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                     (Popolazione residente in Italia. Dati in milioni. Fonte: ISTAT)

Occorre  guardare oltre il dopo-coronavirus. A una strategia che realizzi un circolo virtuoso tra la produzione di risorse e la loro destinazione allo sviluppo umano e sociale. Perché è agli esseri umani come persone reali  e creative  che occorre indirizzare gli interventi economici

 

 

Era prevedibile: la crisi economica da Coronavirus comporterà una riduzione del nostro prodotto (PIL) a due cifre (altro che zero-virgola!). Molti sperano in un successivo rimbalzo, immaginando una sorta di miracolo economico simile a quello successivo alla seconda guerra mondiale. Purtroppo la depressione durerà a lungo. Ma c’è di più: l’attenzione agli effetti della pandemia ha oscurato la già scarsa consapevolezza del prolungato declino del nostro Paese e delle sue cause. Tra le quali al primo posto va messa la decrescita della popolazione e il suo invecchiamento.

Un recente studio di Bankitalia sul declino demografico dell’Italia, evidenziato da Marco Ruffolo (la Repubblica, 21 dicembre 2019), prefigura in modo incontestabile la progressiva inesorabile uscita del nostro Paese dal novero dei paesi più o meno benestanti, per entrare a far parte dei più poveri.

Due dati mi hanno particolarmente colpito: 1. Nel primo decennio del duemila il PIL italiano è salito di un modesto 3,5%. Ma senza l’apporto degli immigrati, sarebbe sceso del 4,4%! 2. Tra vent’anni gli ultra 65enni, in uscita dal lavoro, saranno un terzo della popolazione, 6 milioni in più. Le persone con meno di 54 anni, potenzialmente attive, compresi anche gli immigrati stimati estrapolando gli afflussi del passato, saranno invece 8 milioni in meno. In questa prospettiva, tutto il sistema finalizzato a garantire i diritti fondamentali dei cittadini (istruzione, sanità, pensioni, infrastrutture) è destinato a saltare.

Un’altro dato drammatico: gli italiani primeggiavano tradizionalmente tra i popoli più risparmiosi. «Nel 1995», mette in luce Salvatore Morelli su la Voce del 17/04/20, «secondo i dati OCSE di contabilità nazionale, l’Italia si collocava al primo posto tra i paesi dell’Organizzazione per tasso di risparmio: il 16% del reddito totale annuale disponibile non veniva consumato, ma risparmiato. Ma il mito dell’Italia come paese di risparmiatori non corrisponde più alla realtà… Nel 2018 era diventato uno dei più bassi tra i paesi economicamente avanzati, pari a 2,5%! Negli USA e in Germania si attesta rispettivamente intorno all8% e all’11%, mentre la media dell’area euro è il 6%».

Per molti il risparmio, anche se c’era, si è volatilizzato: il 40% dei 50 milioni di adulti di cui è composta la popolazione del nostro Paese, cioè 20 milioni di italiani, dispone di “ricchezza liquida” dell’ordine di appena 1000 euro pro-capite. Quanto basta a mala pena per sopravvivere un mese e mezzo, in povertà.

 C’è infine un altro dato, di carattere più generale, fonte Banca Mondiale, di cui si tiene poco conto per la diffusa incapacità di ragionare sul lungo termine: nel 2000 il prodotto di Germania e Italia messe insieme era pari a tre volte quello della Cina. Nel 2017 è il prodotto della Cina ad essere oltre il doppio di quelli di Germania e Italia insieme. E’ quindi in atto un declino dell’Europa. E all’interno di questo, un maggiore declino dell’Italia.

E’ in questo quadro che la pandemia da Covid 19 va collocata, se si vuole proporre un percorso di recupero e di rilancio del nostro Paese capace di successo.

Gli interventi che oggi si vanno proponendo sono tutti basati su un ingente ricorso all’indebitamento, per salvare persone e imprese. Non è possibile fare diversamente: il vecchio adagio secondo cui è meglio insegnare a pescare, piuttosto che dare un pesce da mangiare all’affamato, non vale più quando la sopravvivenza (il pesce donato) è condizione dell’apprendimento.

Ma l’indebitamento, per quanto agevolato da garanzie ampiamente condivise (i sognati eurobond) e da tassi d’interesse quasi nulli, costituiscono una medicina temporanea con gravi effetti collaterali. A meno di pensare che i debiti alla fine non si pagano, o si annullano con l’inflazione, la più iniqua delle tasse. Cosa possibile, ma con conseguenze poco piacevoli. Leggi Argentina, Grecia.

Occorre quindi guardare oltre. A una politica che realizzi un circolo virtuoso tra la produzione di risorse e la loro destinazione allo sviluppo umano e sociale. Perché è agli esseri umani come persone reali che occorre indirizzare gli interventi economici. Se da una parte occorre garantire la loro dignità e i loro diritti civili, dall’altra sono essi che dispongono delle capacità creative, su cui si basa lo sviluppo economico.

E’ diffusa la promessa che nella pandemia nessuno dovrà restare solo. Questa promessa potrebbe tradursi in realtà, proseguendo sulla strada battuta con il reddito di inclusione, o di cittadinanza, tendenzialmente universale, senza costosi ed escludenti condizionamenti burocratici, come suggerisce Rutger Bregman (“Utopia per realisti”, Feltrinelli, 2017).

Questo obiettivo dovrebbe essere abbinato a una politica di valorizzazione immediata di tutte le capacità umane, anche di chi non è ancora entrato nel mercato del lavoro o lo ha perso. Uno strumento essenziale, insieme ad altri equipollenti (come la cassa integrazione) diventerà l'estensione del servizio civile, che è una sorta di moltiplicatore della miriade di iniziative volontaristiche che tradizionalmente si occupano dei più deboli. In prospettiva lo stato e più in generale le istituzioni pubbliche dovrebbero agire come prestatori di lavoro di ultima istanza.
L’obiezione secondo cui una politica di questo tipo sottrarrebbe posti di lavoro ai lavoratori  “regolari” è frutto di una visione statica, corporativa dell’occupazione. La “torta” occupazionale non è un dato invariabile. Chiunque produca, in qualsiasi forma, aggiunge alla torta una fetta.

Ma questa garanzia dei diritti fondamentali di ogni persona dovrebbe far parte di una strategia di vasto raggio mirante allo sviluppo delle vocazioni e delle capacità degli esseri umani. Nel caso italiano, da integrare con la lotta al calo demografico.

A questo scopo io vedrei tre linee di azione:

- Spesare adeguatamente le famiglie con figli. Il traguardo dovrebbe essere la media di 2 figli per famiglia, cioè la mera riproduzione, contro il tragico 1,34 attuale. A questo scopo dovrebbero essere favorite anche le adozioni.
- Incentivare l’immigrazione, senza limiti di sapore razzista: abbiamo bisogno non solo di eccellenze intellettuali e finanziarie, ma anche di raccoglitori di pomodori e in genere di persone che, provenendo da stati di povertà, possano trovare nei lavori umili, ma tutelati e dignitosi, un trampolino di lancio per una nuova vita propria e dei propri figli in Italia. Occorre avere più immigrati: le proiezioni basate sul passato risultano insufficienti. La recente proposta di regolarizzare  i circa 600 mila immigrati vaganti nel nostro paese sarebbe un primo passo, immediato, di una politica di questo tipo.
- Dare assoluta priorità alle spese per la cultura, la ricerca scientifica e umanistica, l’educazione, l’istruzione, rendendole attrattive sia per gli stranieri che per gli italiani tentati di espatriare. L’istruzione dovrebbe essere strutturata come un processo permanente, nelle scuole e nei luoghi di lavoro. In questo ambito un ruolo fondamentale giocherà l’integrazione dei nuovi venuti.

 

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 Giorgio  De Chirico  -  Piazza d'Italia

 

Nel quadro e in funzione di una strategia istituzionale  orientata a far fronte ai problemi fondamentali del Parese, centrata sulla riduzione dalle disuguaglianze e della povertà e  sulla tutela dell'ambiente, agevolando e orientando verso questi obiettivi  le attività economiche, si tratterebbe di aumentare progressivamente la quota di risorse destinate allo sviluppo delle capacità umane, oggi bassissima rispetto agli altri paesi. Ad esempio, secondo l'ultimo rapporto Anvur 2018, l'ammontare destinato alla ricerca in Italia nel 2018 era pari all'1,32% del PIL, al di sotto della media dei paesi Ocse e dei paesi europei, rispettivamente al 2,36% e al 1,95%.

Ma con quali risorse realizzare questa strategia di lungo termine?

Evidentemente l’indebitamento ha un limite, per le ragioni esposte in precedenza. Ma l’alternativa ha un nome vecchio, così stantio che esito a pronunciarlo: le riforme. Che sono soprattutto due: la riforma fiscale e la riforma della Pubblica Amministrazione.

Per la riforma fiscale mi sembra utile partire da una considerazione: come abbiamo visto, una parte rilevante della popolazione italiana non ha più, o non ha mai avuto risparmi da parte. Ma a questa vasta platea si contrappone una più ristretta parte, composta del 20% della popolazione (uno su cinque italiani), che secondo Oxfam International posseggono il 72% della ricchezza nazionale. Si tratta di persone che, al contrario delle precedenti, dispongono di una ricchezza che può corrispondere a quattro, cinque anni di sopravvivenza economica (sempre secondo Oxfam, la ricchezza nazionale italiana è dell’ordine di 8.760 miliardi di euro, oltre quattro volte e mezzo il PIL annuale).

Sarebbe quindi giusta e conveniente per la vasta maggioranza degli italiani (compresi i ceti medi, sempre politicamente corteggiati) una riforma fiscale che chiedesse solo ai più abbienti un moderato sacrificio dei propri averi, esentando i loro atti di liberalità comprovata verso i più deboli. E qui conviene pronunciare altre parole oggi scandalose: maggiore progressività delle imposte sul reddito, e imposte sui maggiori patrimoni e sulle successioni e donazioni. Si tratterebbe di ragionevoli sacrifici per chi possiede ingenti risorse finanziarie e immobili ben oltre la casa di vacanza. Proposte di questo tipo sono state formulate da Emmanuel Saez e Daniel Zucman (The Triumph of Injustice, W.W. Norton & C., 2019) nel loro libro dedicato al sistema fiscale americano, ma con ampi riferimenti all’Europa e specificamente all’Italia. Per la quale credo che si potrebbe contare su un gettito annuale aggiuntivo tra i 150 e i 200 miliardi di euro. Magari da vincolare a cultura, ricerca e istruzione. Magari da vincolare a cultura, ricerca e istruzione. Ovviamente da integrare con una più aggressiva lotta all’evasione.

Quanto alla sempre auspicata e mai attuata riforma della legislazione e della Pubblica Amministrazione, essa si può riassumere in una maggiore semplicità, funzionalità e comprensibilità, ma soprattutto in una maggiore mobilità del personale pubblico con l’eliminazione di uffici, enti inutili ed erogazioni ad imprese decotte (per esempio, ACI e Alitalia). Ma credo che questa guerra, perché di questo si tratta, non potrà mai essere combattuta e vinta se non da un movimento nato all’interno della P.A. stessa, promosso da funzionari lungimiranti e orientati al pubblico servizio più che alla propria casta. Magari sostenuti da un mare di esigenti sardine.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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