando sul partito come soggetto plurale e rifiutando di usare il proprio nome nel simbolo elettorale. Una strategia che, nota Calise, (2013) si è rivelata un rigore sbagliato a porta vuota, un errore impossibile fatto fuori delle regole del gioco, che impongono, da tempo, competizioni elettorali centrate su leader forti chiaramente riconoscibili.

Renzi modifica profondamente sia le modalità di relazione con i pubblici-elettori sia quelle con il partito di cui fa parte. Interpreta il ruolo del politico all’interno del Pd sbarazzandosi del «tabù della personalizzazione» (Calise, 2013: 8) e anzi ostentando i tratti di un «leader forte e determinato, e che non si vergogni di esserlo» (ibidem). Sfida, in questo modo, i principi identitari su cui il Pd si fonda e, allo stesso tempo, la diffidenza della cultura politica della sinistra verso la guida verticistica, che viene comunemente collegata alle derive autoritarie e plebiscitarie della destra. Un aspetto che, insieme al ricorso alla popolarizzazione della comunicazione, gli fa conquistare la critica di «Berlusconi della sinistra».

Nei confronti dell’elettorato, Renzi si pone con modalità post-ideologiche, cercando di coinvolgere segmenti di pubblico anche al di fuori della cultura politica del centro-sinistra. Prendere le distanze, con fare deciso, dalla «vecchia» dirigenza gli consente, allo stesso tempo, di disintermediare il rapporto con i cittadini e perseguire obiettivi di conquista del consenso con un’offerta pigliatutti. Il «rottamatore» punta su proposte che intercettino la sfiducia verso i corpi intermedi della democrazia − non solo i partiti ma anche i sindacati o le organizzazioni di rappresentanza – ed esibisce la volontà di sfidare gli interessi consolidati delle categorie tradizionali per accelerare il cambiamento. Come sintetizza con il tema- slogan,Cambiare verso, della campagna per le primarie a segretario del Pd.

La narrazione che propone, riprende molti elementi già usati da Veltroni (Bordignon, 2013), dalla proiezione verso il futuro alla semplificazione dei temi più complessi tramite il racconto della quotidiana di persone comuni. Soprattutto, Renzi inserisce contenuti e prospettive difformi da quelli della visione consolidata della sinistra ad esempio recuperando idee come merito e ambizione, e dichiarando apertamente l’esigenza di un modo diverso di concettualizzare destra e sinistra (Indicativo quanto scrive in Lo spazio della sinistra, il tempo dell’innovazione, postfazione alla ristampa del volume di N. Bobbio, 2014. Destra e Sinistra. Donzelli).

Una riproposizione della strategia della triangolazione utilizzata da Blair e Clinton che, destrutturando la contrapposizione destra/sinistra, consente di recuperare quei temi e proposte degli avversari suscettibili di riscuotere consenso presso l’opinione pubblica, declinandoli però in relazione al progetto del leader e contando sulla sua capacità di farsene garante.

Questo tipo d’impostazione si associa al ricorso, con estrema disinvoltura,delle grammatiche della cultura e dei generi popolari. Renzi, calca le scene mediali e quelle istituzionali (ma mediaticamente rappresentate) mescolando con naturalezza diversi piani del discorso, con modalità che sembrano più centrate sulla gestione della propria immagine che sulle peculiarità delle diverse situazioni. Impegni istituzionali, conferenze stampa, partecipazioni a trasmissioni televisive d’intrattenimento o a talk show sembrano tutte occasioni per rivolgersi direttamente ai pubblici proponendo con linguaggi ibridi una narrazione utile a costruire un rapporto emotivamente coinvolgete e suscitare adesione empatica.

Renzi costruisce la sua leadership e il rapporto fiduciario con gli elettori a partire dalla leva del dato generazionale: è il trentenne che da elettore ha espresso il suo primo voto già in epoca berlusconiana, che diventato uomo politico è più a suo agio sul palco delle convention all’americana (o alla Berlusconi) della Leopolda, senza simboli di partito, invece che nelle segreterie del Pd o nelle piazze della sinistra. Che trasforma il banco del governo, durante la discussione per la fiducia alla Camera, in una tipica scrivania in cui si sovrappongono carte, notebook, tablet, smartphone − come prontamente rappresentato da tutti i media − che si muove con disinvoltura tra twitter e giornali, che si presenta in conferenza stampa ad illustrare il piano del governo con le slide.Lo stile informale, ostentato dalla camicia bianca con maniche arrotolate, lo contrappone a quello ingessato dei vecchi politici.

Il partito democratico è tradizionalmente riluttante ad apparire sui canali di comunicazione politica non convenzionale, Renzi, invece, si fa fotografare per Chi col giubbotto alla Fonzie e per Vanity Fair con pose alla Justin Bieber; partecipa alle trasmissioni Mediaset da Amici a Domenica Live, dando del tu a Barbara D’Urso e pubblicando in Twitter un selfie che li ritrae assieme. Durante la campagna elettorale per le politiche del 2013, Renzi è l’attore politico che conquista il maggior numero di pagine nel settimanale Chi (Ciaglia et al., 2014). Si tratta principalmente di un coverage concordato, con cuicerca quella visibilità in grado di legittimarlo agli occhi degli italiani lontani dalla politica ma attratti dalle sue performance, dal suo essere giovane e una novità nel panorama politico italiano;ma anche per puntare alla leadership del Pd nonostante abbia perso le primarie contro Bersani (ibidem).

A giudicare dal responso elettorale, la svolta che Renzi ha dato al partito − ribattezzato Pd(R) da Diamanti sulle pagine di la Republica − è risultata efficace. Il 40,8% alle elezioni del 2014, benché quelle europee siano considerate di secondo ordine, è un dato che il Pd non aveva mai conosciuto. Ma la prova del passaggio dal comunicare al governare, pone un altro ordine di difficoltà. Considerando i primi mesi di legislatura, il presidente del Consiglio sa usare perfettamente, come Berlusconi, le «politiche simboliche», nella variante «effetti annuncio», promettendo riforme per il rinnovamento istituzionale e l’uscita dalla crisi. Tuttavia, i tempi delle attività istituzionali, inevitabilmente lunghi, e la necessità del confronto con le forze politiche espresse in parlamento mal si conciliano con la promessa implicita nel racconto del capo di trovare soluzioni veloci ed efficaci ai problemi di tutti. Bisognerà verificare se Renzi, come Berlusconi, riuscirà a mantenere la fiducia dei segmenti di pubblici-elettori che è riuscito a coinvolgere.

 

 

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L'autrice dell'articolo è ricercatrice di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Università di Messina

 

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