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Non aveva detto niente a nessuno. Se la nonna Mariuccia non fosse tornata lui sarebbe andato in cerca di lei. Doveva cogliere il momento propizio per lasciare la casa senza allarmare i figli.

Da quando era morta la nonna Mariuccia, il nonno Giulietto non dormiva più. Stava sulla sedia accanto alla finestra, raccolto nella notte, come un uccello in attesa del vento per volare via. Ma il vento chissà dov’era. I figli venivano a lui con una tazza di brodo caldo: “Bevi, possibile che non ti nutri di niente.” Le figlie sopraggiungevano con qualche panno caldo: “Copriti, la notte è fredda.” Ma il nonno Giulietto non beveva il brodo e non si copriva con i panni. Stava seduto con la schiena diritta, stretto nel cappotto che la nonna Mariuccia gli aveva cucito negli inverni di guerra. La nonna Mariuccia, sul bavero gli aveva cucito una pelle di agnello, bestia sacrificata al dio della guerra per implorare la sua protezione. E il dio della guerra aveva steso la sua mano sul nonno Giulietto cosicché neppure una scheggia di bomba l’aveva sfiorato, nonostante le sue corse sotto i bombardamenti, da casa alla fabbrica, dalla fabbrica alla scuola dei figli, dalla scuola ai rifugi antiaerei, come un topo inseguito dai gatti. I figli e le figlie lo imploravano: “Non stare sempre sulla sedia. Stenditi sul letto a riposare le tue ossa.” Il nonno faceva segno di no con la testa e stava con gli occhi sbarrati. Giorno e notte con gli occhi sbarrati, aspettando che la nonna Mariuccia tornasse. Stava con gli occhi sbarrati per la paura di non essere sveglio quando lei fosse tornata. I figli non osavano dirgli che dall’al di là nessuno torna. “Nessuno?” Chiedevano gli occhi sbarrati del nonno Giulietto. “Nessuno!” rispondeva la parentela. Quando la figlia più giovane si era chinata su di lui e gli aveva affettuosamente sussurrato: “Devi fartene una ragione.” Lui era scoppiato in singhiozzi: “Che cosa hai detto?” “Ho detto che lei non può tornare.” “Ma chi l’ha comandato?” Alla figlia più giovane si era attorcigliata la lingua e non aveva saputo rispondere. Tutto ciò che aveva saputo fare era stato accarezzare il padre passandogli la mano sulla fronte che subito aveva ritirato come se si fosse scottata. Da allora il nonno Giulietto non aveva più parlato. Aveva combinato tutto da solo, tra lui e sé stesso. Non aveva detto niente a nessuno. Se la nonna Mariuccia non fosse tornata lui sarebbe andato in cerca di lei. Doveva cogliere il momento propizio per lasciare la casa senza allarmare i figli. Avrebbe preso con sé solo l’ombrello. Il momento propizio accadde una notte di marzo: pioveva a dirotto e tirava vento come se il tempo volesse tornare indietro nell’inverno, addirittura tornare al tempo della guerra. Faceva freddo e il nonno Giulietto dovette imbacuccarsi nel suo cappottone, tirarsi fin sotto il naso il bavero di pelle d’agnello e tenersi stretto all’ombrello che il vento gonfiava come una vela, costringendolo ad andare dove voleva lui. E dove voleva il vento non era una direzione qualsiasi ma erano i pochi passi che separavano il nonno Giulietto dalla nonna Mariuccia. La nonna Mariuccia era là, in mezzo alla pioggia e al vento, col suo leggero vestitino da sposa, col suo pezzetto di velo bianco, con i guanti bianchi, le scarpette bianche col mezzo tacco, col mazzetto di fiori d’arancio stretto al petto. Era là col viso bagnato di pioggia e di lacrime di gioia, era là trepidante, gridando al nonno Giulietto di affrettarsi perché stava per partire la corriera che li avrebbe portati a Miradoro Terme per il loro sospirato viaggio di nozze. Piangeva di gioia anche il nonno Giulietto accorrendo alle grida della sua sposa, lui, l’ombrello e il vento. Il quale vento si era trasformato nei testimoni del matrimonio, cioè nella fattispecie dello zio Giuseppe e di sua moglie Olga cosicché i due sposi, e i due sacri testimoni, avevano fatto appena in tempo a precipitarsi sulla corriera in partenza da Porta Ludovica e diretta a Miradoro Terme. Ma a Landriano c’era stata una sosta imprevista. Si era improvvisamente bucata una gomma e la corriera si era piegata sopra un fianco, come un cavallo azzoppato. Tutti i passeggeri erano scesi. “Cosa c’è, cosa non c’è?” “La corriera è stata morsicata da una serpe!” “E’ stato un milordone.” “No, è stata una vipera.” Poco per volta i passeggeri si erano dispersi nella campagna. Anche la nonna Mariuccia si era dispersa nella campagna, come se fosse stata nebbia che si dissolve a mezzo il giorno, e si era tirata dietro i testimoni. Anche l’autista della corriera si era dissolto. Era rimasto il nonno Giulietto, solo, accanto alla corriera con la ruota sgonfia, morsa dalla vipera. Che fare? Lui non aveva mai aggiustato una gomma, neppure quella della bicicletta che durante la guerra usava per andare al lavoro. Se durante la guerra si bucava la gomma della bicicletta la nonna Mariuccia la aggiustava. Il nonno Giulietto non aggiustava le gomme delle biciclette, lui sapeva a memoria l’Orlando furioso. Non solo! Lui scriveva libri. A sentire che lui scriveva libri la corriera si era sollevata un poco sul fianco: “Scrivi libri?” “Li scrivevo durante la guerra. Libri dattiloscritti, tre copie con la carta carbone.” Anche la pioggia e il vento di quella giornata di marzo si erano incuriositi: “Libri di guerra?” “Macchè libri di guerra. Erano libri di pace. Ogni libro cominciava così: Signore, venga il tuo regno…” A sentire di quei libri di pace la pioggia e il vento di quella giornata di marzo si erano voltati al sereno. Il cielo era diventato azzurro, terso di luce e in fondo allo stradone si vedevano nitidi i figli e le figlie del nonno Giulietto che arrancavano affannati in cerca del loro genitore. “Dove sei, nonno Giuletto?” Gridava la figliolanza. “Non sarai mica scappato? Ti abbiamo portato del brodo caldo. Ti abbiamo portato dei panni caldi.” Il nonno Giulietto aveva fatto in tempo a scendere dalla strada e inoltrarsi nei campi. Si era spinto nell’infinito della campagna, dove lo aspettava la nonna Mariuccia; lei e i testimoni, che nell’attesa dicevano le preghiere.

 

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Gli autori di Vorrei
Adamo Calabrese
Adamo Calabrese

Adamo Calabrese è scrittore, autore di teatro e illustratore. Ha pubblicato con Einaudi il romanzo "Il libro del re", con Albatros i libri di racconti "L'anniversario della neve", "La cenere dei fulmini", "Il passaggio dell'inverno", con Joker "Paese remoto". Ha illustrato i propri libri ed edizioni di Dante, Gibran e Pascutto. Scrive e disegna per il quotidiano "Il cittadinio" di Lodi, per le riviste "Vorrei" di Monza e "Odissea" di Milano. I suoi ultimi lavori teatrali hanno messo in scena opere di Brecht, Joyce, San Francesco e Iacopone. Nel 2012 RAITREha trasmesso un suo testo. Nel 2014 è stato finalista del premio internazionale di grafica satirica "Novello". Insegna letteratura presso le Università della terza età di Sesto san Giovanni e Milano (Università Cardinale Colombo)

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