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Andare al teatro vuol dire una medesima vibrazione con l’attore, ovvero abitare un posto, accorgermi del mio vicino, della testa di fronte, di quello dietro, della collettività che c’è intorno a me fino in fondo, all’ultimo tecnico dietro al palco, o al bigliettaio dell’ingresso, e semmai mi fossi accorta del suo gesto, del suo sguardo. 

Una volta, da bambina, mi chiesero quale fosse l’immagine della gioia e della libertà secondo me. Mi si fece chiara una metafora: un cagnone con la lingua a fetta di prosciutto che tira fuori la testa dal finestrino del furgone mentre viene schiaffeggiato dalle orecchie al vento, e soffoca quasi per la mole d’aria in gola, soffoca di giochi e di allegria perché il padrone lo porta fuori città. Il racconto della gioia sarà iniziato in casa, quando l’umano avrà proferito quelle tre sillabe magiche: Andiamo!

Fantasie e narrazioni di bimba che con l’età si perdono negli archivi cerebrali ma che invece, qualche giorno fa come un brillante dejà vù, mi sono state restituite dalla mia vecchia cache. Ero in compagnia di Simone Tangolo e lo ascoltavo, ma ancor più lo guardavo mentre con il volto, le gambe, le mani, i riccioli, la fronte mi raccontava, riviveva, gli ultimi eventi della sua bellissima vita.

(“chi mi ricorda… chi mi ricorda… Il cagnone nel furgone!!”)

Tento di farmi raccontare le emozioni che lo hanno accompagnato fin dai primi momenti del suo trasferimento da una anonima provincia del sud verso uno dei luoghi più cool di Milano, tento di capire come sia cambiata la sua vita sociale e le frequentazioni in questi anni milanesi, mi infilo nelle sue frasi per conoscere che valore ha la sua itineranza e il ritorno a Milano, e poi il ritorno al sud. Ma vengo soffocata dal turbinio di entusiasmo e dal magnetismo delle sue pupille profonde e veloci, vengo schiaffeggiata dall’allegria di racconti magici di teatri, di palcoscenici, di luci, di quinte, di complimenti, di suoni di passi in prossimità della scena, di sedie, di chitarre, di poesie, di tornelli della metropolitana. E poi la nuova stagione all’Emilia Romagna Teatro (ERT), quella con Teatro di Roma e quella ancora in atto con il Teatro stabile della Toscana, la gamma di espressioni dei cinesi in via Sarpi che non smette di osservare... Sento quest’aria in bocca ingestibile, tanta per il mio cavo, soffoco. E mi diverto. I suoi cambi di discorso, le divagazioni sono cambi d’abito, o special di chitarra. E vabè, molliamo il guinzaglio, mettiamoci alla guida del furgone… e andiamo!

 

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Simone Tangolo, è attraente e appassionato. Giunto in Lombardia sette anni fa dopo una inaspettata selezione alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano, diplomandosi nel 2011. È della mia stessa cittadina, una di quelle provincie dormitorio che potrebbero trovarsi in un hinterland qualsiasi del meridione, di quelle che al tuo improbabile passaggio ti chiederesti atterrito: “ma qui la gente cosa ne fa di sé stesso?”: pochi negozi, nessun cinema, nessun teatro, sparute e inospitali aree verdi, nessuna associazione aggregativa, solo case e strade, malmesse. Di quei dintorni senza identità che, se è vero che la gente assomiglia ai luoghi d’appartenenza, in un posto così ti aspetti solo di incontrare passanti senza passioni e desideri.

E invece no, nel silenzio di un apparente nulla, oltre lo smarmittare dei motorini, molti ragazzi suonano, scrivono, dipingono nei garage e nelle camerette dai letti sepolti con libri e chitarre, come tanti alieni rispetto ai coetanei parcheggiati nei peggiori bar rionali. Simone, tra quelli. Lo conobbi come il chitarrista tutto dreadlocks e sorriso di una band crossover, i Kaotica e non sapevo che facesse parte di una amatoriale compagnia di teatro in vernacolo del paese. E quando venni a sapere, qualche anno dopo, che “Simone se ne va a Milano” non mi sorpresi affatto di scoprire che era stato selezionato dalla prestigiosa scuola di Luca Ronconi anche perché, negli anni immediatamente precedenti, si era già fatto notare su scala provinciale e regionale nella Compagnia Teatrale di Koreja presso la quale aveva svolto diversi stage. Nella comitiva dei baldanzosi giovinastri spiccava: è uno di quelli che occupano lo spazio, lo abitano, lo vivono, lo possiedono, lo profumano. Ed è per questo che non mi sorprende sapere che anche ora, nonostante i tempi duri e la difficile condizione artistica italiana, Simone màcini spettacoli, progetti, convocazioni come un impiegato di una multinazionale, carico di lavoro, fin dall’indomani del suo diploma.

 

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Eppure una delle prime cose che mi racconta sono le critiche ricevute, a volte da persone autorevoli: musi storti rispetto a direzioni nuove che l’ultima generazione di registi e attori intendono ispezionare, come è giusto che sia e che come sempre è stato. Mi racconta però che le critiche, come pure gli entusiasmi non vengono sempre manifestati solo dagli addetti ai lavori. Mi parla del pubblico milanese come un’entità variegata e differenziata al suo interno e di come questa mescolanza si moltiplichi con il pubblico regionale. A me pare davvero difficile comprenderlo. Nella stragrande maggioranza delle città italiane puoi farti l’abbonamento ad una, due, massimo tre stagioni teatrali dove l’offerta spesso non si differenzia che sui massimi sistemi (classico, sperimentale, cabaret, danza). Milano ha molti teatri, ognuno dei quali ha una sua storia e progressione vitale presente, non solo passata. Compiono scelte precise di palinsesti e spesso il pubblico è molto formato e critico e già sa cosa andrà a vedere, cosa aspettarsi senza delusioni in base al teatro che sceglierà e mi snocciola nomi di teatri, di direttori, di registi, di opere, di testi, manoscritti, sceneggiature… io non memorizzo nulla di questa giostra di personaggi e sempre più divertita, come il cagnone in piena autostrada, penso solo: che m’importa!

In realtà dopo l’iniziale ubriacatura di parole e di entusiasmo scopro tra le sue sillabe serrate eppur esatte, la voglia di mordere il mondo pezzo dopo pezzo e di come un testo, un palcoscenico, un compagno, un regista, un direttore di teatro altro non sono per lui che “teatro di umanità”, palestra di esperienze vive. Discorre con leggerezza e grande comprensione su alcuni tipi di pubblico troppo foderato e preparato nei confronti dei quali sa di dover essere più preciso e di non dover dar spazio a sbavature, e anziché infastidirsi, gli si illuminano gli occhi di sfida! Sa che in alcuni teatri, dove il principio accademico è ferreo, non può sbagliare. Come l’uomo tigre che sul ring studia le sue mosse e quelle del nemico e forse sangue potrai vedere, ma mai la sconfitta perché la vittoria è nella concentrazione e nello studio dell’avversario.

In altri contesti, meno centrali e blasonati, tenta, sperimenta, prova a calibrare tutti i volumi tra pancia, spirito e tecnica. Il fatto di collaborare con il Piccolo, con Teatro ATIR Ringhiera, con l’ERT (Emilia Romagna Teatro) gli dà tutte queste possibilità di vita sul testo. In questo comprendo il suo enorme entusiasmo. Tant’è che non riesco, e non sono riuscita fino alla fine, a farmi dire cosa gli piacesse di più. Tutto tutto dice il cagnone con le orecchie al vento!

Mi ha fatto scoprire come un testo, uno spettacolo possa essere interpretato scegliendo ogni piccolo dettaglio, sempre diverso a seconda dei contesti non solo scenici ma soprattutto di pubblico, di esseri umani con i quali ti trovi a scambiarti e ciò mi ha entusiasmato e preoccupato. Questo mi ha fatto sentire una spettatrice provinciale, inadeguata, frivola, senza mezzi. Ricordo che la prima volta che vidi una sua performance fu in un reading per la presentazione di un libro in un giardino nel Salento, molto suggestivo. “Sapevo già cosa aspettarmi” ho confessato con timore e onestà. Sapevo che avrei trovato una perfetta dizione, una consapevole postura, un respiro calibrato che non avrebbe mai fatto eludere a sforzi o apnee e certamente sapevo di non trovare un'interpretazione troppo pedissequa nella quale, per intenderci, alla rabbia corrisponde una voce serrata, al tormento un corruccio della fronte, allo sdegno un innalzamento del volume. Ho dovuto ammettere la mia quasi totale inesperienza, immaturità. Il cagnone scomparve, forse lo divenni io, e lui il padrone dolce. Mi guardò con comprensione e monito, “No, non devi più pensare a questo, non dovrai più farlo”. Portando in avanti il suo petto mai fermo e con gli avambracci sul bordo del tavolo e con le pupille pareva che mi dicesse, “Seguimi”, e lo seguì: “Molti credono che andando a teatro andranno a vedere qualcosa, semmai a prendere qualcosa. No, ci vai per partecipare, per dialogare in qualche modo con me, con noi”. E come se nemmeno un anno fosse passato da quando nella casa in campagna, disadorna, passavamo le serate invernali appoggiati in vecchi divani alla meno peggio tra castagne e chitarre alla De Andrè; stavolta mi svacco io sul tavolino e gli lancio un incredibile “Siiiiiiiiiiì come no?! E come fai a capire chi c’è, manco vedi nulla dal palco, dai Simo! Non si vede nulla dal palco! ...al massimo le prime file, vorrai dirmi che ne senti il respiro? I commenti? Quanti applausi? Daai! Impossibile! Vorrai dirmi per caso che senti il vibrare dei corpi? – ecco il cagnone impazzito sono davvero io ora – la resistenza di altri? La freddezza di alcuni? Il coinvolgimento di altri ancora...?”

 

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Era da un po' che a tutte le domande imbizzarrite lui diceva sommessamente e chiaramente un Sì dopo l’altro. Sgranai gli occhi e aprì io le braccia: “E come fai?!” scandiì.

Lo sai. Lo sai, lo senti. Funziona così tra esseri umani. Come quando senti di essere corrisposto da qualcuno che ti piace senza aver scambiato una parola, forse manco essersi toccati. Ad un certo punto lo sai.

È come un miracolo, ma senza spettacolo. Una sorta di miracolo normale.

È come se il teatro non fosse il lavoro offerto sul palco ma la vita che ne produce e certamente tutto si può dire di Simone Tangolo meno che sia un forestiero in termini di vita. Totalmente innamorato dell’essere umano più che della recitazione stessa, oserei. Mi descrive, ridacchiando, tutta la varietà di espressioni e atteggiamenti, secondo lui tantissime, dei cinesi di via Paolo Sarpi, la Chinatown di Milano. Al mio ennesimo inarcamento delle sopracciglia lui mi sbatte il suo prorompente “Ma è davvero così!” e me l’immagino già che prende appunti circa tutte queste differenze di espressioni di quegl’inconsapevoli esseri umani che, insomma, proprio così diversi si fa fatica a credere che lo siano.

Questa storia di interessarsi a chi gli sta davanti, intorno, nei pressi, mi pare sia per lui malattia e linfa. Mi racconta che quando si approccia ad un testo lo impara leggendolo e ripetendolo in vari luoghi, momenti, in casa, mentre si prepara il caffè, quando va a correre, poi al parco, quando è al letto… per viverne le differenze, per sentirle tra quando è solo o quando è imbevuto in un ambiente.

Trovo questa consapevolezza, questa attenzione, profondamente tecnica ma incredibilmente etica, oserei politica.

Ed infatti i suoi progetti fuori dai teatri sono vari ed importanti, come quello per la fondazione de La Lettura de Il corriere della Sera nel quale ha partecipato con altri due colleghi alla manifestazione “Percorsi diVersi” leggendo delle poesie di Borges alla fermata della metro rossa di Porta Venezia. Con la compagnia Idiot Savant della quale è co-fondatore realizza laboratori per attori non professionisti Over 60, nel 2015 (in collaborazione con la compagnia Ringhiera) “L’ISOLA. Come cercare la felicità in 12 x 8 metri” e quest’anno con il tema che ruota attorno il tramonto del padre affrontato nel libro di Massimo Recalcati dal titolo “Complesso di Telemaco” nel quale i canuti partecipanti hanno composto dei testi sulla genitorialità di sé e di quella dei figli, costretti spesso, nei tempi contemporanei a fare da padri a ragazzini mai cresciuti del tutto. Singolare, ma alla luce di quanto detto forse non troppo, che la compagnia stessa porti questo lavoro, “Il Complesso di Telemaco” all’Elfo Puccini di Milano per la rassegna Melting Milano (il 17 settembre alle ore 22, il 22 settembre alle ore 20,30 e il 24 settembre alle ore 22).

Se volete andateci, ma non a vederlo, a viverlo, respirarlo. Portate il vostro essere genitore, figlio, anche se non lo siete o non vi sentite tali. Portate il nulla e il tutto totale che ruota intorno al significato che è per la vostra vita essere padre, essere tramonto, essere crisi ed essere complesso.

Gli ho promesso che non avrei mai più detto “Vado a teatro a vedere ...” anche se lui non è d’accordo, mi ha chiesto solo di respirare e di andare a vivere.

Questo mi insegna, Simone: andare al teatro vuol dire una medesima vibrazione con l’attore, ovvero abitare un posto, accorgermi del mio vicino, della testa di fronte, di quello dietro, della collettività che c’è intorno a me fino in fondo, all’ultimo tecnico dietro al palco, o al bigliettaio dell’ingresso, e semmai mi fossi accorta del suo gesto, del suo sguardo. Ecco di che si vestono le storie, le parole, i gesti suoi, ecco che non è un solo accademico proferire, ecco il perché di certe critiche che scambiano le vibrazioni del vivere in sbavature! Ecco perché puoi riuscire ad essere tormentato senza svirgolare la voce, essere fiero senza apparire un monumento di marmo, essere arrabbiato senza urlare: prosciughi in qualche modo tutta la rabbia degli esseri umani intorno a te e la abbracci in un respiro, pieno di una sola parola, poi un gesto. E il tuo corpo, come un mantice, verrà spinto da quel respiro e si vestirà di rabbia viva, giusta.

Non avevo capito che fosse questo il teatro, io che mi chiedevo come facessero ad imparare tutte quelle parole, che mi chiedevo come facessero a piangere di lacrime vere, gli attori.

La risposta è nella vita.

Da quel giorno qualche cinese l’ho incontrato anch’io; in effetti uno aveva un neo, un altro aveva due rughe intorno ad un occhio e l’altra palpebra invece liscia. Uno rideva con la bocca larga larga ed un altro aveva le sopracciglia depilate come un tronista di Canale 5.

La risposta è nella vita, è sempre nella vita.

Quindi su, andiamo a vivere, andiamo a teatro. Andiamo!