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Molto si discute sulla globalizzazione e sulla rivoluzione digitale che caratterizzano il terzo millennio, sottolineandone a volte in modo entusiastico gli aspetti positivi, altre volte drammatizzandone gli effetti negativi.

Negli articoli che ho scritto per Vorrei, da una parte mi sono occupato di disuguaglianze e povertà, alla ricerca di interventi per ridurle; dall’altra di argomenti culturali e ambientali, usando spesso Monza e la sua Villa Reale e Parco come caso esemplare.

Esiste una via su cui far confluire questi due percorsi, apparentemente lontani tra loro? Mi è sembrato di trovarla nel pensiero di Amartya Sen, secondo cui «la lotta contro le disuguaglianze e la povertà è una lotta per il riscatto della persona umana» e «l’obiettivo da perseguire è quello della libertà sostanziale di ogni essere umano di esprimersi secondo il senso che vuole dare alla propria vita».

Ma il procedere su questa via non è facile, perché mette in luce contrasti potenzialmente distruttivi.

Le politiche miranti ad elevare l’istruzione, la cultura, lo sviluppo delle capacità umane hanno effetti collaterali che confliggono con quelle tendenti a ridurre le disuguaglianze. I talenti degli esseri umani non sono solo i più diversi, cosa meravigliosa, ma anche di diverso livello. Non tutti i pittori sono Raffaello. Ostacolare la possibilità dei più dotati di esprimersi e di assumere nella vita ruoli più importanti e remunerati, all’insegna dell’uguaglianza, sarebbe deleterio. Le iniziative dirette ad elevare la persona umana non servono solo a dare ad ognuno la possibilità di realizzarsi secondo le proprie vocazioni, ma anche a creare classi dirigenti, leadership che, specie in Italia, sono carenti forse più in quantità che in qualità. Come scrisse spiritosamente Michele Serra in una delle sue “amache” contro Berlusconi, anticipando l’avvento del M5S, «io non voglio essere governato da un pirla come me, ma da uno migliore di me». Ciò non toglie che l’eccesso di disuguaglianze attribuibili all’essere più o meno dotati, ad esempio i divari esorbitanti in un’azienda tra i compensi dei dirigenti rispetto a quelli dei dipendenti di ultimo livello, e più in generale il distacco delle classi dirigenti dalla generalità dei cittadini, può portare ad effetti rovinosi. E’ possibile e necessario intervenire per contrastare queste derive, imponendo limiti alle differenze di reddito e di ricchezza e garantendo servizi sociali uguali per tutti..

Le politiche finalizzate allo sviluppo della persona umana nelle sue molteplici diversità sono poi sottilmente connesse con quelle che riguardano i rapporti tra istituzioni diverse e di diverso livello. La connessione è data da una questione di scottante attualità: l’identità, il senso di appartenenza a comunità diverse, maggiori o minori, di natura territoriale, etnica, linguistica, religiosa, culturale. Il corso della storia è segnato tragicamente da guerre tra diversi popoli, con ingenti perdite di vite umane e distruzioni, guerre che, sia pure in misura minore, ancora si combattono in diversi focolai del mondo. Spesso le rivendicazioni trovano giustificazione o addirittura legittimazione, perché indipendenza e autonomia sono fattori di libertà e di espressione positiva delle diverse popolazioni. Ma non vi è dubbio che sono anche causa di disuguaglianze. Tuttavia  non necessariamente questi contrasti debbono esplodere in conflitti armati, ed è possibile intraprendere percorsi di convivenza e conciliazione senza reprimere le differenze. L’Unione Europea è una testimonianza, speriamo irreversibile, di come una storia di guerre sanguinose può essere definitivamente chiusa. Il che non escluderà mai un continuo ribollire al suo interno, come ad esempio la rivendicazione indipendentista della Catalogna e, più in generale, il contrasto tra un embrionale senso di appartenenza europeo e il sovranismo radicato nelle secolari identità nazionali. Per evitare effetti rovinosi, come la Brexit, è necessario e possibile praticare in modo inesausto e dinamico una politica basata sul principio di sussidiarietà, secondo cui non è opportuno trasferire a livelli superiori di governo interventi che possono essere affidati convenientemente a livelli inferiori. Ma soprattutto occorre promuovere una cultura di cui il programma Erasmus è la concreta testimonianza. Mi torna in mente l’idea richiamata da Antonio Tabucchi nel suo “Sostiene Pereira”, secondo cui ciascuno di noi è costituito non da una sola anima, ma da una “confederazione” di anime. Ebbene, si dovrebbe coltivare l’oggettiva pluralità di appartenenze di ciascun essere umano. Una lezione recente ci è stata data dal calciatore Kalidu Koulibaly che, in risposta ai cori razzisti di una partita di calcio, ha serenamente dichiarato: «Sono orgoglioso del colore della mia pelle, e fiero di essere francese, senegalese, napoletano». Del resto un musulmano che vive in Europa, se da una parte conserverà i propri riti religiosi originari in misura più o meno rigida, come  noi stessi (e conviene ricordare la frase di Benedetto Croce, ateo, secondo cui «non possiamo non dirci cristiani»), dell’altra acquisterà un senso di appartenenza alla nazione in cui vive, che si accentuerà nei suoi figli e nipoti. Se penso a me stesso, mi accorgo di sentirmi ancora “cives romanus” per il luogo di nascita, di studi liceali e di cultura idealista più che positivista, ma di nutrire anche un’affetto verso la Calabria, origine della mia famiglia, e di impegnarmi nello stesso tempo per la res publica monzese, dove vivo da decenni. Ho sempre comunque presente la lezione di Michel de Montaigne, che scriveva nella “modernità” rivoluzionaria del Rinascimento, contro le guerre di religione e l’idea di essere depositari della verità; e la frase ironica di George B. Shaw, secondo cui «il patriottismo è la convinzione che il proprio paese sia superiore a tutti gli altri perché ci si è nati». «Vivere nel XXI secolo significa gestire identità multiple», auspica il sociologo Colin Crouch nel suo recente “Identità perdute. Globalizzazione e nazionalismo” (Ed. Laterza, 2019). In sostanza, si può e si dovrebbe sentirsi europei e cittadini del mondo senza rinunciare a sentirsi francesi o tedeschi, lombardi o napoletani o tante altre identità non territoriali. Consapevoli comunque del fatto che non ci si può rapportare con gli altri se non si è acquisito un adeguato senso di sé, del proprio valore e della propria identità.

Altro argomento. Ho sempre sostenuto che “si vis pacem, para pacem” (se vuoi la pace, prepara la pace), in contrasto con l’antico detto romano secondo cui “si vis pacem, para bellum” (se vuoi la pace, prepara la guerra). A questo proposito suggerisco di leggere “Economia della pace” di Raul Caruso (il Mulino, 2017), per riflettere sugli effetti distruttivi di lungo termine, sempre sottovalutati, che una guerra infligge agli esseri umani, non solo nel suo verificarsi, ma altrettanto nelle fasi preparatorie e successive (si pensi alle risorse economiche destinate agli armamenti, all’alienazione psicologica provocata dalle attività militari, all’assistenza agli invalidi e ai disoccupati nel dopoguerra). Ma per evitare di essere irenici, ingenui pacifisti, occorre prendere atto del fatto che gli esseri umani sono portati non soltanto alla convivenza, alla cooperazione, testimoniate dalle aggregazioni urbane e dalle svariate formazioni sociali, ma sono anche animati da “un terribile amore per la guerra”, per usare il titolo di un libro di James Hillman. Confesso che io stesso, come cliente abituale per l’abbigliamento sportivo di un negozio specializzato nella vendita di armi, mi sorprendo spesso in ammirazione di questi sofisticati strumenti di morte. Basta pensare del resto all’attrazione suscitata dai film di guerra e di violenza, dai videogiochi finalizzati all’uccisione del nemico, o all’ammirazione popolare per le sfilate militari con esibizione di sofisticati mezzi di distruzione. E soprattutto allo scatenamento della malvagità insita negli esseri umani, come testimoniano le violenze gratuite e le torture impunite. Forse consapevoli di questa loro pulsione, gli esseri umani hanno inventato varie forme per domare la loro aggressività: in primo luogo gli scambi commerciali e i giochi competitivi. Gli stessi regimi democratici trovano la loro ragion d’essere nella gestione della conflittualità. Di qui l’importanza di consentire e favorire la competizione, ma imponendo regole, controlli e antidoti rigorosi al suo svolgimento.

Molto si discute sulla globalizzazione e sulla rivoluzione digitale che caratterizzano il terzo millennio, sottolineandone a volte in modo entusiastico gli aspetti positivi, altre volte drammatizzandone gli effetti negativi. Aspetti che coesistono: basti pensare alla grande riduzione delle disuguaglianze tra i paesi sviluppati e quelli emergenti verificatasi negli ultimi decenni, e al contemporaneo aumento delle disuguaglianze all’interno dei singoli paesi. Merita comunque di essere rilevato con speranza il grande balzo in avanti nella alfabetizzazione della popolazione mondiale.

Quanto alla rivoluzione digitale, anch’essa mostra una grande contraddizione: da una parte minaccia l’occupazione di milioni di umani a causa della loro sostituzione con robot e intelligenza artificiale, dall’altra potrebbe consentire una grande liberazione da attività lavorative esecutive e ripetitive, una riduzione progressiva degli orari di lavoro alienanti e una maggiore libertà di autodeterminazione.

E’ certo comunque che problemi di vasta portata come le manipolazioni finanziarie fini a se stesse, svincolate dall’economia reale, causa prima delle disuguaglianze, o il cambiamento climatico, che potrebbe generare situazioni ambientali tali da scatenare conflitti all’ultimo sangue per la sopravvivenza, non potranno più essere risolti a livello delle singole nazioni storiche. Si dovrà agire da una parte ai livelli più vicini alle popolazioni, come nelle città e nelle associazioni volontaristiche, dall’altra a livelli multinazionali, a partire dall’ONU e dalle organizzazioni governative e non governative operanti a livello globale. E’ auspicabile e possibile che la globalizzazione, aumentando la consapevolezza dell’essere tutti sulla stessa barca, favorisca il realizzarsi di un ordine reticolare del mondo, nel quale non vi sia più una competizione devastante per la supremzia imperiale,  come nel passato.

Ho divagato? L’obiettivo di questo scritto era di indagare su come sia possibile conciliare un impegno contro le disuguaglianze e la povertà con il perseguimento di valori che trascendono le esigenze utilitarie, le attività necessarie per la sopravvivenza delle persone e delle famiglie,

E’ antico il detto secondo cui “Primum vivere, deinde philosophari”, come dire: prima occorre fare ciò che serve per vivere, e solo dopo ci si può dedicare ad attività più gratificanti. Ma forse i greci antichi avevano risolto l’apparente dilemma con il concetto che legava il bello con il buono, attraverso la fusione delle due parole Kalòs e Agathòs. Forse è possibile e necessario perseguire una futura “kaloskagathìa”, assecondando un terzo impulso innato negli uomini, oltre a quelli alla collaborazione e al conflitto: l’attrazione verso ciò che è bello.

Una forza politica riformista del terzo millennio dovrebbe tener conto della complessità e della contraddittorietà della realtà, ed essere capace di elaborare ed offrire proposte capaci di perseguire congiuntamente e dinamicamente il buono e il bello per la generalità dei cittadini, con lo sguardo rivolto a un futuro di lungo termine, quello dei figli e dei nipoti.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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