20180929 tp

“America First” può essere vantaggioso per gli USA, sicuramente non lo è “Brexit” per il Regno Unito e ancor meno “Prima gli Italiani” per l’Italia. Se ognuno tira l’acqua al suo mulino, nel breve termine qualcuno ne trae vantaggio, ma nel lungo termine il disastro per tutti, economico e politico, è garantito. 

Nel mio precedente articolo dal titolo “C’è ancora bisogno della sinistra. Ma per tutti” ho scritto, con riferimento al liberiamo senza freni che ha dominato l’economia a partire dagli anni ottanta del secolo scorso: «Questa teoria e pratica è purtroppo ancora operante con effetti devastanti: le disuguaglianze e la povertà che hanno generato sono alla base della paura e della rabbia su cui prosperano populismi e regimi autoritari».

Ne traevo la conclusione che il nemico della sinistra fosse ancora il liberismo. Ma oramai occorre tener conto del fatto che si va diffondendo, in forme altrettanto aggressive, il protezionismo. Viene da chiedersi: si tratta di un avversario che si sostituisce, oppure  si aggiunge  al precedente?

La questione non è semplice. Il premio Nobel Edmund Phelps ha classificato i sistemi economici in tre categorie: l’“economia moderna”, il corporativismo e il socialismo. L’”economia moderna” non è altro che il sistema capitalista come ha operato negli ultimi due secoli. Phelps ne esalta le conquiste in termini di benessere dell’umanità, riducendo però le tragedie (crisi e guerre) a incidenti di percorso. Il socialismo, con le attività produttive totalmente o quasi in mano allo stato, è storia del passato. Il corporativismo, la cui origine Phelps attribuisce esplicitamente al nostro Paese, è caratterizzato da una commistione pubblico-privato tendenzialmente protezionista e ostile alla divisione dei poteri e alla libera concorrenza. Non solo è da lui esecrato, ma a suo parere è in crescita ovunque con effetti deleteri per l’economia e per la convivenza civile del futuro.

Oggi, anche questa classificazione appare insufficiente. A parte il fatto che Phelps non sembra distinguere tra regimi corporativi e sistemi socialdemocratici, che hanno dato buona prova in Europa e altrove, esistono ormai sistemi che addirittura combinano il socialismo con il capitalismo. Che dire infatti del capitalismo protezionista di Trump e del capitalismo di stato cinese? Evidentemente la  realtà va oltre  le classificazioni.

Il timore espresso da Phelps per la diffusione del corporativismo sembra purtroppo confortato dai fatti, se si tiene conto del ritorno attuale a politiche protezionistiche basate su dazi e altri ostacoli alle importazioni e quindi agli scambi internazionali. Ma occorre rilevare che il protezionismo non sostituisce, ma si somma al liberismo all’interno delle singole sovranità nazionali.

Nel breve termine, questa involuzione può essere vantaggiosa per i paesi di maggiore dimensione: un “liberismo protetto” può favorire la crescita economica, come sta avvenendo negli USA. Ma si tratta ancora di una crescita diseguale perché, all’interno delle singole sovranità, continua a favorire le categorie più abbienti.

Per paesi minori come l’Italia che vivono di valore aggiunto, trasformando materie prime e semilavorati importati in prodotti finiti da esportare, ogni limitazione degli scambi internazionali è deleteria. Per fortuna c’è l’Europa e iil mercato comune, ma se questa dimensione istituzionale venisse meno, il declino sarebbe inesorabile, sia per l’Italia che per l’Europa nel suo insieme. E’ facile immaginare che un processo di questo tipo sarebbe gradito ai grandi concorrenti dell’Europa: agli USA, alla Russia, alla Cina.

In sintesi: se nel breve termine “America First” può essere vantaggioso per gli USA, sicuramente non lo è “Brexit” per il Regno Unito e ancor meno “Prima gli Italiani” per l’Italia. Se ognuno tira l’acqua al suo mulino, nel breve termine qualcuno ne trae vantaggio, ma nel lungo termine il disastro per tutti, economico e politico, è garantito.

Che fare allora? Battersi contro ogni chiusura. De-ideologizzare il conflitto fisiologico tra le diverse aree e dimensioni istituzionali, dal globo al quartiere, puntando a risolverlo con il dialogo e il compromesso. Dare il proprio contributo a un movimento nello stesso tempo globale e locale contro le disuguaglianze e la povertà, che  liberismo sregolato   e  corporativismo tendono a conservare e ad accrescere.

Questo è il compito di una sinistra “millennial”. Ma per fare questo la sinistra deve uscire dall’attuale afasia, come timorosa di riproporre obiettivi sui quali i suoi successi sono stati scarsi, ma non nulli. Obiettivi che sono in contrasto radicale con quelli proposti da una destra sempre più chiusa e conservatrice, ma che altri hanno impresso sulle loro bandiere in modo parossistico e qualunquista, come se il loro conseguimento fosse a portata di mano.

La voce della sinistra non si sente più. Eppure c’è chi continua ad elaborare e proporre visioni e strategie organiche per una politica di sinistra. Senza far riferimento a capisaldi come Stiglitz, Piketty, Amartya Sen, cito ad esempio: il libro-intervista di Romano Prodi, inventore dell’Ulivo, inascoltato e addirittura sabotato, dal titolo significativo e allarmante “Il Piano Inclinato” (Il Mulino, 2017); le proposte avanzate da Anthony B. Atkinson nel suo “Disuguaglianza” (Raffaello Cortina Editore, 2015) per il Regno Unito, proposte riprese per l’Italia dal Forum Diseguaglianze e Diversità che riunisce importanti studiosi ed associazioni volontaristiche; le idee anticonformiste di Rutger Bregman espresse nel suo “Utopia per realisti” (Feltrinelli 2016); il recente rapporto “Prosperity and Justice, a plan for the new economy”, dell’IPPR (Institute for Public Policy Research), importante think tank progressista britannica.

Ma occorrerebbe, una buona volta, che le diverse anime della sinistra cercassero di fare fronte unico sulla base di visioni e obiettivi che non possono non essere condivisi, invece di cogliere ogni divergenza, spesso  ideologica o semplicemente applicativa, per una infinita cariocinesi. E che contraessero le alleanze utili per riconquistare il potere, senza preconcetti, all’insegna del famoso concetto di Mao Tse Dong: «Non importa il colore del gatto, l’importante è che prenda il topo».

Provo a citare alcuni di questi obiettivi e proposte, contenuti in forme diverse nei testi citati:

- Obiettivo fondamentale: ridurre le disuguaglianze e la povertà, tra persone, territori e generazioni, nell’interesse non solo dei meno fortunati, ma di tutti i cittadini. Trasmettere la consapevolezza, scientificamente provata, che questo obiettivo non solo non è in contrasto con lo sviluppo, ma al contrario è esso stesso fattore di sviluppo.

- Altro obiettivo fondamentale: la difesa dell’ambiente come fattore di benessere e sicurezza degli esseri umani, riducendo sprechi e consumo delle risorse naturali al livello della capacità del globo di rigenerarle (impronta ecologica), bloccando il consumo di suolo, riutilizzando e ri-naturalizzando le vaste arre abbandonate dalla prime e seconda industrializzazione.

- Cultura, ricerca scientifica e tecnica, istruzione, formazione continua debbono essere destinatari peivilegiati  della spesa pubblica, per far fronte alle turbolenze della rivoluzione digitale e soprattutto per le nuove generazioni. Sarebbe utile stabilire un rapporto diretto tra l’aumento delle risorse finanziarie da destinate a questi obiettivi e la tassazione di patrimoni e rendite improduttive e speculative (come proposto da James Tobin), nonché riduzioni proporzionali delle spese militari. Occorre ricordare che analfabetismo e scarsa istruzione sono direttamente correlate con la povertà.

- Sistemi tributari basati sulla progressività delle imposte (conquista del secolo scorso), sulla tassazione dei maggiori patrimoni e donazioni (bastano piccole aliquote per un gettito consistente, data l’enorme concentrazione e dimensione raggiunte dalla base imponibile), su un’alta tassazione delle operazioni finanziarie di breve termine a fini speculativi, sulla lotta all’evasione fiscale. La rivoluzione digitale in atto o può consentire enormi progressi nell’attuazione delle politiche fiscali.

Reddito di cittadinanza (o di inclusione, o altrimenti denominato) non condizionato, ma collegato con l'occupazione dei destinatari in attività d’interesse collettivo e di sviluppo della propria persona, tramite un servizio civile o enti volontaristici certificati, facendo delle istituzioni pubbliche una sorta di datore di lavoro di ultima istanza. Come dimostra R. Bregman, non è vero che il reddito minimo induce all’ozio, padre dei vizi, cosa che avviene invece spesso con il troppo lavoro alienante. E’ al contrario un contributo alla dignità e al voler fare.

- Salario minimo, collegato con limiti ai compensi dei dirigenti.

- Riduzione degli orari di lavoro prevalentemente esecutivi
e ripetitivi.

- Lotta contro privilegi e monopoli a tutti i livelli, locale, nazionale, globale.

- Utilizzo della  rivoluzione info-telematica a fini di interesse pubblico, con la stessa sofisticazione con cui essa viene impiegata dai sistemi di interessi particolari, da populisti e regimi autoritari, per contrastarne le pratiche manipolatorie  e disinformative  dell’opinione pubblica (fake story, più che fake news).

Ispirare i rapporti tra i diversi livelli di governo e tra diversi paesi e regioni ai principi di sussidiarietà, secondo il dettato della nostra Costituzione, che dice: «La Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali… consente, in condizioni di parità con altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Si tratta di lavorare per una Europa federale, e per un rafforzamento delle istituzioni internazionali, dall’ONU in giù, governative e non.

- Per quanto riguarda infine il problema emergente delle migrazioni, che costituiscono pur sempre una piccola frazione delle popolazioni dei paesi di partenza e di arrivo (in media circa il 5%), occorre da una parte agire con contributi ai paesi di origine, mirati soprattutto all’istruzione, alla sanità e alla valorizzazione delle attività produttive locali: dall’altra puntare sull’inclusione degli immigrati (in Italia oltre 600 mila irregolari), da considerare non come un onere ma come una risorsa acquisita. Per citare infine R. Bregman: «I confini sono la maggiore causa singola di discriminazione in tutta la storia mondiale… Forse tra un secolo o giù di lì potremo guardare ai muri come oggi guardiamo alla schiavitù e all’apartheid».

 

Foto tratta da Panorama

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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